GESU’ E’ SEMPRE PIU’ LONTANO, MA COME MAI?
Leggere che esistono cristiani vicini e cristiani lontani provoca un brivido, sembra che in queste parole si nasconda una sorta di diritto all’inquisizione, a quell’inquisizione che si è arrogata la facoltà di colpire la dignità umana, sottraendola prioritariamente al giudizio del suo Creatore. L’idea che quel cristianesimo così attento sia diventato improvvisamente terreno protetto di élite, fa sobbalzare chi ricerca, a volte con umana difficoltà, il suo diritto alla conoscenza e alla sopravvivenza, mettendosi nell’ ascolto della verità. L’idea che esistano fazioni, manipoli, esecutori indefessi, piccole o grandi lobby, è sicuramente un grosso motivo di riflessione da parte di chi vive con disincanto la bellezza di una fede che va ben oltre le architetture e le costruzioni umane, perché in essa c’è qualcosa che fonde e solleva le aspirazioni, aprendole a forme di vita meno costrette, meno represse, più figlie di una libertà profonda, in cui si rende ancora possibile ricostruire la gioia umana della speranza. Forse dovrebbe essere più giusto parlare di persone che tendono quotidianamente alla salvezza, passando attraverso i muri e le inaffidabilità di un destino spesso reticente, capace di demolire e di stendere, ma anche di ricreare angoli di verità su cui appoggiare il desiderio di ricominciare. Forse siamo tutti cristiani, lo siamo nella misura in cui riconosciamo di avere sempre bisogno di qualcuno che faccia splendere un po’ di luce su un mondo sempre più disseminato di arrivismi, di primati, di certezze che non esistono, di ricchezze che diventano povertà esasperate. Forse è arrivato il momento della riunificazione, della rimessa a punto, del ritrovare il valore dell’essere unione, famiglia, di mettere insieme le forze, soprattutto quelle che hanno perso la sostanza etica. E’ il momento della sintesi, in cui l’antitesi riconosce la propria inadeguatezza e sente il bisogno vero e profondo di ricompattare ciò che il mondo ha orgogliosamente diviso.
QUELLO STRANO MODO DI COMUNICARE
Ci sono diversi modi per comunicare, per dire agli altri quello che pensiamo, quello che siamo, quello che vogliamo e quello che vorremmo, quello che stimola la nostra curiosità, i modi sono tanti, ma nella maggior parte dei casi ci si limita a colpi di fioretto, a chi colpisce con più arguzia, a chi dimostra di essere più furbo, più bravo e più intelligente, in molti casi tutto si riduce a una sfida a chi la spara più grossa, a piegare l’altro, costringendolo a una qualsiasi subalternità. La comunicazione ha perso per strada la sua componente emotiva, quella che si fa sentire e apprezzare attraverso la voce e le sue vibrazioni, quella che nasce dal cuore, che libera la mente dalle sue sovrastrutture, che tenta di stabilire il senso di una narrazione che abbia un capo e una coda, che si possa leggere e interpretare, senza dover per forza scadere nel dileggio o nel diverbio. Ci sono momenti in cui la parola perde la soavità di un suono, rimane sospesa, reticente, non s’incarna, rimane prigioniera di un’esibizione che, nella maggior parte dei casi, tende a provocare, a tenere in scacco, a comprimere, l’esatto contrario di quello che dovrebbe fare, così come ci hanno insegnato fior di poeti italiani e stranieri, con la loro capacità di far vivere la brevità, di darle un corpo e un’anima, di farla pesare, di farla diventare la porta principale della ricerca interiore. Perché proprio i poeti? Forse perché nella poesia la parola assume un’ identità quasi perfetta, un’identità pensata, applicata, liberata dalle sovrastrutture linguistiche, un’identità che si colora d’immagini, suoni, vibrazioni, che abbraccia la circolarità di un mondo che sprigiona, in una sapiente brevità, tutta la sua energia e la sua bellezza. Basta poco, basta leggere le poesie di Giuseppe Ungaretti, per capire quale sia il valore reale di un suono, quanto sia encomiabile lo sforzo di chi con una parola abbraccia la forza propulsiva dell’universo, il sospiro dell’infinito o il valore di un gesto, di un fatto, di un fenomeno, di un pensiero, quanto sia indulgente la visione di un’anima immersa nella sua contemplazione, nella sua vocazione cognitiva. Nella poesia la parola diventa espressione, pensiero, ragione, fede, conversione, sprigiona tutto il suo vigore interpretativo e lo fa accompagnata da quella sottile animosità espressiva che rende la comunicazione più attendibile, più umana, più bella, più dolce, più viva e più vera. Nella poesia si ricompone l’armonia, la spiritualità rivendica il suo respiro, l’animo si predispone a un’accoglienza scevra di materialismo, la comunicazione si apre a un dialogo serrato con la vita. La letteratura del materialismo digitale reprime e comprime l’armonia di una lingua nata per sollevare la durezza, per restituire al sentimento la sua vocazione pensante, la sua intimità, per facilitare la comprensione, la connessione, il passaggio di emozioni e di sentimenti, una lingua che ha colorato di rosa gli amori delle persone, lasciando a ogni cuore la libertà di esprimere fino in fondo la sua verità.
IL BISOGNO DI DIO
Il desiderio di Dio esiste da sempre, anche nei casi in cui l’aggressività umana lo relega in fondo ai bisogni primari. Dio nella teologia, Dio nella filosofia, Dio nel pensiero quotidiano di uomini e donne che cercano legami più ampi e profondi con quel mondo che appare splendidamente incastonato nelle sue forme e nei suoi colori, ma in molti casi drammaticamente curvo e ripiegato su se stesso. Il bisogno di Dio è presente ovunque, in molti casi si tratta di lasciarlo parlare, di offrirgli la possibilità di interloquire con i bisogni e le necessità, di ascoltarne la voce, di incontrarlo nel volto e nello sguardo di persone che ne accendono e ne acuiscono la presenza. Non è invadente, lascia all’uomo la facoltà di fare, dire, operare, lo lascia libero nell’evoluzione della sua storia, offrendogli la possibilità di un riscatto. Avere l’umana coscienza di un Dio che è sempre pronto ad amare e a perdonare non è da poco, certo la ragione umana, proprio perché umana,in molti casi non ha la capacità di vedere e capire tutto, spesso però si lascia imbrigliare, per poi diventare schiava della sua stessa presunzione non appena si rende conto, quando se ne rende conto, che la ragione non è condizione sufficiente per ritrovare una sicura via di riabilitazione. Oggi si parla moltissimo di Dio. C’è chi in nome di Dio uccide e compie atti di terrorismo, chi lo usa come schermo e guida delle sue azioni provocatorie e malsane, chi lo usa come paravento, chi gli parla come a un amico capace di dare sempre il consiglio saggio, quello che aiuta ad andare avanti credendo di più in se stessi e negli altri. Nel bene e nel male resta comunque un punto di riferimento. Chi lo crede non ha bisogno di ripidi tornanti per accettarlo e ascoltarlo, per seguirlo e amarlo, ma deve agire di conseguenze, mettendo in pratica quel breve, ma straordinario codicillo di parabole e di regole di vita che è il vangelo e questo non è facile per nessuno. Il pensiero di Dio è in parte quello di un creatore immenso che distribuisce a tutti il suo spirito, lasciando all’umanità il diritto e il dovere di gestire la propria libertà, come un padre patriarca che sa di che cosa abbiano bisogno i suoi figli, ma che si guarda bene dal condizionarli, lasciando loro la facoltà di fare buon uso delle loro risorse. L’impressione è che non tutto si risolva in un tempo terreno e che occorra salire e poi ancora salire per incontrare quella pace a cui ogni essere umano anela. Avere accanto anche solo l’idea di Dio è sentirsi accompagnati durante il cammino, è capire che malgrado la fragilità di una condizione esiste sempre una proposta riabilitativa, che riconsegna ogni volta la forza di entrare in comunicazione con se stessi e col mondo. La fede non è un atto di presunzione, una condizione di comodo, è nella sua straordinaria bellezza un modo per essere attenti alla propria vita e a quella degli altri, assumendosi la responsabilità di essere protagonisti della conservazione materiale e morale di quel mondo che abbiamo ereditato e di cui siamo custodi, tutti nessuno escluso.
NON BESTEMMIARE
Capita sempre più spesso di passare o di essere accanto a luoghi tradizionalmente sacri e di essere testimoni di una maleducazione sconfinata, quella che ti costringe a riflettere sulla condizione umana e sulle sue inadempienze. Come mai ragazzini di undici, dodici, tredici anni e anche più piccoli, bestemmiano? Come mai urlano come ossessi, emettendo suoni animaleschi che nulla hanno a che fare con il genere umano e le sue regole? Come mai ragazzi e ragazze dicono parolacce che farebbero rabbrividire persino i carrettieri di una volta? Come mai invece di insegnare l’educazione, di insegnare a pregare, a riflettere, a pensare, a studiare, a impegnarsi, si pensa di risolvere tutto con varie forme di arroganza aziendale, come se bastasse aumentare la quantità del prodotto per dimostrarne la qualità e l’efficienza. Come mai invece di ricostruire un’identità spenta da anni di incongruenze, inefficienze, incapacità, si pensa sempre in economia, come se il mondo fosse solo quello che ci appartiene e non ce ne fosse uno in attesa, molto più attento e pronto a offrire il proprio contributo? Come mai l’arroganza è diventata talmente grande che non permette più di decodificare la realtà, cogliendone gli aspetti che meritano un’ assoluta attenzione, per rimettere in moto un patrimonio educativo che altrimenti rischia di disperdersi e di annullarsi tra rifiuti e rovine? Mentre il mondo guarda al mondo e non sa come fare per dare un ordine umanamente logico alle iniziative che si prendono, i giovani in molti casi crescono nella più assoluta inconsistenza etica, non conoscono il valore di un comportamento, di una parola, di una frase, non rispettano se stessi e il prossimo, vivono come se intorno avessero il nulla. Dunque il problema di una maleducazione diffusa, che in molti casi rasenta la paradelinquenza, esiste ed è molto diffuso, perché la società in cui i giovani vivono e manifestano la loro esuberanza tollera tutto, è disposta a far finta di niente, pur di mantenere intatto quel pizzico di potere che galleggia in un mare di guai, in attesa che il mondo, quello che ha voce in capitolo, si ricordi del suo ruolo costituzionale e rimetta le cose a posto. Senza ordine, senza regole, senza coscienza di ruolo, senza educazione non si va da nessuna parte, non solo, si rischia di affondare una democrazia che con grandissima fatica, ma con molta dignità umana, cerca di dimostrare che la libertà non è un bene strumentale con cui ognuno può fare tutto quello che vuole, ma è un dono che presume intelligenza, disponibilità, attenzione, fermezza, autorevolezza e anche quel pizzico di autorità necessaria per far capire al prossimo che siamo tutti responsabili del buon o del cattivo andamento di una società che si presenta al mondo con l’etichetta di civile. Forse quel mondo che con troppa disinvoltura guarda alle ultime propaggini del consumismo, dovrebbe ricordarsi che si diventa grandi passando attraverso una formazione in cui la coscienza assume un ruolo individuale e collettivo, di grandissima importanza. Tornare al rispetto delle regole e alla disciplina dunque, è l’unica via possibile per dare un senso a chi ci guarda, aspettando l’imbeccata giusta.