Alberto Palazzi ricorda l’amico Mario
Caro Mario, non oso ancora credere e non mi capacito dell’accaduto; quando ci si incontrava tu mi chiedevi “come va?”; a te neppure mi veniva di chiederlo perché dai mali fisici parevi inattaccabile, così granitico, robusto, la bella faccia forte …
All’improvviso però il misterioso genio ti ha abbandonato e la potenza malefica di un male crudele ha cambiato la tua esistenza. Quella strada che fino a ieri sembrava senza fine, ti si faceva sempre più malagevole, e stretta, e corta, e intorno non più i canti dei tuoi cari uccelletti al capanno o i goal esaltanti del tuo Ronaldo, ma il puzzo acre degli ospedali.
Una lotta strenua con un male che progrediva impietoso e dalla tua parte solo il conforto dei tuoi cari (sono stati meravigliosi!) e la sincera vicinanza dei tanti amici.
A tal proposito credo tu sia stato una delle ultime volte felice quando a fine luglio ci hai voluto tutti a casa tua per festeggiare i tuoi quarant’anni di matrimonio; una favolosa tavolata, squisitezze d’ogni genere, vino di qualità, proprio come ai “bei tempi” quando mamma Jolanda ci ospitava tutti. Quel giorno ogni cosa era in apparenza come allora: si scherzava, ci si prendeva in giro, sembrava una festa come tante ne abbiamo fatte insieme, ma ciascuno di noi sapeva in cuor suo cosa per te già era scritto nel grande Libro dei Cieli e, ciascuno, in modo diverso, sentiva una cosa diaccia e pesante che gli stringeva lo stomaco ed entrava come una trave nel petto. Tuttavia ci si sforzava di parlare, di scherzare, tutto doveva sembrare come sempre; perfino nel giardino intorno gli uccellini gorgheggiavano felici. Sembrava una di quelle giornate benedette, dove tutto gira alla perfezione. Eppure tutto era tristemente diverso. Quanto era scritto su quel nefasto Libro oggi si è avverato: la Maledetta ha purtroppo portato a termine il suo compito, perfidamente, cattiva fino all’ultimo istante, fino a costringerti alle estreme cure ospedaliere.
Mi sovvengono allora alcuni dei tanti momenti felici trascorsi insieme o i lontani ricordi della giovinezza: rammento una scena – tu da poco laureato – eri seduto dietro la scrivania dell’ambulatorio con il camice bianco nuovo, tremendamente sprovveduto e solo, praticamente un bimbo nell’immensità misteriosa di quel santuario. E io a fare il (finto) paziente perché in ambulatorio non veniva nessuno.
Poi le tante giornate trascorse assieme, a casa tua, con i tuoi genitori, sempre tanti amici, sembravamo una sola famiglia.
Poi ancora tanti altri momenti felici fino ad arrivare al nostro incontro di qualche giorno fa nel quale ti sei espresso pur senza dire nulla. Quando si arriva all’estremo della vita, tutto di noi parla in silenzio e il nostro cuore manda messaggi di addio e in quel giorno il tuo sguardo mi disse addio per sempre.
Caro Mario, credo che qualche conforto te lo sia però portato appresso; in questi dolorosi momenti si fanno inevitabilmente dei bilanci e credo di potere affermare che con te la vita è stata per tanto tempo buona: hai incontrato in più occasioni gioie autentiche, tante soddisfazioni e qualche volta perfino un riverbero di gloria. Il tuo impegno nei confronti della comunità è stato assiduo e, anche se ora ti trattiene la massima lontananza, voglio credere che, misteriosamente, ogni sera giungerà fino a te la consolazione di coloro i quali hai saputo toccare il cuore. Con occhi ora capaci di guardare oltre l’impossibile cortina, potrai finalmente renderti conto che la gente ti ha voluto bene e allora, con l’eleganza rigorosa di chi soggiorna nell’eternità, ti alzerai dalla vecchia e polverosa poltrona, ti avvicinerai al balcone e, compiaciuto, appoggiandoti al davanzale, accennerai un vago sorriso.