Sul quotidiano Repubblica di oggi 21 aprile leggiamo l’articolo di Stefano Boeri: “Coronavirus: via dalle città, nei vecchi borghi c’è il nostro futuro!”. Il nostro direttore ci offre un commento a quell’articolo.
Anch’io sono d’accordo con l’architetto Stefano Boeri. Già da tempo, vado affermando, e con una certa convinzione, che per i nostri paesi martoriati dalla globalizzazione, si prospetta l’opportunità di un riscatto. (Vedi Menta e Rosmarino numero 40). La grave crisi in atto ha ulteriormente rafforzato questa mia opinione in quanto i nostri piccoli villaggi di campagna sono subito ritornati sulla breccia; è bastato un coronavirus per spostare di nuovo l’interesse verso di loro.
In altri momenti difficili della storia i paesi si sono rivelati preziosi e, con le prospettive che ormai si configurano all’orizzonte, potrebbero assumere di nuovo un ruolo rilevante.
Con i loro spazi rassicuranti, essi promettono di diventare un rifugio privilegiato, una risorsa in grado di traghettarci al meglio anche attraverso le difficoltà che si prospettano. La situazione venutasi a creare ci sta costringendo a riflettere sulle modalità del nostro vivere quotidiano, ne sta mettendo in luce alcune criticità.
Quel vivere “strepitoso”, quel “modello città” in cui ci si poteva permettere piaceri anche effimeri e concedersi ai riti della società di massa, oggi sta cedendo il passo a un’altra esigenza: quella di auto-tutelarsi e proteggersi. Anche rintanarsi.
(Il 27% degli abitanti di Milano sono già fuggiti dalla città, si sono già “rintanati”, fonte Istat).
Chi dispone di una seconda casa in campagna comincia a pensare di trasferirsi lì; ormai si sono comprese le potenzialità del lavoro da remoto e mai come ora la gente desidera avere un giardino, coltivare l’orto, fare una passeggiata nel bosco…
I paesi e la campagna racchiudono in sé il significato di sicurezza, rappresentano un riparo ancestrale per eccellenza. Vero che ormai non c’è più la “dimensione paese” serena nel suo isolamento, come la si rappresentava una volta. Nel mondo e nel tempo della complessità, come evidente, tutto si mescola, si confonde e si trasforma e i piccoli centri hanno la loro ambivalenza, le loro contraddizioni, una qualità della vita e un tessuto di solidarietà umana cui spesso fanno da contrappeso una certa angustia della mentalità e un forte controllo sociale sulla vita delle persone. Tuttavia la realtà dei piccoli borghi torna di attualità e rappresenta un’alternativa a quella vita “strepitosa” che forse non potremo più permetterci perché è ormai evidente che dovremo modificare le nostre abitudini. In questi tempi di coronavirus si respira un’atmosfera da fine del mondo, di un certo mondo voluto dall’uomo occidentale negli ultimi due secoli e che ha invaso ormai quasi l’intero pianeta. Sul nostro capo, infatti, come una spada di Damocle, non c’è solo il virus, ma a preoccupare sono anche i timori per l’economia. Le crescite all’infinito su cui essa si basa, e che gli uomini politici continuano stolidamente a cavalcare, esistono in matematica, non in natura. L’attuale modello di sviluppo sembra ormai palesemente in crisi e ogni possibile ripresa della crescita appare estremamente problematica. Anche per questo aspetto, come già accaduto in altri momenti difficili, il “paese” ha dimostrato di possedere le potenzialità per fungere da ammortizzatore ai problemi che potrebbero derivarne.
Chissà? Staremo a vedere. Comunque, esagerando un po’, forse non aveva tutti i torti il Pepin quando tempo addietro mi diceva: “A chi sapp ch’i butà là in un cantun, un dì ghe rifarii ul manich!”.
Alberto Palazzi