CHI E’ L’INTELLETTUALE?
Chi crede che l’intellettuale sia un egoista che pensa solo al benessere di se stesso o di una eventuale lobby di appartenenza, forse si sbaglia. Per troppo tempo questo personaggio è stato trattato con distacco, come se si trattasse di un animale raro, asociale, senza rapporto alcuno con le persone e i loro problemi, in realtà è sempre stato costituzionalmente dentro l’anima popolare, quella che rappresenta la gente, perché ne è l’espressione naturale. In tempi lontani si guardava a lui come a una figura dotata di poteri straordinari, capace di indovinare gli accadimenti, di interpretarne le evoluzioni, capace di prevenire, di anticipare quello che sarebbe successo, di mettere a punto strategie e progetti in grado di risolvere i problemi e soprattutto in grado di incidere fisiognomicamente sul livello di civiltà sociale. Di solito si posizionava o veniva supportato da gruppi, partiti, movimenti progressisti, però mai necessariamente, poteva anche appartenere infatti solo a se stesso e alla sua innata e straordinaria capacità di saper cogliere i cambiamenti e i simboli che li precedevano. Per loro natura dotati di facoltà elaborative complesse, portati naturalmente allo studio, a un’ approfondita acquisizione di dati, simboli e strutture, pronti sempre ad anticipare la tipologia degli aventi, la natura di un errore, quella di un fenomeno, di una casualità o di una relazione. Il punto di partenza dell’intellettuale era l’osservazione, molto attenta, sostenuta da un’autorevole complicità culturale, capace di individuare, decodificare, avviare percorsi cognitivi di natura complessa, in molti casi con l’obiettivo di sviluppare un solido contributo, di natura investigativa. Di solito l’intellettuale creava le basi per una ripartenza, per una retrospettiva o per una progettualità oltre le previsioni. Proprio per la sua straordinaria capacità di saper cogliere e indirizzare era tenuto in grandissimo conto dalle lobby di appartenenza, che si rivolgevano a lui per capire qualcosa di più della vita, dei suoi bisogni e delle sue necessità. Veniva ascoltato sempre con grande interesse, perché le sue qualità elaborative aiutavano a sviluppare forme più idonee di comprensione dei problemi. Dunque un personaggio molto utile, capace di fornire punti di vista, pensieri e consigli adeguati per migliorare la vita di relazione e quella di penetrazione della realtà. L’intelletto è sempre stato la parte nobile della natura umana, la cabina di regia da cui dipendono le azioni, i comportamenti, i modi di essere, il punto di partenza per una formazione capace di rigenerare un sistema fortemente in crisi. Risollevare i livelli cognitivi, rigenerare la coscienza, ritemprare l’animo, rimettere in pista i valori, le regole, la disciplina, l’ordine, ridare importanza alle cose che contano sul serio, capire sempre qualcosa di più della realtà e trovare le linee di condotta per renderla sempre più umanamente appetibile, sono le linee guida che hanno mosso la proverbiale intelligenza investigativa dell’intellettuale, capace sempre di cogliere, interpretare e fornire risposte adeguate al dinamismo culturale della vita. Allora come oggi l’intellettuale si posiziona in avanguardia, è sempre un passo avanti, la sua forza sta nel saper entrare nella visione di un mondo in perenne movimento.
ESSERE TROPPO LEGATI AL PASSATO
Viviamo un tempo difficile, complicato, a tratti estremamente confuso, spesso si ha le netta sensazione di vivere in un passato drammatico che pensavamo di aver ormai collocato nel giusto spazio temporale della storia. Non è così. Il passato è per molti un peso terribile, l’impossibilità di una vera emancipazione, impedisce di lasciare il porto e di prendere di nuovo il largo, portando nel mondo un respiro nuovo. Quando il passato s’impossessa del presente, impedisce di poter guardare con animo spoglio e rinnovato al futuro, ricrea fantasmi, paure, incertezze, ripropone pensieri e fatti che non esistono più, ma che di fatto si reincarnano, prendendo possesso della condizione umana, ingessandola, impedendole di continuare il suo cammino verso quella libertà foriera di nuove attenzioni e di nuove proposte che caratterizzano il cammino della storia. Chi ama e crede che la politica sia davvero strumento di rigenerazione materiale e morale, strumento di disciplina attiva, non può di nuovo immaginarla prigioniera di un storia che l’ha massacrata, togliendole quel respiro di libertà ragionata che nasce e si correla con un mondo che ha bisogno di nuove fonti di conoscenza, di nuove paternità e di nuove maternità, uscendo allo scoperto per essere se stesso. La libertà deve potersi conoscere, sviluppare e amare, un mondo che non sia asservimento o subalternità perenne, ma linfa, di nuova storia, di nuove occasioni, di una dinamicità che trasformi strada facendo la realtà in opportunità di libertà vera. Rimettere in campo fazioni, ricostituire manipoli in lotta fra loro, tentare di far credere che ciò che non è più lo sia ancora, significa avere una visione demagogica e distorta della realtà, significa non avere fiducia nella condizione umana e soprattutto non fare nulla perché quel mondo che non ci piace possa piacerci sempre un pochino di più, aiutandolo a cambiare, a essere quello che veramente è quando lo spogliamo di antiche infermità. Non dimenticare non significa rimanere prigionieri di antichi retaggi o nascondersi dietro paraventi costruiti per continuare a mantenere varie forme di potere, ma essere coscienti che si può e si deve vivere una vita diversa conoscendo le traversie del passato. Chiunque ambisca a un rinnovamento reale deve avere il coraggio di cercare nuove soluzioni. Il male non è mai uguale, si pone sempre con forme e misure diverse per confondere, depistare, non ama essere riproposto con gli stessi canoni, il bene cammina con nuove idealità, con parole nuove, con espressioni che stimolano e accendono l’entusiasmo di una rinascita. Chi realmente vive la politica nel suo presente, chi vuole operare scelte innovative cariche di nuova speranza non si lascia imprigionare da vecchie sovrastrutture, si defila dalla staticità, dall’immobilismo o peggio ancora da ipocrisie consolidate, studia la realtà con criteri nuovi, capaci di liberare il cuore e la mente, di liberare la via da impedimenti che impediscono alla creatività umana di potersi realizzare. In questi mesi di bagarre politica ci siamo resi conto di quanto gli uomini vivano ancora di pensieri pregressi, di vecchie reminiscenze, di nostalgie mai metabolizzate, condizionati da modi di pensare e di agire che impediscono di vedere chiaro dentro se stessi e fuori, proprio mentre le persone attendono sempre che il nuovo e il bello si dispieghino in tutta la loro autentica libertà e bellezza. Sembra che il mondo non riesca a liberarsi da tutti quei condizionamenti che ne hanno impalato la volontà, impedendo di sentirsi di nuovo liberi e capaci di realizzare la propria identità e la propria dignità. Che nel mondo ci siano varie forme di sopraffazione, subalternità, assolutismi, prevaricazioni di ogni ordine e grado è assolutamente vero, ma il mondo non è più quello che la storia ha sconfitto, è un mondo diverso, con nuove aspirazioni, nuove passioni, alla ricerca di nuovi valori che diano un respiro più libero e profondo alla voglia di vivere. Certo qualche reminiscenza individuale resta, restano errori sparsi in cuori e menti inaspriti da anni di povertà e di subalternità, ma il compito di chi amministra è quello di domandarsi come mai i poveri esistano ancora, come mai ci siano elemosine agli angoli e nei vicoli delle piazze cittadine, sotto le pensiline e dentro le stazioni, come mai ci siano giovani che invece di vivere e affrontare la realtà con gioia ed entusiasmo, siano vittime di droghe e alcol, come mai invece di esaltare la vita la si consumi senza darle un senso, come se fosse una colpa da scontare, come mai la nostra tradizionale allegria sia inquinata da chi non è stato educato alla vita di relazione, al rispetto delle regole e dei valori che una democrazia vera esige. Vivere in democrazia significa assumersi responsabilità precise che vanno insegnate e alle quali ciascuno deve ottemperare, facendo sempre il proprio dovere. In questo tempo di caos siamo spesso oppressi da costrizioni che produciamo e dalle quali diventa poi difficile evadere senza dover pagare un prezzo, in molti casi manchiamo della capacità di creare le condizioni perché chiunque si affacci al nostro mondo trovi le condizioni per adeguarsi senza dover per forza passare attraverso la via della disperazione e della trasgressione. Il presente ha le sue responsabilità, si tratta di renderle operative, di fare in modo che si attivino nell’interesse del bene comune, quello che determina la forza di una comunità. Rinchiudersi nel passato, non avere il coraggio di affrontare il mondo che ci viene incontro, rifugiarsi nella nostalgia non fa crescere, crea dipendenza, non allena alla ricerca, alla determinazione, all’entusiasmo e alla gioia, appanna l’energia e la vitalità, in molti casi fino a consumarle, aprendo così la via a varie forme di disagi e di malesseri. La storia ci chiede di procedere sulla via di una ricostruzione materiale e morale che sprigioni nuove energie e nuove idealità, un nuovo modo di vivere e di partecipare alla straordinaria bellezza del mondo in cui viviamo. I pazzi esistono anche oggi, ma sta alla saggezza della democrazia moderna opporre una civiltà diversa, più attenta alla condizione umana e alle sue necessità.
GUARDIAMOCI ALLO SPECCHIO
Dentro la bufera della società consumistica il rischio è di perdere di vista il senso di quello che si fa, il motivo per cui ci si comporta in un certo modo piuttosto che in un altro, il fine e lo scopo di un’azione, l’importanza di un pensiero, tutto diventa infinitamente fragile e provvisorio, al punto che succede spesso che non ci si riconosca più e si fatichi moltissimo a ripristinare quelle linee di condotta tracciate all’inizio di un percorso, magari con l’aiuto di qualcuno. Forse torna utile guardarsi allo specchio, non solo per rimettere a punto un look un po’ consunto, ma soprattutto per guardarci negli occhi e scendere verso la parte meno visibile, quella interiore, che abbiamo tenuto in disparte, per evitare di sentirci osservati e giudicati con eccessiva spregiudicatezza. Guardarsi allo specchio significa non perdere di vista la nostra immagine, quella che ci ha permesso di farci apprezzare, di stare sempre con i piedi per terra, di non perdere di vista la realtà, quella che ci attende al varco in ogni momento della nostra storia. Lo specchio non è un giudice impietoso, è solo un attento comunicatore nel quale si riflettono i nostri stati d’animo, spesso motivati da piccoli cambiamenti che mettono a rischio quella stabilità cui ci eravamo abituati. Dunque un custode della nostra incolumità, un amico a cui spesso affidiamo frustrazioni e stati d’animo e attraverso il quale cerchiamo di dare un volto all’inquietudine. Certo anche lo specchio ha le sue debolezze e le sue distrazioni, soprattutto quando tende inesorabilmente a deformare la nostra tranquillità o il nostro aspetto. Ci sono infatti specchi più adattabili ed altri meno, specchi che si lasciano condizionare e altri invece che accentuano, il problema nella maggior parte dei casi non è lo specchio, ma siamo noi, con le nostre insicurezze, i nostri errori, le nostre deformazioni umane e professionali, alle quali, magari, non riusciamo a trovare giusti rimediare le cose fatte bene, come dio comanda. Mentre ci si guarda scatta la metafora, l’oltranzismo che è in noi e che non ci abbandona e ci costringe e a pensare. Pensare a cosa? Un po’ a tutto, in particolare a come organizzare il lavoro, a come distribuire il tempo libero, a cosa fare per rendere più produttiva un’azione o un modo di essere. E’ un momento di rivelazione, in cui ci si spoglia della non verità per cercare di agguantarne una che sia più coerente alle nostre attese. Lo specchio è comunque implacabile, dice sempre quello che pensa, anche quando potrebbe sembrare il contrario. E’ una vaso costrittore, non concede via di fuga, ma può anche riproporre una rinascita, una nuova vita, un nuovo modo di essere. In certi casi è trasformista, ci fa sognare e poi all’improvviso ci lascia nudi di fronte alla realtà. La sintonia tra noi e lui è costante, quotidiana, ma non sempre è come la vorremmo e così spesso ci lascia incerti sulla strada da prendere. Ci sono attimi in cui ci fa meditare su chi siamo, su cosa facciamo e su cosa vorremmo fare, ma non sempre dà risposte esaustive, chiare, precise, a volte lascia aperto uno spiraglio di qualunquismo, di inquietudine, di reticenza, quasi come se non volesse approfondire la nostra storia per paura di spaventarci. C’è gente che non si specchia mai, perché non vuole confronti, verifiche, valutazioni, forse perché si sente sempre nel giusto o crede di avere la verità in tasca. E’ anche per questo che spesso ci troviamo una politica fatta a pezzi da persone che non si guardano allo specchio con la giusta convinzione, che non vogliono capire chi sono, cosa stanno facendo, se quello che stanno facendo sia davvero quello che avevano promesso al popolo sovrano, in linea con i propri principi. Dunque ognuno ha un rapporto molto personale con lo specchio, ne fa l’uso caratterialmente più consono, in molti casi personalizzandolo, privandolo talvolta della sua libertà, forse perché lo teme, ha paura che possa raccontare più verità del previsto. Il linguaggio dello specchio rimane pur sempre un riferimento importante per chi desidera fare il punto, rimettere ogni cosa al suo posto. Si tratta di un ottimo sollecitatore, con lui è sempre possibile riattivarsi, rimettersi in carreggiata, rivedere quello che non va e inquadrarlo di nuovo, senza lasciare mai nulla di intentato. Certo non bisogna diventarne schiavi, bisogna saperlo gestire, dargli il peso che merita, utilizzarlo con parsimonia, valorizzandolo per quanto basta. Di fatto è pur sempre un amico che ogni tanto ci tocca la spalla per invitarci a non perdere di vista le cose che contano, quelle senza le quali non ci sarebbe né presente e né futuro.
CHE COSA CONTA DI PIU’ IN UNA COMUNITA’ CHE VUOLE CRESCERE
Più una società barcolla e più cerca di appoggiarsi, perché non è più capace di reggersi da sola. Può essere una condizione normale, chi non ce la fa più ha bisogno di qualcuno che lo aiuti, ma forse è ancora valido quel proverbio che diceva così “Aiutati che il cielo ti aiuta”. Aiutarsi non è un impegno da poco, richiede una radicata e profonda coscienza di sé, la capacità di creare tutte le condizioni possibili perché la vita possa godere fino in fondo della sua propria vita in modo autonomo, provvedendo da sola ai bisogni necessari. Viviamo in una società che sbandiera l’aiuto, confidando in chi possa renderlo concreto, magari sacrificando la propria vita. C’è gente che si consola con i figli e quando ha i soldi con badanti provenienti da mondi sconosciuti, ma c’è anche chi si prodiga per dimostrare che la propria vita merita una cura molto particolare sotto tutti i punti di vista, ha bisogno di essere conosciuta meglio, educata, condotta con discrezione e riservatezza, come se si trattasse di un preziosissimo bene da conservare fino all’ultimo con autorevole coraggio. Oggi c’è chi la svende, chi la usa come se si trattasse di un bene di consumo, chi la vive senza coscienza, senza avere la capacità di finalizzarla, di darle un senso, di farla diventare il trampolino di lancio per un straordinario viaggio interiore alla ricerca di quel patrimonio di beni e di valori che la vita stessa porta dentro di sé sempre, anche quando sembra opaca e disorientata, apparentemente priva di consistenza morale, di volontà, di capacità di trovare la strada. La vita è uno scrigno di verità, valori, opportunità, è il luogo in cui scopriamo chi siamo, riaffermandone ogni volta la bellezza, quella un po’ drammatica autorità che costringe a guardarsi dentro per dare una risposta ai mille perché che ne accompagnano il cammino. Capita spesso di incontrare istituzioni che incoraggiano la comunione, senza aver prima preparato la vita a essere presente a se stessa, capace di intendere e di volere, pronta a sviluppare uno sviluppo credibile di identità e di dignità. Della vita è bellissima la libertà, una libertà che si affratella con la coscienza e ne diventa la massima espressione evocativa. Educare alla libertà è un valore assoluto. È la fonte primaria di una crescita autonoma e indipendente, cosciente e pronta a raccogliere le sfide di una vita che stupisce non solo per le sue bellezze, ma anche per la determinazione che richiede per rispondere con coraggio alle chiamate. La libertà non è solo il prodotto di un’alchimia della storia, ma è una ricerca costante d’identità, in cui la passione individuale si sposa con quella della comunità che ne attende l’unione, che aspetta che l’individualità abbia raggiunto il massimo della sua maturità. L’educazione è stata soprattutto una grande lezione di vita per tutte le persone ed è nell’elaborazione individuale che abbiamo imparato a comprenderla, a confermarla e a realizzarla. Una comunità che vuole crescere deve crescere prima dentro di sé, nella consapevolezza di un valore straordinario di cui ciascuno è portatore e che tende inesorabilmente alla trasmissione, perché nulla di ciò che appartiene alla natura individuale resta isolato, tutto si esprime, si espande, vive, si narra, cerca passaggi attraverso i quali poter dimostrare che l’impegno personale è la base di tutto e che non c’è nulla che resta indifferente, neppure quando la crudeltà umana si arma per distruggere, dissolvere, cancellare, dimenticare. Una comunità in cammino ha in comune la necessità di imparare ogni giorno qualcosa di più di quella vita che non cessa mai di stupire, anche quando, adombrata nella sua riservatezza etica, potrebbe apparire distante. Ogni momento della vita individuale è un momento della comunità a cui l’individualità appartiene, tutto converge, seguendo strade e cammini diversi, verso il significato finale, quello per cui è stata educata. Entrare in comunione è una straordinaria apertura sociale e mentale, in cui si rafforza e si determina la volontà individuale, dove l’idea si fa atto, si realizza, dà vita a una sinergica collaborazione di forze e di volontà. Non c’è nulla di accidentale in quello che si fa, nulla che non tocchi la sfera sociale, ogni nostro atto ha una ricaduta, per questo l’educazione non si ferma, prosegue con coraggio e fermezza la propria strada, per dimostrare quanto importante sia costruire un’identità a misura d’uomo. Chi vive con apprensione la dimensione sociale della vita sa quanto sia difficile educare, dimostrare che ogni costruzione, anche la più banale, richiede una considerazione, una riflessione, richiede che si chiami in causa quel cuore al quale affidiamo i nostri turbamenti e le nostre passioni, richiede soprattutto che si pensi a quello che facciamo, a come lo facciamo, a perché lo facciamo, cercando sempre di trovare il mattone giusto per impedire all’arroganza e all’orgoglio di rovinare tutto, di sradicare la volontà comune di fare bene per sé e per gli altri. Troppe volte dietro una condizione sociale c’è una preoccupante impreparazione individuale, spesso infatti la persona non ha sviscerato abbastanza il proprio sé, non si è preoccupata di scandagliare la propria individualità, attraverso un fine lavoro di attenzione e di discernimento, in molti casi incontriamo persone che aspirano a ruoli pubblici, che fanno di tutto per mettere la propria immagine davanti agli altri, senza avere una percezione profonda della propria persona, senza conoscere davvero se siano in grado di gestire correttamente le aspettative e le attese di chi affida all’individualità la capacità di trovare umanamente conforto nelle proprie aspirazioni. La condizione comunitaria nasce di solito da una condizione individuale, è l’individuo che spesso determina la gioia o il dolore, la bellezza o la bruttezza, la giustizia o l’ingiustizia, è l’individuo che agendo con senso di responsabilità distribuisce la propria fede comunitaria. La famiglia la fanno i genitori, la scuola la fanno i maestri e i professori, la società la fanno i cittadini, ma è necessario che l’impegno comune sia sostenuto e orientato da una condizione educativa forte, coraggiosa, cosciente, capace di capire quali siano i bisogni e le necessità di chi attende il proprio riscatto.
NON BASTA EDUCARE UN GIORNO, BISOGNA EDUCARE SEMPRE
L’educazione non è un fenomeno temporaneo, che dura un giorno e poi se ne può fare a meno, accompagna le persone sempre, è dinamica, si trasforma e trasforma, produce, rafforza, corrobora, sviluppa autostima, autonomia, cultura, rafforza il carattere individuale e crea le condizioni per un’armonica ed equilibrata vita di comunità. Un tempo le massime istituzioni le riservavano un posto di grande prestigio, erano coese e convergenti sui valori da conservare, restaurare, rafforzare, consolidare e potenziare. La famiglia, la scuola, la società civile, lo stato avevano in comune un’attenzione particolare per l’educazione, soprattutto per quella più visibile e condivisibile, quella che è artigianalmente lavorabile senza creare ansie o repressioni, quella che puoi valutare strada facendo con sistemica coerenza. Tutto convergeva verso la formazione educativa della persona. Il clima lo respiravi ovunque, anche quando ti sembrava di essere lontano da tutto e da tutti, libero forse di poter fare tutto quello che volevi. In realtà ogni volta che ti scappava una parolaccia ti guardavi attorno, convinto di aver mancato di rispetto a qualcuno, non parliamo poi del rispetto nei confronti degli adulti, nessun giovane si sarebbe mai permesso di mancare di rispetto a un adulto e viceversa. C’era poi l’oratorio, il luogo educativo per eccellenza, dove anche il gioco più evoluto era soggetto a comportamenti adeguati e dove ti sentivi osservato con una stima che sapeva trasformarsi in fermezza, se necessario. All’oratorio si pregava e si giocava, si ascoltava e si rifletteva, si stava alle regole e soprattutto s’ imparava che la via della felicità stava soprattutto nel rispettare alcuni principi e valori fondamentali, come il rispetto di sé, quello degli altri, ma non solo, l’oratorio era un eloquente laboratorio di virtù educative, di cultura non solo religiosa, il luogo dove incontravi nuovi interessi e nuove curiosità, dove la vita si manifestava con altre regole, con altri sguardi e dove la libertà dovevi conquistartela magari con l’obbedienza. Dunque tra famiglia, scuola, oratorio, società civile e stato c’era una strettissima correlazione, si imparava molto presto che cosa era giusto e che cosa era sbagliato, quali erano le vie da seguire, le persone da frequentare e quelle da evitare. Non era un delitto diversificare, ma una regola di civile condotta. Frequentare gente educata rafforzava il carattere,migliorava il modo di essere e di fare, affinava il comportamento e alla fine la forza di alcuni diventava dominante sulla stupidità di altri. Una sana concorrenza educativa ti costringeva a domandarti chi eri veramente, perché qualcuno ti evitava o ti prendeva in giro, ma allo stesso tempo creava negli altri, magari senza che se ne accorgessero subito, un evidente dubbio socratico: “Ma è proprio giusto quello che sto facendo? Faccio bella figura? Quello che faccio ha un senso? Come mai faccio certe cose? Perché agisco in questo modo?”. Insomma, uno dei punti di forza dell’educazione tradizionale era quello di mettersi in discussione, di capire, di sondare, di andare alla ricerca di quel qualcosa in più che avrebbe messo meglio in luce la persona. Educare a porsi delle domande è sempre stato un metodo positivo, in fondo la verità non la si trova già confezionata, bisogna cercarla, bisogna sdoganarla con pazienza e con coraggio, anche se in certi casi la scoperta può comportare una caduta di forza nel sistema immunitario che ci eravamo creati. Quello che manca molto spesso oggi, nelle massime istituzioni educative del sistema, è la volontà di aiutare il prossimo a capire chi è, quale funzione abbia, di che cosa abbia realmente bisogno, quali siano i valori che possono rafforzarne lo stile, l’educazione, la vita in tutte le sue variabili. Nella maggior parte dei casi l’altro è semplicemente un bastone tra le ruote o qualcosa che ci impedisce di fare fino in fondo quello che vogliamo, un muro insomma, un ostacolo da evitare o da togliere di mezzo. Da sano competitor a nemico, da avversario a impedimento, dunque è caduta quella sacrosanta base di rispetto su cui si era formata la società italiana del dopoguerra, quella che uscendo dalla drammatica disperazione della guerra cominciava a capire quali fossero le vie giuste da seguire per ricreare una società a misura d’uomo, dove ciascuno avrebbe trovato il proprio senso, finalizzando positivamente la propria vita. L’educazione non è mai stata dalla parte dei ricchi, dei detentori del potere, degli uomini e delle donne di successo, ma è nata dove la famiglia era più unita, dove l’unione non era soltanto un’espressione verbale, ma una consapevolezza e dove tutto diventava conquista quotidiana, condivisione, scoperta, aiuto reciproco. Le bellissime famiglie contadine non avevano neppure il tempo di cercare l’unione, perché ce l’avevano già dentro, la terra e il lavoro erano il collante, non c’era bisogno dell’orario sindacale, ognuno gestiva coscientemente lo spazio e il tempo, si aggregava, rafforzava, imparava dalla vita a gestire la vita stessa. C’era molta serenità, molta consapevolezza, il rispetto era la base di tutto, era fondamentale sia nella vita di coppia che in quella di gruppo o comunitaria. La famiglia aveva una fortissima coscienza civile, non le sfuggiva nulla, insegnava a lavorare, ad assumersi le responsabilità, a fare fatica, a impegnarsi, ti metteva nella condizione di fare il tuo dovere con senso di responsabilità, senza chiacchiere inutili, senza sottostare a estorsioni o a costrizioni. Tutto viaggiava intorno a un sano senso del pudore, a una religiosità fatta di obblighi, a una disciplina naturale, che non aveva assolutamente bisogno di forzate repressioni. La sberla di un padre era l’ultima spiaggia, ma poteva essere talmente intensa che nessuno si sarebbe mai nemmeno sognato di poterla ricevere, nella maggior parte dei casi uno sguardo era sufficiente, le regole erano regole sempre, anche nelle occasioni di festa e di massima libertà. Oggi si arriva ai ricatti, ai sotterfugi, alla violenza, alla prevaricazione, alla sopraffazione. E’ incredibile come, dopo anni di scuola obbligatoria, di mezzi di comunicazione di massa di tutti i tipi, di una cultura generale che ha raggiunto quasi tutte le fasce della popolazione, siamo quotidianamente testimoni di gravissime forme di maleducazione, di efferatezze di ogni tipo, di un’assoluta e totale mancanza di rispetto, viviamo in una società che spesso uccide la lealtà, il rispetto, la fedeltà, la sobrietà, l’amore, soprattutto quello che dovrebbe unire insieme, consapevolmente, le persone.