– Quei 186 scalini della scala della morte del lager di Mauthausen li aveva saliti per ben 40 giorni a partire dal 25 giugno 1944, dopo essere giunto al campo proveniente da Carpi su carri merce senza acqua né cibo. La sua colpa era quella di essere un partigiano. La testimonianza di Leonildo Fumagalli, deceduto l’anno scorso a 97 anni, quando arrivava a questa terribile esperienza, era molto emozionante. “Lavoro alla famigerata cava di pietra, dove c’č la sconnessa scala della morte, che facciamo ogni giorno cinquanta volte portando in spalla dei blocchi di sasso”, aveva spiegato a Paolo De Toni nel libro edito dall’Anpi “Per chi suonò la campana”. L’alimentazione ridotta ad una scodella di pelli di patate e rape, la marcia di 7 chilometri appena scesi dal treno in direzione del campo non demolirono la sua forte fibra. “Schnell! Arbeit! E lė a portare su queste pietre – continuava il suo ricordo raccolto ne “Il fiore meraviglioso/7″ del circolo culturale Anpi di Ispra – Chi ce la faceva arrivava in cima, chi non ce la faceva a metà salita cadeva con il blocco che andava giù a gran velocità e chi era dietro faceva una brutta fine. Chi non ce la faceva più, buttava il sasso e le SS lo buttavano da un dirupo di 70 metri. Bisognava andarli a prendere i caduti, portarli ai forni crematori. Mentre li accatastavi, sentivi i gemiti di quelli che magari era già un giorno o due che erano lė. Là, se non eri efficiente, ti portavano ai forni”. Finché per Leonildo giunse il giorno in cui il kapò della sua baracca chiamò il suo numero: 10 10 10. La sua eccezionale capacità lavorativa era stata notata e venne quindi assegnato ad una ditta fuori dal campo, dove fu impiegato fino alla mattina in cui non sentì la frase abituale: “Los! Arbeit!”, ma i cingoli dei carri armati americani, venuti a liberare il campo: “Allora – ha raccontato a De Toni – usciamo tutti dalle baracche. Non c’č più nessuno, non ci sono più le SS, non ci sono più i kapò. Tutti, ciascuno nella propria lingua, gridano la stessa frase: “Siamo liberi!” E’ l’8 maggio 1945″.
“Ma chi me l’ha fatto fare? – era solito dire della sua esperienza partigiana – Facevo quattro passi e andavo in Svizzera. Ma a fare che in Svizzera? E sono rimasto qua”. A prendere botte “di una brutalità assoluta” nelle varie carceri italiane, ad essere accompagnato al plotone d’esecuzione per poi essere allontanato, a caricarsi sulle spalle un compagno che non ce l’ha fatta nella marcia dei 7 km a Mauthausen, ad indossare la famosa casacca a righe. Fino al ritorno a casa.
Federica Lucchini