Da Gavirate per fermare i Boxers
Quelle lettere ingiallite, conservate con grande cura in una scatola di latta dai nipoti, lette e rilette dai genitori, dai fratelli, dalle sorelle, sono quello che resta di una vita consumata nella lontana Cina in una guerra che non aveva niente a che fare con i ritmi della terra che i contadini da secoli conoscono. Quelle parole che inducono alla tenerezza, piene di speranza nel ritorno a casa, furono crudelmente smentite da un attacco di tubercolosi acuta a bordo della nave “Vesuvio” il 17 novembre 1900 mentre solcava gli oceani dopo aver combattuto contro i Boxers. “Cari genitori, non pensiate, poiché io vado in Cina, che non abbia ritornare – scriveva il bersagliere Giuseppe Bravo di Gavirate – voglio ritornare presto, se il Signore mi dà la salute. Guardate che se sono destinato alla morte, posso morire anche in Italia e se sono destinato a ritornare, posso ritornare anche se sono in Cina”.
E’ strana la Storia: ha dei collegamenti, delle relazioni imperscrutabili che con la sfera del razionale e dell’umano non hanno niente da spartire. Che dire di un giovane contadino di vecchia famiglia gaviratese, nato il 24 ottobre 1878 e cresciuto nella casa dei nonni paterni alle falde del Campo dei Fiori che aveva in sé il culto della terra tramandato dagli avi, calato improvvisamente in una realtà lontanissima da casa, la Cina, per combattere contro i Boxers, contadini tradizionalisti e xenofobi? Mentre Giuseppe (chiamato familiarmente Antonio) nel 1900 era di leva nel primo Battaglione Bersaglieri 3^ Compagnia di stanza nel sud dell’Italia, sperava che la naja finisse presto per poter ricongiungersi al papà Angelo, alla mamma Domenica, e dar loro man forte in campagna. Ma il 21 giugno l’assassinio dell’ambasciatore tedesco da parte dei Boxers significò l’inizio di una guerra che coinvolse le maggiori potenze europee. L’Italia decise di parteciparvi con un contingente nutrito e per Giuseppe significò partenza immediata per l’Estremo Oriente. “Carissimi, – scrisse ai genitori prima di partire a bordo del “Giava”, la nave che salpando da Napoli il 19 luglio l’avrebbe condotto in Cina – io vengo a domandarvi scusa se vi offesi qualche volta. Io credo che voi mi perdoniate di tutto perché andiamo molto lontano e ritornare è difficile. Ma la mia speranza è di ritornare perché soldati ne hanno mandati tanti le altre potenze e poi anche adesso l’Italia ne manda cinquemila”. Ma l’ottimismo soccombe alla paura dell’ignoto: “Il viaggio che abbiamo da fare è molto lungo. Anche andare per mare sono 45 giorni e se il mare è cattivo alloro possono essere due mesi e anche più”.
Non fu facile debellare i Boxers: il 27 settembre dalla città di Tientsin, quartiere generale delle truppe europee scrisse: “Il giorno 20 siamo partiti per il combattimento di Tac Chuz dove c’erano quattro forti occupati. Qui abbiamo attaccato il fuoco e, prima di smettere, siamo entrati nei forti”. Poi un momento di confidenza con i genitori: “Presto ci sarà un altro combattimento e speriamo di tornare anche da questo, se Dio mi dà la grazia. La vita militare non è bella in tempo di pace, ma in tempo di guerra è peggio: mi fanno patire la fame e la sete e molte fatiche e dormire per terra, ma se Dio mi dà la grazia di ritornare sono contento anche di queste fatiche”.
In una lettera ad una zia, il 23 ottobre, scrisse: “Auguro buone feste di Natale”. Un presentimento? Poteva essere felice giacché il momento del ritorno si avvicinava.
Poi il 25 novembre 1900 alle 9,15 alla famiglia fu trasmesso dal Ministero della Guerra un telegramma firmato dal comandante del 9^ Bersaglieri: “Partecipo morte caporale Bravo Giuseppe appartenente truppe Estremo Oriente avvenuto il 17 corrente a bordo del Vesuvio per tubercolosi acuta. Prego dare partecipazione alla famiglia nel modo che crederà migliore”.
Federica Lucchini