E’ un momento dove la Storia si fa avanti e richiede silenzio. Alcuni ospiti della Fondazione Bernacchi giungono nell’atrio della casa di riposo, chi sulla carrozzella chi accompagnato, con il loro carico di ricordi da raccontare: hanno lo sguardo di chi ne ha viste tante e sente il bisogno di esternare il suo vissuto. La recente ricorrenza dell’8 settembre, ottantesimo dell’Armistizio, anche se allora erano bambini, rappresenta lo spunto per sciogliere i lacci della memoria. L’ascolto richiede partecipazione, in cambio la Storia scaturisce viva nella sua quotidianità: “Io e le mie amiche eravamo nei dintorni della stazione di Varese quando il Pippo (ndr. così chiamato l’aereo americano che mitragliava e seminava il terrore tra gli abitanti) -spiega Clelia Terrapieno, 93 anni- è spuntato: ho fatto a tempo a vedere la canna che avanzava verso di noi: ricordo che le mie gambe correvano come non hanno mai corso, il cuore in gola. Imboccammo corso Magenta. Una porta. Era aperta! E fu la salvezza”. Ha ancora nelle orecchie gli allarmi che suonavano, gli aerei che arrivavano carichi di bombe per colpire l’Aermacchi. Mentre lei parla, altre ospiti annuiscono. “Prendilo! Prendilo!” -gridavano i fascisti con il bastone in mano in piazza Montegrappa nei confronti di un uomo a cui somministrarono l’olio di ricino”. Poi la memoria viva di una insegnante elementare, costretta a tenere una ciabatta in bocca come umiliazione. Si sta con il fiato sospeso, l’improvviso ricordo dell’arrivo degli alleati. E in questo momento i sorrisi diventano spontanei e quasi liberatori per tutti: “Li ricordo in via Manzoni. La strada era piena: “Evviva sono arrivati i salvatori” e dai carrarmati fuoriuscivano cioccolato, sigarette, gallette. Momenti troppo belli, indimenticabili”, afferma Clelia. E qui intervengono Enza Bregani, 94 anni di Gavirate, Pietro Iglo, 90 anni di Bonea nella Valle Caudina (Benevento). La partecipazione è corale. Herta Viegener, 90 anni, di Darmstadt in Assia, della cui Università suo nonno è stato rettore, ascolta con grande attenzione. Racconta, come se le avesse davanti agli occhi di bambina, di quelle persone che nella sua città diventavano tizzoni ardenti durante i bombardamenti alleati che sganciavano le bombe al fosforo, del ritorno di suo padre dalla campagna di Russia, dopo aver camminato per km e km, magrissimo con il viso gonfio e della tanta fame patita. Questa parola “muove” gli animi di tutti: “Avevamo i cassetti pieni di tessere annonarie per poter avere la possibilità di comperare quel poco cibo che ci era assegnato –spiega Enza- Mancava il sale e mia nonna spesso vendeva lo zucchero, ottenuto con la tessera, per un pugnetto di sale”. Ricorda il luogo di tortura a Gavirate, i partigiani al lazzaretto, il loro arrivo al 25 aprile e quelle ragazze, che uscivano dalla caserma pelate: “Che impressione! -spiega- Erano colpevoli di aver frequentato gli ufficiali tedeschi e fascisti all’albergo Panorama”. Pietro racconta come se lo vivesse oggi i cosiddetti due giorni di Bonea, durante i quali per un attentato ad un portaordini i tedeschi chiusero in un casolare diverse uomini, ma per fortuna, la bomba che avrebbe dovuto ucciderli colpì solo un angolo e si salvarono. Dall’alto delle grotte del monte Taburno, dove tutti si erano rifugiati vide l’uccisione di un contadino di fronte ai suoi due figli e finalmente i tedeschi in fuga tratti in inganno da quel segnale spostato volutamente, verso un paese con strade strettissime, Il loro ritorno bloccato dai pali della luce divelti e posti sulla strada come sbarramento. La soddisfazione la si legge ancora oggi nei suoi occhi per la resistenza del suo paese.
Federica Lucchini