Dal
CALDANA
Giungo da lontano in questo paese e sento che mi ci fermerò tutta la vita. Dietro di me ho lasciato gli anni della gioventù consumati nei disinganni, nei falsi amori, nei lunghi viaggi e nelle vicende della guerra. Giungo povero come un emigrante che invano ha cercato fortuna nei campi lontani della vita. Ritorno alla terra dove le generazioni della mia famiglia si sono succedute fecondandola del loro lavoro. Al Camposanto, che è all’inizio del paese, mi fermo e saluto oltre i cancelli la lunga schiera di quelli che hanno preparato sin dalla notte dei tempi la mia vita. Qua abbandono ambizioni e sofferenze; qua attendo che si purifichi il mio spirito[…]. A Caldana, umile e insignificante punto del globo terrestre, trovo le cose belle che invano ho cercato ovunque: la pace, il silenzio, la dolcezza di vivere, la bontà e la devozione ai ricordi della propria stirpe. Le verdi montagne, le grandi selve, i sentieri, le vecchie case di sassi, il lago vicino e i selvatici sono gli elementi che concorrono a farmi ritrovare questi beni. Altri cerchi lontano, nelle vie del mondo e dell’avventura, la propria felicità. Non ho invidia: io getto il mio cuore nelle selve e mi fermo a Caldana lieto d’entrare a far parte del ritmo semplice delle cose naturali.
IL CONSENSO
Dal balcone di casa sua il Battista mi chiama col viso sorridente:
“Debbo ritirare in Chiesa il consenso matrimoniale. Vuoi farmi da testimone?”
“Volentieri, un salto in casa a cambiarmi d’abito e sono da te”.
Entro in casa correndo, scelgo l’abito migliore, l’infilo e subito sono nella strada dove i futuri sposi già m’attendono. Ci avviamo alla volta della Chiesa.
La sera è ormai scesa su tutte le cose. Il profumo delle acacie, il concerto dei grilli ed il tepore della tarda primavera colmano il momento. Davanti alla Chiesa il silenzio si spalanca su una balconata di luci perdute nella notte.
I tigli della piazzetta hanno ancora fra le foglie la eco delle litanie.
Ora la porta è sprangata e là dentro, nell’ombra, gli angeli dell’altare hanno chiuse le ali e, sospeso il loro volo, si sono addormentati. I Santi, accosciati ai piedi dei loro piedistalli, si riposano, stanchi delle pose mistiche sostenute tutto il giorno. Unico essere attivo, in quel silenzio, il tarlo si sazia del legno antico degli scanni. Le funi delle campane pendono immobili nella cella campanaria e i bronzi, lassù in alto, custodiscono pigramente i battacchi, anime squillanti finalmente quiete. Nella canonica è uguale il silenzio. Incontriamo nel lungo corridoio bianco e claustrale la perpetua che ci accoglie con un gesto di maliziosa confidenza e ci guida sino allo studiolo del curato.
Dopo brevi preliminari il sacerdote fa rimanere me e la futura sposa e manda il fidanzato in cucina da dove lo sentiamo parlottare con la perpetua. II silenzio, l’odore mistico dell’incenso che per l’uscio dischiuso della sagrestia giunge dalla chiesa, lo scaffale dei vecchi libri con le vite dei Santi, l’effigie del Papa immobile in una eterna benedizione, il crocefisso di bronzo e avorio che getta una grande ombra sulla testa del Curato intento a scrivere e le pagine, gialle d’antichità, del “cronicum” danno al momento un sapore di poesia antica e misteriosa. Le domande del curato alla promessa sposa si susseguono affrettate, bisbigliate e quasi timide. La donna, a sua volta, risponde confusa a bassa voce, intimorita dal luogo inconsueto e dal tono con cui le parla il sacerdote. Dalla cucina giunge il parlottare del fidanzato con la perpetua. Nei momenti in cui il curato scrive, il silenzio si fa più grande nella stanzetta e si odono i nostri tre respiri giocare un accordo di tenui suoni con lo scricchiolio della penna sulla carta. Quando la donna ha risposto a tutte le domande del sacerdote questo tace un attimo come preparando in sé il discorsetto da tenere. Quando riprende a parlare tiene gli occhi bassi sul tavolo. II crocefisso getta sul suo volto pallido un’ombra scura che lo rende stranamente dolce. Dice quali sono i doveri fondamentali del matrimonio e quando giunge al punto in cui deve parlare della necessità dell’accoppiamento e della prolificazione s’imporpora in volto e… parla in latino. La donna si agita, sorpresa sulla sedia. Un attimo strano fatto di silenzio e di echi suscitati dai nostri rispettivi pensieri stagna nella stanzetta. II tic tac della pendola sembra debba preludere a un fragore improvviso. Invece si sente la molla del meccanismo sciogliersi frusciando e, dopo poco, le ore rotolano in mezzo a noi con un suono sordo e lontano. II curato si alza, fa firmare alla donna un documento poi ci congeda e chiama il fidanzato. Spetta a noi ora attendere in cucina. La perpetua non c’è più. Sta dormendo e, forse, sognando nella stanzetta sopra la sagrestia sogni verginali avvolti da quell’odore d’incenso che si perde per tutta la casa. Forse l’angelo custode si è addormentato accanto anche a lei. A questo penso mentre la donna mi parla dell’abito da sposa che indosserà il giorno delle nozze. Sento le sue parole giungermi da lontano e non m’interesso a ciò che dice, rapito come sono dalla poetica vicenda e dal candore del momento. La chiesa, i suoi santi, la canonica, il curato, la perpetua, l’odore dell’incenso, i fidanzati… un infaticabile ricordare e sognare in me. Il tempo, scrollato dalle spalle qualche secolo, mi riporta nella canonica di Don Abbondio dove Renzo e Lucia tentano di circuirlo can l’inganno. L’antica vicenda s’intrica nella realtà del momento che vivo e mi turba. La donna, che non s’è accorta del mio sognare, mi prende una mano e m’invita a guardare un curioso oggetto che è sulla credenza del curato. Si tratta di una bottiglia sigillata nella quale è stato fatta entrare una scala, una croce, dei chiodi, una corona di spine e un martello di legno. Tutti gli oggetti sono in miniatura e suscitano di nuovo in me un’altra vicenda di sogni e di pensieri che vanno dalla bella ingenuità dei simboli popolari alla tragedia del Cristo deriso e crocefisso. Intanto dalla saletta del curato giunge, a frammenti, la conversazione: “Ti ricorderai, indubbiamente, tutti i precetti e le preghiere che t’insegnò il povero Don Mario quando venivi da lui a dottrina”. “Per dir la verità ricordo più d’ogni altra cosa gli scapaccioni che un giorno mi diede perché disturbavo i compagni durante la lezione”. Si sente una risata confusa e divertita poi consigli e precetti bisbigliati in fretta mentre la pendola batte di nuovo le ore. Dopo poco tutto è terminato. Auguriamo la buona notte al sacerdote e usciamo nel cortile. La sera è già fonda e un vento caldo la corre tutta scuotendo i rami dei tigli. Non diciamo nulla. Più avanti scoppiamo a ridere e, divertiti, come se avessimo giocato un gioco da fanciulli, camminiamo nella notte.