“Nel 1944 avevo 16 anni: non potevo stare a guardare di fronte alla barbarie delle brigate di Salò, come noi partigiani chiamavamo i fascisti”. Oggi Ivonne Trebbi, già staffetta, consigliera comunale a Varese dal 1970 al 1975, deputata nelle file del partito comunista dal 1979 al 1987, medaglia al valore militare con il grado di sottotenente dell’esercito italiano, ha 90 anni e continua a lottare: “Allora i discriminati erano gli ebrei. Oggi i nemici sono gli immigrati: dobbiamo operare per dare origine a una comunità solidale”. Ha la grinta e l’energia che le derivano da una vita permeata da ideali di democrazia. “Ho vissuto un periodo della storia in cui non si può immaginare lo strazio per la mancanza di viveri, in cui alle donne erano già state tolte le loro fedi, simbolo dell’amore famigliare, in cui gli uomini erano stati richiamati per occupare territori come l’Albania, la Grecia e prima ancora l’Etiopia dove erano stati usati i gas. Dopo l’8 settembre 1943 i soldati abbandonati dai comandi fuggivano dal fronte e cercavano di venire a casa: indispensabile è stato l’aiuto nel fornire calzoni, camicie che potessero cancellare il loro ruolo di militari. I miei genitori -continua- mostrarono una certa difficoltà ad accettare il mio ruolo di giovanissima partigiana: era una decisione pericolosa, ma fui irremovibile.
Ripeto: non potevo avere un ruolo passivo. Abitavamo a Castel Maggiore, provincia di Bologna. La bicicletta era l’amica di noi staffette. Era un periodo di una tristezza incredibile: molti i blocchi stradali dei tedeschi per le perquisizioni. Ho imparato a nascondere i volantini negli orli dei vestiti e nei manubri delle biciclette. Eravamo attivissime: cercavamo di passare inosservate. Al massimo strizzavamo l’occhio alle guardie perché ci lasciassero passare. Organizzavamo anche manifestazioni per avere il pane e il latte e non abbiamo esitato ad assalire l’ufficio anagrafe del municipio di Castel Maggiore. Il nostro obiettivo era bruciare i documenti che attestavano i nomi dei soldati renitenti alla leva per non combattere a fianco dei nazi-fascisti: alcuni erano già stati catturati e impiccati. Ricordo ancora quelle scritte sul loro corpo inanimato: “actung banditi”. Eravamo donne di tanti colori politici ma collaboravamo per contribuire con il nostro sabotaggio a rendere difficile la vita alle brigate nere e giungere alla conquista della pace”. Nella storia partigiana di Ivonne non mancano le pagine buie: “Il 5 gennaio 1945 a causa di un delatore venni arrestata e condotta al carcere bolognese di San Giovanni in Monte, struttura che ora è stata inglobata nell’Università di Bologna. Fu un’esperienza traumatica: mi conducevano nei luoghi dove c’erano stati rastrellamenti: volevano che individuassi i partigiani, ma io -e qui la voce di Ivonne diviene forte e decisa- ho sempre trovato la forza di dire di no. Mi torturavano, mi picchiavano, ma io non ho mai ceduto. Mai. Avrei rovinato l’organizzazione partigiana. Bologna è stata liberata dalla Resistenza come altre città italiane, prima che arrivassero gli Alleati. Io sono stata tra i fortunati a cui è stato riconosciuto il valore, attribuitomi con la medaglia. Ho continuato a operare per la democrazia individuando nella Costituzione il nostro faro. Continuo a lottare -termina- perché vedo nell’indifferenza il male del nostro Paese, come lo vedo nei gruppi neofascisti che vogliono risuscitare la violenza e l’odio. Da atea, ammiro Papa Francesco per il contributo che sta dando alla pace”.
Federica Lucchini