QUELL’ANNO VISSUTO COME INSEGNANTE ALLA SCUOLA ALLIEVI GUARDIE DI PUBBLICA SICUREZZA DI PIACENZA, UN MOMENTO DI GRANDE SPESSORE UMANO, DOVE LA VITA SI COLORA DI EMOZIONI E DI SENTIMENTI DAVVERO UNICI E DOVE TI RENDI CONTO DI QUANTO SIA FONDAMENTALE LAVORARE INSIEME PER RENDERE ANCORA PIU’ VERO E IMPORTANTE IL RUOLO DELLA LIBERTA’ E QUELLO DELLA DEMOCRAZIA.
di felice magnani
Sono all’inizio della mia carriera. Non c’è niente di facile e niente di scontato, la vita è tutta da costruire e per farlo devo tirar fuori quei tesoretti che ho coltivato in anni e anni di studio, di esami, di sogni e di speranze. Dopo le primissime esperienze arriva una telefonata benedetta, il maresciallo addetto alle pubbliche relazioni della Scuola Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza di Piacenza mi telefona a casa e mi chiede se sono libero da impegni, se posso insegnare nella Scuola. Sono sorpreso, non mi sarei mai aspettato un interesse così diretto alla mia persona per un compito certamente non facile, ma sicuramente molto interessante e molto utile per capire più in profondità la realtà di un mondo conosciuto solo per sentito dire. Dico subito sì. Ho bisogno di lavorare, di inserirmi nella scuola pubblica, di capire fino a che punto il mio lavoro può darmi delle soddisfazioni, può ripagarmi di anni di studio e di fatiche. L’idea di trovarmi in un ambiente completamente diverso da quello che avevo appena sperimentato in precedenza in brevi giorni di supplenza mi stimola, stuzzica la mia voglia di mettermi alla prova, di provare a essere un insegnante un po’ diverso dal solito, capace di convivere con una realtà umana con finalità diverse da quelle degli adolescenti della scuola pubblica. La mattina successiva sono in caserma, mi presento. La struttura è grande, ordinata e ben organizzata. I giovani allievi fanno il loro ingresso in aula accompagnati da un ufficiale in divisa, il capitano Pozzo. Parole d’intrattenimento e di conoscenza, l’ufficiale mi presenta altri due capitani, il capitano Greco e il capitano Taviani. Mi spiegano l’orario, mi fanno vedere il testo di Storia e di Educazione Civica del Ministero degl’Interni. Mi sento a mio agio, non provo titubanza alcuna, credo di non essermi mai sentito così responsabile e così autorevole. I giovani allievi poliziotti sono sull’attenti dato dal capitano Pozzo, ascoltano e osservano coscienti dell’impegno scolastico che li attende, squadrano il loro insegnante per cercare di capire qualcosa di più di chi dovrà condividere con loro un anno di corso. Do loro il riposo e li faccio accomodare nei banchi. La scena è del tutto simile a quella della scuola pubblica, cambiano soltanto i protagonisti, i nuovi attori della storia, si tratta di giovani che hanno fatto una precisa scelta di vita, molti vengono dal profondo sud, hanno storie non sempre facili alle spalle, sanno che la loro non è una scelta facile e che dovranno conquistarsela con grande impegno e con grande determinazione. Si tratta di giovani che hanno già una coscienza civica ben definita, nata e cresciuta in famiglie nella maggior parte dei casi non ricche, con tanti problemi, dove il lavoro, qualsiasi tipo di lavoro, sarebbe potuto diventare la fine di un’estenuante attesa che avrebbe ridato fiato alla famiglia e alle sue quotidiane necessità. Diventare poliziotti significava collaborare professionalmente con uno Stato e con le sue regole. La mattina è di presentazione, la conversazione è di carattere generale, il primo problema è quello di capirsi, di capire che cosa la scuola chieda loro durante le lezioni d’ Italiano e di Educazione Civica. Tutto è già ampiamente scritto nel testo del Ministero che abbiamo in dotazione, ma si sa che ciò che è scritto deve diventare parola e la parola deve diventare a sua volta sistema, organizzazione, capacità di saper tradurre la conoscenza in modelli funzionali di relazioni umane. Si tratta di una conoscenza primaria che parte da lontano, dalle motivazioni che stanno alla base di una scelta che riverbera direttamente sulla scena pubblica, dove i poliziotti del futuro dovranno dimostrare l’importanza di quello che hanno imparato. L’incontro è garbato, familiare, gradevole e lo sarà sempre, anche nei giorni successivi, durante tutto il corso dell’anno. Gli Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza hanno già dentro una visione solida e chiara di quello che devono fare e di come devono farlo. Il mio intervento tende ad approfondire e ad ampliare la parte più “dogmatica”, quella che si lega alla Legge, alla Costituzione, alle Regole, a brani e passaggi che quantificano con maggiore concretezza le dinamiche che hanno caratterizzato la storia del nostro paese, una storia fatta di guerre, di difficoltà, di eventi e avvenimenti che ne hanno caratterizzato l’evoluzione. Non è difficile dialogare anzi, tutto diventa più lineare con il trascorrere del tempo. L’umanità dei miei interlocutori rende più facile parlare di fatti e personaggi, di temi e problemi di carattere organizzativo e soprattutto di comunicazione, fondamentale diventa saper tradurre le parole di un testo importante in sistema di vita vissuta, legata in parte all’Educazione civica in generale, ma anche all’ordine pubblico, ai rapporti che il poliziotto dovrà instaurare con l’autorità e con le persone con le quali si troverà a dover condividere responsabilità di vario ordine e grado, il rapporto con le regole e con le leggi in particolare e con le pagine della Costituzione italiana soprattutto. I nostri incontri lasciano spesso uno spazio molto interessante a un confronto di natura sociale e culturale legato alla provenienza, alle difficoltà incontrate, alle motivazioni, all’inserimento, a particolari che si legano ai contatti con la vita nelle sue dinamiche interne ed esterne, quelle che vedono gli Allievi sempre più inseriti nella città. Il libro di testo è il punto di partenza, ma poi ciascuno, a seconda del proprio ruolo, diventa attore protagonista di una libertà che cerca il tempo e il modo per esprimersi e definirsi nella sua più vera e autentica realtà. Vivo la mia vita in caserma, pranzo e ceno con gli ufficiali, con gli ispettori, con i commissari, con ex protagonisti che sono rimasti attaccati al loro lavoro come il frutto all’albero. Mi sono reso conto che l’amore per il proprio lavoro è il vero segreto di scelte non facili, che richiedono una naturale propensione a un ordine che nasce e cresce prima di tutto nel cuore e nella mente di chi lo vive e lo deve anche insegnare. Parlo con loro, cerco di capire sempre qualcosa di più, qualcosa che mi permetta di poter dare il massimo a quei ragazzi che mi osservano con molto rispetto e con molta curiosità, che direttamente o indirettamente chiedono di conoscere il giudizio di chi osserva, di chi ha delle aspettative. Gli Allievi sono ragazzi che hanno già raggiunto una loro maturità, conoscono perfettamente il significato di un abbandono, di una rinuncia, di cosa significhi lasciare la famiglia e un territorio per poter lavorare sperando di realizzare appieno quello che hanno sempre sognato. C’è molta umanità nel pensiero di questi poliziotti in divenire, c’è soprattutto la voglia di diventare grandi in fretta, di poter dimostrare sul campo la loro umanità e le loro attitudini, superando difficoltà e problemi che rimbalzano spesso attraverso i giornali o le televisioni. La vita non è poi così segreta, scorre a chiare lettere tutti i giorni nei telegiornali con i suoi pro e i suoi contro, la voglia di mettersi alla prova è tanta, ma ho capito quanto l’aspetto umano sia presente in questi giovani che dovranno schierarsi pubblicamente dalla parte della sicurezza, mantenendo sempre un profilo adatto ai bisogni e alle necessità delle persone. Gli ufficiali della Scuola sono estremamente umani e attenti ai loro Allievi, il clima è di massimo rispetto e di molta cordialità. Mi capita spesso di parlare familiarmente con militari che vivono con grande senso del dovere la loro vita quotidiana, mettendo spesso in primo piano il pubblico rispetto al privato. Nel periodo che ho vissuto con i ragazzi e con gli ufficiali non mi sono mai sentito solo o emarginato, il clima è sempre stato familiare. Ricordo le volte in cui sono stato a cena con mio fratello e con il capitano Taviani nelle trattorie dell’Appennino piacentino, ricordo le lunghe chiacchierate, il grande rispetto nei confronti delle persone e dello Stato, ricordo sempre la delicatezza con la quale i dirigenti della Scuola approcciavano i problemi e le difficoltà che incontravano. Una cosa l’ho imparata al volo, l’amore per il proprio lavoro riesce a creare situazioni che aiutano moltissimo a capire meglio il senso della vita, il significato da dare alle azioni, a tutto ciò che impatta con la realtà umana e le sue difficoltà. Un anno meraviglioso che ricorderò sempre. Chissà dove avranno lavorato quegli Allievi che sono stati miei alunni anche se per un tempo limitato, so per certo che gli ufficiali hanno fatto carriera, sono stati trasferiti chi a Roma e chi in altre città, ho perso di vista il tenente colonnello comandante della Scuola, so comunque che l’esperienza vissuta nella Caserma di viale Malta di Piacenza mi è servita tantissimo, ha fatto in modo che mi sentissi più sicuro, più capace di intrattenere rapporti e relazioni con il mondo esterno, mi ha permesso di conoscere più da vicino quel mondo della Pubblica Sicurezza di cui avevo sentito molto parlare durante gli anni universitari, mi sono reso conto di quanta umanità ci fosse negli uomini e nelle donne della Polizia di Stato, di come fosse naturalmente facile stabilire con loro un ottimo rapporto umano. L’educazione è stata il mio punto fermo, ho sempre cercato di far passare questo elemento nel quale ho creduto, soprattutto nel prosieguo della mia vita di giovane insegnante. Credo che alla base di ogni incontro ci debba essere un grande rispetto e il rispetto lo si raggiunge solo se ci sono state agenzie educative che hanno lavorato, credendo fino in fondo nel loro impegno e nel loro lavoro.
QUELL’ANNO VISSUTO COME EDUCATORE PRESSO IL COLLEGIO MASCHILE DEGLI OSPIZI CIVILI DI PIACENZA, UN MOMENTO DIFFICILE, MA ESTREMAMENTE UTILE PER CAPIRE COSA SI DEVE FARE PER RISOLVERE I PROBLEMI DI UNA GIOVENTU’ ALLE PRESE CON VARIE FORME DI DISAGIO: MANCANZA DI UNA FAMIGLIA, SOLITUDINI PROLUNGATE, CARATTERIALITA’ DIFFUSE, CARENZA DI VALORI.
di felice magnani
Siamo a metà degli anni settanta, vengo convocato dal presidente degli Ospizi Civili di Piacenza, con sede in via Gaspare Landi, per una proposta di lavoro. Il presidente, noto neuropsichiatra, mi presenta il collegio, il suo impegno, la sua finalità, i suoi obiettivi, non è tenero, è molto diretto, non bada a mezzi termini, mi dice che prima di essere assunto devo dimostrare di essere all’altezza della situazione, devo fare quattro mesi senza stipendio, come volontario, prima che il consiglio prenda decisioni in merito al mio futuro. Il concetto era molto chiaro, nessuno mi regalava nulla, dovevo prima dimostrare, il mio futuro dipendeva da come mi sarei comportato, dalla qualità dell’impegno che avrei messo come educatore del collegio maschile. Una bella prova davvero. La proposta mi solletica subito, l’importante è iniziare il lavoro e dimostrare che ce l’avrei fatta. I ragazzi del collegio, ex collegio Torricella, molto conosciuto per le sue note caratteristiche educative, mi offriva la possibilità di conquistare il posto, perché di vera e propria conquista si trattava. L’impegno con ragazzi difficili della città era un banco di prova molto importante, dovevo rimanere sempre, giorno e notte, mattina e pomeriggio con loro, dovevo provvedere a tutti i loro bisogni e le loro necessità. C’erano ragazzi molto diversi tra loro, qualcuno era portatore di handicap (allora si chiamavano così), qualcun altro era privo della famiglia, c’era chi ne aveva una ma molto problematica, c’era qualcuno che aveva una madre ma era senza il papà, in alcuni casi i problemi riguardavano anche varie forme di devianza famigliare che esponeva i figli a situazioni di grave disagio. Il collegio offriva tra l’altro ospitalità ad alunni che frequentavano scuole della città e che, provenienti da diverse zone della provincia, cercavano un alloggio per dormire, mangiare e per poter studiare e fare i compiti. In collegio ho imparato tutto e cioè che il compito dell’educatore non era solo quello di gestore o di guida generica, ma soprattutto di persona che sapeva comprendere le necessità dei ragazzi, che sapeva stare con loro, parlare, entrare nel loro animo, fare in modo che si sentissero a loro agio e che riuscissero quindi a esprimere al massimo livello i loro problemi. Con me c’erano due educatrici di lungo corso e un sacerdote che era il direttore del collegio. Una bella équipe di persone che doveva cercare di trasmettere dei valori a ragazzi che non per colpa loro li avevano persi per strada. Dopo quattro mesi di assoluta e totale dedizione ho capito molte cose, soprattutto due, che la vita non è sempre quella che avremmo desiderato e che la chiave di lettura del mondo umano dipende da noi e da nessun altro, dipende da come sappiamo leggere i bisogni e le necessità, da come riusciamo a relazionarci con quelle persone che cercano nel confronto quotidiano lo spazio e il tempo per una conoscenza più vera e approfondita della vita in tutte le sue forme. Ho capito soprattutto che con la dedizione, l’affetto e la fermezza si possono risolvere tanti problemi e che l’uomo ha soprattutto bisogno di affetto, di sapere che gli altri ci sono e che sono sempre pronti a dare una mano. Come educatore ho giocato con i ragazzi, li ho messi a letto in qualche caso cantando la ninna nanna, ho raccontato loro delle storie di vita personale, ho parlato delle mie simpatie sportive, ho giocato tantissimo a calcio, ho fatto bellissime partite a ping pong, li ho spesso accompagnati a vedere i cavalli nella provincia piacentina, li accompagnavo alla santa messa in duomo la domenica, spendevo gran parte dei soldi che guadagnavo per arredare quelle camerate e quegli stanzoni che nella loro apparente immensità trasudavano freddezza e solitudine. Senza un arredamento adeguato quel mondo diventava una sorta di muro bianco senza vita, un invito quotidiano a mettere in moto una fantasia che andava sollecitata e fatta vivere, per andare oltre le difficoltà. Con l’arrivo di paesaggi e animali, con la forza immaginativa che i poster sapevano creare, il collegio si apriva, usciva dai confini di una naturale prigionia e creava momenti di ritrovata felicità. Ai ragazzi piaceva sapere che qualcuno si interessava a loro non solo a parole, ma con i fatti. I rapporti sono diventati sempre più collaborativi e umanamente profondi. Mi chiama il presidente e mi conferma che ero stato assunto, il consiglio aveva deciso per una risposta affermativa. Li avevo convinti, avevo dimostrato che potevo farcela e che quel mondo così apparentemente lontano era tagliato su misura per un insegnante che iniziava un lungo percorso di militanza nella scuola. La vita in collegio era scoperta continua, i ragazzi, anche quelli più difficili, dimostravano tutta la loro disponibilità alla comprensione e al dialogo, capivano che l’educatore che avevano di fronte meritava la loro stima. A volte non è poi così difficile capire gli altri, basta frequentarli e dimostrare loro che si può costruire insieme una vita più degna di essere vissuta, più capace di mettere in luce tutte le cose belle che portiamo dentro e che, se ben coltivate, possono sbocciare all’improvviso, creando le condizioni di una vera e propria rinascita umana, sociale e culturale. Non è stato facile dover dimostrare, ma è stato sicuramente incoraggiante, a volte non sappiamo quanto sia importante tirar fuori quello che abbiamo dentro e che molto spesso, per varie forme di paura o di timore non riusciamo ad esprimere. L’esperienza del collegio è stata veramente importante, mi ha insegnato a fare, a mettermi in gioco, a non avere paura di dimostrare, a essere semplicemente me stesso, cercando di vedere sempre nell’altro un essere umano da aiutare, da risvegliare e da coltivare. Oggi sentiamo spesso parlare di episodi di violenza, di prevaricazione, di bullismo nei confronti di insegnanti, di autorità che non sanno più indicare una via, che si trovano compresse in situazioni apparentemente irrecuperabili. Eppure una via c’è sempre, un educatore deve essere vivo e propositivo, non deve mai tirarsi indietro, deve imparare a leggersi con più attenzione, per capire meglio chi ha di fronte.