Oggi 10 dicembre alle ore 14.30 nella chiesa parrocchiale di san Giovanni si svolgeranno le esequie di Carlo Biasoli, ultimo reduce di Gavirate che aveva partecipato al secondo conflitto mondiale. Il 30 aprile scorso aveva compiuto cento anni con la gioia di essere attorniato, oltre che dai famigliari a lui legatissimi, anche da tante persone che lo stimavano da una vita. Ha seminato bene durante la sua esistenza: faceva parte di quella generazione che ha ricostruito l’Italia. A muso duro aveva affrontato il futuro dopo essere ritornato dalla campagna di Russia che aveva vissuto fino in fondo negli aspetti più dolorosi: muratore capace, agricoltore appassionato, aveva formato una bella famiglia. Decenni di efficienza, di lavoro, di fede, tenendo dentro tutti gli orrori che aveva visto. Poi il fiume dei ricordi è diventato dirompente e, pur continuando nella sua attività, non c’era giorno che non raccontasse: aveva fatto parte del 3° Savoia Cavalleria, Divisione Celere, e con il suo cavallo Berceto, che lo seguiva fin dalla campagna in Jugoslavia, era stato ferito all’alba del 24 agosto 1942 durante l’ultima carica della nostra Cavalleria nei pressi del villaggio di Jsbuscenskij, nella steppa russa. Una pagina di storia entrata nella leggenda: lui faceva parte dei 650 cavalieri che si lanciarono contro i carri armati sovietici e contro due battaglioni di fanti siberiani forti di 3mila uomini che tentavano l’accerchiamento delle nostre truppe. Fu una carica travolgente a colpi di bombe a mano e sciabolate che salvò centinaia di soldati italiani in fuga. Lui conservava con orgoglio tutti i documenti che testimoniano la sua esperienza iniziata a contatto con gli ultimi rampolli della Belle Epoque e terminata fra il freddo glaciale della steppa russa, a contatto giornaliero con la morte. In particolare la sua piastrina di riconoscimento, portata con sé lungo il suo lunghissimo rientro in Italia, pieno di peripezie e di agguati: “2268 (73) C/BIASOLI CARLO di FILIPPO e di GIOVANNA BIASOLI/CLASSE 1918/ GAVIRATE”. Il suo racconto non aveva mai tinte cruente. Quando lo stava per diventare, si interrompeva. Abbassava la testa e allora si capiva che la sofferenza era troppo grande. Riprendeva parlando degli ucraini non ostili agli italiani, della loro ospitalità. Ricordava il movimento continuo per evitare il congelamento con un abbigliamento assolutamente inadeguato, il divieto assoluto di scaldarsi le mani congelate sopra le stufe nella casa ucraine: la mancanza di sensibilità faceva sì che vi cadessero sopra e venissero ustionate irrimediabilmente. Ricordi che lo assillavano senza però fargli dimenticare i valori che metteva in pratica quotidianamente.
Federica Lucchini
Dal n. 23 della rivista Menta e Rosmarino