Quella pastiglietta di cianuro, che portava dentro a un contenitore legato al collo mediante una catenina, era l’emblema dei compiti altamente rischiosi che la Formazione Partigiana “Brigata Garibaldi” di Milano assegnò a Giuliana Bornstein, 21 anni, nel momento in cui, dall’aprile 1944 fino alla fine del conflitto, scelse di diventare una gapista, combattente che operava in città, agli ordini di Antonio Greppi, primo sindaco dopo la Liberazione. Non sapendo a cosa sarebbe andata incontro, considerato l’alto rischio della vita, avrebbe potuto trovarsi nella necessità di usare il veleno prima di finire sotto tortura e rivelare nomi di compagni. Queste poche righe vogliono essere un ricordo di una figura che, a vent’anni dalla morte, a Gavirate ha lasciato il segno: all’interno della Fondazione Bernacchi ci sono le volontarie che portano la divisa dell’associazione Giuliana Gamberoni, ricordata con il cognome del marito. Ed è proprio in questi due estremi -da una parte il coraggio di combattere e dall’altra la tenerezza e la premura nei confronti dei malati per i quali era capace di sacrifici grandi- che si colloca la vicenda umana di questa donna, di origine ebraica per parte di padre (un ingegnere polacco venuto a lavorare in Italia), nata nel 1923 a Goerlitz in Germania. Cresciuta in una famiglia cosmopolita- il padre poliglotta vide la luce nell’allora Costantinopoli, oggi Istanbul, grazie alla sua abilità commerciale ricoprì diversi incarichi, la madre, infermiera, fu cantante e artista- crebbe con quell’apertura mentale e con quell’autorevolezza che sempre la distinse. L’immagine della roccia è confacente alla sua figura. Sola, appena diplomata al liceo Manzoni, per il rotto della cuffia, prima che le leggi razziali venissero applicate in toto, mentre la madre e il fratello avevano preso la via di Dachau, da dove per fortuna poi ritornarono, in una citta in mano ai tedeschi, scelse di combatterli, forte della conoscenza del tedesco. Ricordava ancora con rabbia e disgusto la vendita dei nominativi degli ebrei agli occupanti: in questo modo chi denunciava aveva diritto a prendersi parte della razzia e in più ad una cifra elevata. “Era un grosso incentivo a venderci tra di noi”, ricordava con disgusto. Lei nel frattempo aveva conosciuto un ufficiale tedesco che le aveva firmato un lasciapassare sulle carrozze riservate alle truppe. La valigia di Giuliana conteneva materiale clandestino e armi e spesso veniva portata dallo stesso ufficiale che, in realtà, sapeva della sua attività clandestina. “Stasera non è il caso che tu vada a dormire a casa”, le diceva. Ci sarebbe stata, dunque, una retata. Lei ricordava con gratitudine le persone che la ospitavano senza sapere granché di lei. Il 25 aprile la colse a Viggiù a disposizione del Comitato di Liberazione Nazionale, ma si allontanò perché i Gap locali utilizzavano gli stessi metodi violenti dei nazisti e dei fascisti con quelli che erano stati nemici. Preferì dedicarsi al Comitato Bambini di Cassino, rasa al suolo dai bombardamenti alleati e alla redazione de “L’Ordine Nuovo”, il periodico del partito comunista in cui lavorava anche l’amico Gianni Rodari. Dedicò la sua vita all’organizzazione degli asili nido e, infine, nell’ambito dell’Unitalsi quell’impegno a tutto tondo negli ospedali e nelle case ad assistere i malati con la sua umanità e il suo senso concreto. Quando la sua Panda rossa non ha scorazzato più di giorno e di notte per le vie di Gavirate, perché la malattia le stava presentando il conto, fu proprio il segnale che la roccia ci stava lasciando, ma con una eredità morale di altissimo spessore.
Federica Lucchini