I nostri paesi non devono commettere l’errore di omologarsi ai grandi centri.
Nell’immaginario collettivo la contrapposizione tra città e paese è sempre stata marcata: da un lato un mondo aperto, cosmopolita, denso di opportunità e promesse, tutto volto al mutamento e al progresso, dall’altro piccoli mondi locali chiusi su se stessi, immobili e conservatori, ma autentici. Al tempo stesso, tuttavia, quelle città così aperte potevano apparire corrotte, decadenti, artificiose, laddove agli universi locali si poteva invece attribuire un’ingenua e commovente semplicità, un’autenticità culturale altrove persa per sempre. Poi, piano piano, il cambiamento: certe differenze si sono affievolite e ormai i paesi vanno assumendo sempre più una fisionomia “cittadina”.
Alcuni fattori d’identità che avevano caratterizzato il paese si sono erosi nel tempo; non sto parlando solo di fattori simbolici quali il dialetto, le tradizioni locali, i repertori di storie di personaggi, ma di cose ben concrete: i rapporti socio-economici, la forma della famiglia, le forme del lavoro, soprattutto gli stili di vita…
Sono in molti a comportarsi oggi in paese come fossero in città. Di giorno al lavoro, al ritorno una capatina al centro commerciale, la sera davanti alla televisione. Nel weekend qualche attrattiva che spesso li spinge però lontano dal paese. Per la vita comunitaria nessun interesse. Rapporti socio-economici, neanche a parlarne! Specie per i nuovi arrivati il “paese” è ormai soprattutto il luogo del verde, della tranquillità, della privacy e niente altro.
Al più qualche partecipazione ai social del tipo “Sei di Cocquio se … “ o “Sei di Pincopalla se … “ ,
un modo per praticare una qualsivoglia nostalgia dell’appartenenza.
Sovrapporre uno stile di vita proprio del cittadino a quello del paese, molto più semplice, ma anche più concreto e comunitario, equivale a cancellare definitivamente il paese stesso.
Faccio appello agli abitanti dei paesi (e anche agli amministratori locali) affinché non si adagino su questo stato di cose; se il paese continua a omologarsi passivamente alle città e non riesce a darsi un assetto diverso, temo sia destinato a diventare un’insignificante brutta copia di una periferia cittadina e sia destinato a smarrirsi in un generale appiattimento.
Dobbiamo fare in modo che certi valori storici del paese – e mi riferisco agli aspetti comunitari, ai suoi miti e ai suoi riti, agli stili di vita, al rapporto con il territorio etc … – possano tornare a essere un segno distintivo.
Ma il paese è anche qualcosa di fisico: le case, le strade, il paesaggio …. E anche a ciò va posta attenzione.
Anche in questo campo dobbiamo cercare di non omologarci alla città. Dobbiamo farne un luogo emotivo, mantenerne il più possibile le caratteristiche originali, salvaguardare i luoghi tipici, ristrutturare piuttosto che costruire il nuovo, bandire tutte le manifestazioni del “modernismo” come le insegne luminose di plastica, i cartelli pubblicitari, le insegne al neon, l’eccessiva segnaletica stradale, l’alluminio anodizzato …; dobbiamo cioè sforzarci di conservare il paese nella sua austera semplicità.
Ritengo non possa essere la città (cioè il mondo culturale e politico della città) su cui è stato basato un modello che ha fallito, a dover insegnare quale sia la strada da percorrere.
Mi concedete una provocazione? Allora arrivo a dire che potrebbe essere addirittura il mondo rurale, con i suoi luoghi e la sua cultura, a indicare un diverso paradigma, un nuovo umanesimo, naturalista, territoriale e comunitario.