E’ stata un parto delle sua anima. Dapprima immaginata e già amata cinque anni prima della sua costruzione, al punto di renderla viva in un suo saggio pubblicato nel 1947 “Realismo e fantasia”, edito dai Fratelli Bocca di Milano, a sue spese. La casina rosa nel podere di Santa Trinita è stato il luogo mitico dello scrittore Guido Morselli, dove lui scrisse le sue opere che lo fecero conoscere a livello internazionale dopo la sua morte. Un edificio calato in uno scenario di vita idilliaca dove il silenzio della campagna dà un’anima alle cose e dove trovava vita felice anche la cavalla Zeffirino, acquistata nel 1956, due anni prima che lui venisse stabilmente ad abitare a Gavirate. Il ritrovamento del progetto della casa “villino da costruirsi in Gavirate per conto del sig. Morselli” a cui il Comune concesse il nulla osta, può dare origine al “viaggio” della mente dello scrittore, estrapolato dalle pagine dello stesso saggio, impostato su dialoghi tra lui e l’amico Sereno. Percorsa l’erta salita, tra filari di viti e dove la radura erbosa corona il poggio, lo scrittore si trova di fronte “alla dimora che da anni ha sottratto al mondo il mio amico Sereno”. E’ in questa frase che si comprende l’identificazione tra lui e l’amico dal nome che rappresenta un’aspirazione per Morselli, morto suicida nella sua villa di Varese il 31 luglio 1973 a 61 anni. “Quadrata, rossa d’intonaco, genuinamente rustica e insieme di schiette proporzioni, quella sua casa bellamente si accorda alle cose intorno, all’erba, agli alberi, al cielo – scrive Morselli- Le stanze a terreno danno agevolmente sul prato per la soglia appena rilevata, su cui si ferma spesso qualche lucertola a curiosare. Su per la facciata la clematide è folta, mette su quel rosso una nota di colore spento, un po’ languida”. Morselli annota che sul lato di ponente si affaccia il balcone della camera che lo ospitò quell’estate ed altrettanto familiare era diventato lo scrittoio con vista lago. “In quella piccola stanza -riprende- (un caminetto, un tavolino, una specchiera, pochi libri e in quella stagione un gran piatto di frutta fresca), io mi riducevo la sera innanzi di coricarsi, a raccogliere per iscritto i nostri ragionamenti, o a lavorare al mio diario. Innumerevoli volte, nei giorni amari e procellosi che per me sono seguiti, mi sono sorpreso a evocare quelle ore di pace raccolta, quella solitudine amica. Oltre il tocco mite della vecchia pendola, entro e fuori la casa non v’era voce, e dalla finestra giungeva sulle mie carte il sentore umido del prato notturno”. Chi ha avuto il privilegio di vedere la casa di Morselli, come era in origine al pianterreno, la descrive affascinante e calda, fuori dal comune negli anni Cinquanta: il salone, luogo elegante, raffinato, rivestito da un parquet lucido, aveva le finestre che davano sul prato antistante (“il laghetto verde” lo definiva), di fianco alle quali aveva posto la scrivania per godere del panorama e trarne ispirazione. E quell’angolo era vissuto, pieno di libri. Adiacente questo spazio, la camera, da cui la visione esterna era altrettanto impareggiabile. La scala conduceva ai piani superiori che lo scrittore frequentava poco, disturbato com’era dai rumori anche dei ghiri. Curioso che l’ingresso fosse nel retro della casa (il suo piacere della solitudine era noto): un corridoio accoglieva gli ospiti. Per la cucina e i servizi lo spazio al pianterreno era ridotto. Una casa a misura di scrittore.
Federica Lucchini
Guido Morselli (Bologna, 15 agosto 1912 – Varese, 31 luglio 1973)