FIDARSI DI GESU’ E’ ANCORA IMPORTANTE?
Ci avviciniamo alla santa Pasqua, una festa che ci richiama alle radici della civiltà cristiana, quella che non si accontenta di avere a sua disposizione un Dio accorto e benevolo, sempre pronto a tendere una mano quando l’uomo si dimentica di chi è, cosa fa, dove cammina, verso quale meta tende, ma che vuole trovare l’anello di congiunzione tra l’esistenza materiale e quella spirituale, tra il richiamo dell’edonismo e quello della sobrietà e della rinuncia, tra il pensiero e la fede. Risorgere è ancora il punto, rappresenta l’aspetto più bello e inquietante di una natura che spesso giace sospesa tra il richiamo del presente e quello di un futuro in cui la dimensione umana diventa sempre più fragile, bisognosa di affetto e di cure, soprattutto di capire se quello che ha fatto e che fa sia stato e sia sufficientemente adatto per meritare un premio. Nell’umanità di Dio la risurrezione occupa un posto privilegiato, davvero importante, in virtù della quale l’uomo può ancora cercare e trovare la possibilità di uscire dalle sabbie mobili della palude umana, quella che in molti casi non permette di dare un senso vero e profondo all’esistenza e alle sua aspettative. Morire, per permettere all’altro di vivere, è straordinario, qualcosa che solo un Dio immensamente attento alle sue creature avrebbe potuto fare. Il dono divino non è mai confinato, non è soggetto a costrizioni, privazioni, stimola, convince, gratifica, offre, è simbolo di un amore che va oltre le strutture e le sovrastrutture che impregnano di inquietante indeterminazione la vita umana. Ancora una volta il cristianesimo apre le porte alla possibilità di amare, condividere, di uscire allo scoperto, offrendo come sempre la certezza che le vie dell’amore sono infinite e non guardano in faccia a nessuno, non fanno differenze. Non è dunque una questione di partiti o movimenti, di simpatie o di antipatie, di colori o di culture, di religioni o di potentati, la forza divina va sempre oltre, soffia sempre con l’energia travolgente di chi è convinto che esista un’alternativa al male, alla fragilità umana. Si tratta di mettere da parte l’arroganza, di voler riconquistare il significato pieno di quella vita con la quale abbiamo contemplato, pregato, gustato il sapore fine ed elegante della bellezza, della gioia di vivere, convinti che l’attimo della sofferenza preluda sempre alla conquista di una misura ottimale della coscienza individuale. Pasqua di Risurrezione porta con sé tutta l’inquietudine dello spirito umano, il dubbio che precede la certezza, la consapevolezza di un limite che non è mai fine a se stesso, ma che irrompe in attesa che la vita si riproponga nella sua essenza spirituale. E’ difficile immaginare che l’amore si consumi, che non possa addivenire alla sua pienezza, è difficile entrare nell’ordine di un nulla eterno dentro il quale non ci sia spazio per la speranza di un ricongiungimento con il principio di tutto. Se il Natale è la nascita di Gesù, di un Dio che si fa uomo per dimostrare al mondo l’attenta tenerezza di un padre, la santa Pasqua è la riprova di quanto sia straordinaria la vita, soprattutto nella parte in cui dispiega tutta la sua disponibilità a incontrare l’amore di Cristo, un Cristo capace sempre di dimostrare quanto sia vicino alla condizione umana, soprattutto nel momento della solitudine di fronte al mistero. Risorgere è fondamentale per tutti noi che vogliamo cambiare, rinnovarci, diventare diversi da quelli che la routine ci costringe a essere, più attenti a quello che pensiamo, a quello che facciamo, più solerti nel ricomporre le nostre ambiguità e le nostre inadempienze, più attenti a ripensare, a confessare i nostri limiti, le nostre debolezze, la nostra voglia profonda di essere diversi, più attenti ad accogliere i valori della società cristiana, a ritrovare l’armonia in cui si fondono le speranze vere della vita. Riconoscere di voler cambiare, di fare in modo che la vita ritrovi la sua luce, quella vera e profonda che consolida l’unione con i principi vitali della creazione, è uno dei tanti afflati che ci legano al mistero pasquale, di cui ci sentiamo parte in causa. Il Natale e la Pasqua riaprono il dialogo con l’eterno, ci riportano con i piedi per terra, ci tengono legati alla bellezza di quei valori che abbiamo appreso da genitori attenti e da sacerdoti impegnati anima e corpo nell’esultanza del mistero divino, ci fanno sentire di nuovo vivi, presenti a noi stessi e agli altri, persone vive di un mondo che è sempre alla ricerca di una perfezione, di un’idea diversa della vita, più vicina alla dimensione evangelica. Dopo le ire stizzose di una politica ambigua e insolente, dopo gli schiamazzi di una natura umana perennemente soggetta a varie forme di edonismo e di relativismo, con la santa Pasqua l’uomo ritrova il suo spazio, si appella alla sua interiorità, cerca di nuovo quelle risposte che rimettono in fila interrogativi e curiosità irrisolte. Con la Pasqua l’uomo è chiamato a riflettere seriamente sulla sua essenza, a riconoscere il suo perenne bisogno di assistenza e soprattutto la necessità di affrontare la storia che lo attende con il massimo della generosità umana, affidando la propria povertà alla comprensione di quel Gesù di Nazareth che ha voluto dimostrare con la sua vita il grandissimo valore della fede cristiana.
DIALOGARE DI PIU’
Gli educatori di una volta insegnavano a parlare sottovoce, a non disturbare la classe, a non urlare nei luoghi pubblici, credevano talmente tanto nella voce del silenzio che ne predicavano sistematicamente la forza e la bellezza, a volte anche con determinata tenacia e perseveranza. Era il tempo in cui l’educazione passava trasversale dentro la quotidianità, la esorcizzava, la teneva sotto controllo, la educava a comportamenti meno spavaldi e più adeguati, capaci di creare lo spirito giusto per pensare, agire, parlare, giocare, insomma si pensava che non ci fosse bisogno dell’urlo animalesco per attirare l’attenzione. Era un modo per creare una misura, per dimostrare che la voce possiede un contesto tutto suo, nel quale esprime ed elabora la sua attività comunicativa nel pieno rispetto delle regole. Adottare uno stile è fondamentale, facilita la comprensione, favorisce l’attività del pensiero, soprattutto quando questo si materializza e si propone, con l’intento di dimostrare quanto sia importante ragionare sulle cose, prima di farle. Uno dei temi fondamentali dell’educazione di una volta era la riflessione, quella cosa che i preti ci avevano insegnato sotto forma di esame di coscienza. Prima di confessare le tue colpe dovevi trascorrere un po’ di tempo a riflettere sulle cose non buone che avevi fatto. Non era una scemata inventata tanto per rompere le scatole al prossimo, ma un raffinato ed elegante atto educativo, promosso per prendere coscienza, per rendersi conto di quanto fosse importante soffermarsi sugli sbagli commessi, per non commetterli più. L’educazione incideva sistematicamente sui comportamenti umani; tutti, genitori, insegnanti, preti, educatori vari seminavano le regole del buon vivere, ciascuno con il proprio metodo, la propria preparazione, la propria cultura, in ognuno c’era la sacra voglia di trasmettere, di far imparare, di rendere migliori, di aprire la cassaforte della bellezza esistenziale a chi la stava cercando. La libertà personale era un diritto, ma soprattutto una conquista ragionata e ponderata, impregnata di tanto senso del dovere. Era estremamente difficile incontrare un ragazzino che si sarebbe permesso di dare del tu a un adulto o di mancargli di rispetto. Certo non tutti erano santi, i discoli c’erano anche allora, ma erano ben consapevoli che trasgredire significava incorrere nell’imprevedibile correttivo, che in molti casi poteva anche essere un efficace sganassone. La psicologia non era ancora entrata a larghe mani nel panoramico educativo tradizionale, le regole venivano tramandate con le parole e con l’esempio, a ogni mancanza corrispondeva una punizione, nessuno era disposto a farsi mettere i piedi in testa e le autorità esercitavano la loro funzione stando al proprio posto, non c’era pericolo di invasioni di campo. Il genitore si faceva rispettare, l’allenatore idem, così come l’educatore, l’insegnante, il sacerdote, l’uomo d’ordine, era praticamente impossibile ledere il sacrosanto principio della libertà personale, del ruolo e dell’autorità. Nella semplicità generale c’era un grandissimo contenuto morale, non c’era infatti bisogno di avere la laurea o il diploma per capire che alcuni comportamenti erano contrari al buon senso e che avrebbero creato seri problemi alla società civile. La società aveva una configurazione gerarchica ben delineata, all’interno della quale si poteva vivere dignitosamente senza trasgredire. Il cittadino sentiva dentro di sé e accanto a sé la forza dell’esercizio educativo, inizialmente forse lo rifiutava, ma poi capiva che aveva una sua caratterizzazione logica e che era funzionale al proprio stato. L’educazione diventava così il simbolo di una società avanzata, che faceva propri i principi di una Costituzione dialogante, che metteva il cittadino con le spalle al muro, dicendogli per filo e per segno che cosa avrebbe dovuto e potuto fare per vivere con serenità la propria esistenza. La divisa, ad esempio, era un segno distintivo di grande rilevanza. Per chiunque era un freno, un attimo per riflettere sulla propria condizione, su una parola o su un atto, era insomma il simbolo di una legge che invitava a riflettere prima di agire, che si poneva come momento di verifica personale nel rapporto con la realtà, che sapeva essere severa e comprensiva contemporaneamente e che, proprio per questo, trasmetteva il senso del rispetto. La parola dovere, ad esempio, aveva un ruolo fondamentale, tutti ne parlavano, tutti cercavano di dimostrarne l’autorità e la bellezza, la capacità di saper trasformare la fatica, l’impegno e il lavoro nella realizzazione di un bene comune. Fare il proprio dovere era uno degli insegnamenti principe di una sana educazione familiare e i genitori te lo facevano capire in tutti i modi, con le buone o con le cattive. Nessuno si sarebbe mai permesso di opporre resistenze, di rifiutare o di prevaricare, quello che i genitori trasmettevano con il loro comportamento bastava per far capire e far riflettere. La famiglia aveva un ruolo decisivo, guai mancarle di rispetto. Sapeva stare al suo posto, non avrebbe mai messo in discussione il comportamento di un insegnante, la regola era che se il figlio aveva preso una nota o uno sganassone era perché se li era meritati. La fiducia nella scuola era totale. La scuola era l’istituzione per eccellenza, il luogo da rispettare e da amare, dove conoscenza, ordine e disciplina dovevano avere la meglio su tutto. La prima cosa che un genitore chiedeva all’insegnante era: “Come si comporta, mio figlio?”. Tutto partiva da lì, dal comportamento del figlio. L’educazione era fondamentale, eppure molti papà e mamme non avevano fatto studi particolari, venivano dal mondo del lavoro, dalle fatiche quotidiane, dalle difficoltà e dalla miseria. Guai però mancare di rispetto, il rispetto aveva un ruolo fondamentale, più ancora di tutto il resto. Erano genitori che uscivano dalla guerra, che conoscevano molto bene il valore della libertà, che sapevano esattamente che cosa bisognava fare per conquistarsela e per tenersela cara. Altri tempi, altre storie, ma la storia che conta non deve buttare via nulla di quello che ha appreso e insegnato. Dialogare non vuol dire cedere sempre il campo o diventare concessivi sempre, significa impostare l’incontro educativo nella massima chiarezza, mettendo bene in chiaro che ogni costruzione, per poter reggere alle intemperie del tempo, ha bisogno di fondamenta solide. E’ questo che manca oggi, la volontà di essere veri, di essere attenti, di non aver paura di dire che certi comportamenti sono sbagliati, generano disorientamento, confusione, impediscono ai giovani di vedere chiaro nel guazzabuglio politico che si trovano di fronte. Riesce difficile immaginare come in una società evoluta come quella italiana, che pure vanta un’evoluzione tecnologica straordinaria, con fior di giovani geniali e creativi e, con una genialità invidiata nel mondo, assistiamo spesso a diatribe avvilenti, ad antagonismi eccessivi, a piccole e grandi guerre di palazzo che non aiutano a concretizzare tutta quella bella voglia di far bene che anima il cuore della nostra gente. Dunque un esame di coscienza va fatto e il dialogo può essere l’arma potente della riconversione.
INSEGNARE A LAVORARE
In molti casi si dà per scontato che le persone sappiano lavorare, siano pronte per poter svolgere autonomamente il proprio lavoro, ma in moltissimi casi non è così, basta osservare con cura per rendersi conto che chi lavora è in molti casi impreparato, manca di un’organizzazione pregressa, di un metodo di lavoro e , soprattutto, non ha un approccio empatico con le persone. Impone la sua aggressività, si sopravvaluta, pensa soprattutto al ritorno pecuniario, a come fare per trarre il maggior beneficio possibile. Sono poche le persone che lavorano con passione, con l’entusiasmo e la competenza di chi ama sul serio il proprio lavoro, in molti casi la fretta, la superficialità, l’impreparazione e la pretesa del guadagno annullano la forza e la bellezza stessa del lavoro, perché il lavoro è bello sempre, anche quando può sembrare faticoso, improbo, ingiusto. Ogni lavoro ha una sua dignità, che va conservata, determinata, ampliata, rafforzata, una dignità che non va d’accordo con l’ipocrisia, ma che si propone con fierezza, con la certezza di essere capita e rispettata. La dignità si basa soprattutto sul rispetto, sulla considerazione umana della persona, sul suo valore affettivo, perché ogni persona è portatrice di un fondamentale patrimonio di talenti, di valori e di affetti. In passato siamo stati spesso testimoni di un’ aggressiva sottovalutazione della persona umana, abbiamo assistito a violente lotte politiche e sindacali, ci siamo resi conto di quanto il potere fosse impositivo e distruttivo, incapace di dare risposte sensate a umanissime domande. Una certa subalternità passiva, una forte dose di assolutismo di parte, la certezza che la ragione dovesse sempre essere solo da una parte, una gestione troppo conservatrice del potere hanno annullato la capacità interattiva di una classe destinata a un’obbedienza senza risposta. Spesso il lavoro è mancato proprio dove avrebbe dovuto esprimere la parte migliore di sé, quella di fare con metodo, con passione, con la certezza di incontrare la disponibilità umana al dialogo, alla comprensione, al riconoscimento, a una comunicazione aperta e solidale, capace di affrontare con coraggio e disponibilità tutte le tematiche presenti in un rapporto. Le reazioni erano la risposta a imposizioni assolutiste, dove la ragione stava sempre da una parte e i torti dall’altra. Un eccesso di pensiero capitalistico ha affondato e sommerso una filosofia popolare basata soprattutto sulle necessità quotidiane, sulla voglia di sentirsi apprezzata, ascoltata, premiata, aiutata a vivere meglio la propria condizione umana. In molte circostanze non si è voluto ragionare sul valore umano del lavoro, sulla sua valenza riabilitativa, sulla sua capacità di trasformare l’essere umano, fornendogli la convinzione sociale e morale che le conquiste sono sempre il frutto di una collaborazione e di una condivisione, mai di un’intuizione o di una strategia di parte. Siamo stati spesso testimoni di quanto l’aggressività padronale abbia pesato sull’evoluzione distruttiva di una parte della società, tradizionalmente votata al confronto dialettico, al desiderio di sentirsi valutata, considerata, rispettata e forse anche un po’ amata. Spesso le convinzioni del potere hanno sovrastato quelle di chi il potere lo subiva senza poter dimostrare le proprie idee, la propria visione del mondo. Abbiamo assistito a un progressivo sottodimensionamento di chi era costretto a dover ubbidire senza poter opporre una ragionata e sensata filosofia della costruzione collaborativa. Nelle classi sociali italiane è mancata spesso una coscienza comune, anche solo l’idea che il benessere fosse il frutto di un impegno collettivo basato sulla solidarietà, sul rispetto e sulla dignità. Non si è spiegato e capito abbastanza dell’importanza di fare qualcosa di utile per sé e per gli altri, si è vissuto per molto tempo nella convinzione di essere nel giusto, senza fare lo sforzo calarsi in una visione critica e autocritica che potesse aprire la strada a forme di democrazia vissuta, dove le parti potessero trovare un valido terreno d’incontro e di confronto senza per forza arrivare allo scontro. L’ideologia di parte ha quasi sempre preso il sopravvento, determinando le differenze, ha imposto la legge del più forte, senza quasi mai approdare a un pacato confronto democratico tra le parti. La democrazia è stata vissuta più nella sua espressione demagogica che non in quella costituzionale, in molti casi è stata millantata, usata, tirata per la cinta, ciascuno ha cercato di appiopparle un’impronta personalizzata per mascherare ambizioni e velleità. E’ mancata una classe dirigente capace di dare l’esempio, di insegnare, di preparare, di formare, di far assumere non una mentalità regressiva e violenta, ma una cultura della politica democratica, votata alla convenzione del dialogo, alla cultura della rivisitazione, della prassi collaborativa, della convinzione che la forza produttiva nasca dall’unione positiva di energie diverse che, mettendosi insieme, aumentano la capacità di esprimere al massimo livello la forza propulsiva individuale. In molti casi il lavoro è stato visto e vissuto come il grimaldello per forzare l’identità altrui, una sorta di arma da posizionare e da sfruttare per capovolgere il sistema, per rafforzare una posizione, per trarre il massimo del profitto, per sfruttare diverse forme di opportunità politica. Ci sono stati industriali straordinariamente lungimiranti che hanno saputo trasformare il lavoro degli operai in una rinascita umana, culturale, sociale, familiare, partendo da un’alta considerazione del lavoro e della sua capacità di migliorare, elevare e potenziare la condizione umana, approntando una visione meno classista e più umanamente efficace della persona, stimolandone il profilo cognitivo, lo studio, la preparazione culturale, il livello psicologico e sociale, il suo essere prima di tutto persona. Nella vecchia prassi rivoluzionaria l’operaio era l’arma che avrebbe dovuto abbattere la classe padronale, rientrando così nella concezione utilitaristica delle filosofia scientifica, quella che costruiva le appartenenze e le configurazioni politiche, mettendo spesso gli uni contro gli altri, invece di insegnare il significato vero e profondo della rinascita e dello sviluppo nella nuova realtà industriale. In molti casi e a distanza di anni è rimasta una diffidenza storica tra il dirigente e il subalterno, tra chi comanda e chi deve ubbidire, tra chi è preposto a comandare e chi invece è costretto a dover sottostare. In alcuni casi il vecchio status padronale invece di emanciparsi si è consolidato, assumendo forme più sofisticate di strategia politica e in molti casi i rapporti con il mondo del lavoro sono stati e sono conflittuali, si continua a pensare che sia possibile uscire indenni da una reiterata furbizia padronale. In questi anni abbiamo assistito a fabbriche che hanno chiuso i battenti senza preavviso, lasciando i propri lavoratori in un inferno esistenziale, privilegiando l’interesse economico e quello finanziario, in barba alla centralità dell’essere umano, dei suoi bisogni, delle sue necessità, della sua sensibilità sociale e morale. Spesso il mondo giovanile si è visto chiudere le porte in faccia, ha dovuto prendere la via dell’Europa per riuscire a realizzare anche solo in parte i propri sogni. Dunque i problemi del lavoro sono spesso di natura esistenziale, lo aveva capito molto bene l’allora cardinal Montini, quando diventato arcivescovo di Milano si adoperò con tutte le sue forze per convincere le parti in causa sulla straordinaria forza e bellezza del lavoro, attivando una lunghissima serie di collaborazioni e di attenzioni all’aspetto sociale, morale, civile e religioso del lavoro, riportato in una luce meno materialista e più umanamente legata alla sua funzione formativa, allertando gli imprenditori e gli esecutori a risolvere insieme la diversità di interessi economici in una soluzione di equità e di giustizia, per trasformarli in “collaboratori e alla fine amici”. Sul tema del lavoro c’è ancora tanto da pensare e tanto da fare, soprattutto in una società come quella attuale in cui esiste il pericolo di un eccesso di robotizzazione, di sostituzione della mano d’opera umana con quella di una scienza tecnologica in costante e rapida evoluzione. Oggi il tema del lavoro è ancora più acceso, richiede una forte attitudine alla conservazione e alla innovazione, all’onestà e alla capacità di saper operare mettendo sempre al centro della storia l’uomo con i suoi disagi e le sue aspirazioni, l’uomo con la sua innata voglia di dimostrare quanto sia bello e importante impegnarsi per esprimere al massimo livello la propria operosa e intelligente aspirazione al fare. Per ritrovare la strada occorre forse riannodare alcuni principi che si sono persi con il passare del tempo, è necessario non dimenticare mai che tutto ha un principio e un limite, che stimare e valorizzare sono strumenti straordinari nella valutazione umana, strumenti che possono cambiare il corso della storia, animando, il cuore dell’uomo verso nuove speranze e nuove possibilità.
COSA FARE PER OCCUPARE POSITIVAMENTE I NOSTRI GIOVANI?
I giovani devono essere impegnati, guai lasciarli in compagnia della noia, della ripetitività, dell’indifferenza, guai darli in pasto alla tecnologia digitale senza guide e obiettivi sicuri, guai lasciarli in balìa della solitudine e dell’indifferenza. Uno dei grandi errori è proprio quello di pensare che una libertà assoluta e illimitata possa creare le condizioni di un’ adeguata crescita individuale, i giovani hanno, infatti, un grande bisogno di sentirsi impegnati, valorizzati, posti nella condizione di essere operativi nel gioco, nel lavoro, nello sport, nelle libere attività, nell’associazionismo, nello studio, nelle attività di gruppo, nella vita affettiva. L’indifferenza crea l’abbandono e l’abbandono porta inevitabilmente alla scelta di strade alternative che entrano in conflitto con la socialità, l’educazione, il rispetto, la maturità, la crescita civile, morale, sociale. Il principio fondamentale è accompagnare, senza costringere, stimolare senza reprimere, supportare senza sostituirsi, insegnare senza imporre, orientare ascoltando e dialogando senza sovrapporsi, il tutto condito con grande autorevolezza. I giovani hanno un grande bisogno di certezze. Le cercano un po’ dappertutto, in famiglia, a scuola, con gli amici, nel divertimento, nelle attività ludiche, si interrogano sull’identità, sulla dignità, cercano risposte ai loro dubbi, non amano essere sottovalutati, vogliono partecipare da protagonisti, mettendo in campo i loro talenti e le loro risorse. Ci sono momenti in cui guardano il mondo degli adulti aspettando un segnale, sicuri che ci sarà spazio per loro e che i loro sentimenti e i loro valori troveranno attenzione e soddisfazione. Lasciare i giovani in mezzo alla strada per mesi, lasciarli in preda all’ossessione dei compiti a casa, farli vivere nel terrore di un voto,costringerli a un isolamento forzato o a una libertà senza regole non li aiuta a diventare grandi nel modo giusto, in molti casi i giovani sanno benissimo quello che vogliono e per questo desiderano essere riconosciuti, aiutati, addestrati, sostenuti e indirizzati. Chi è stato giovane sa quanto sia difficile trovare spazi operativi di riconoscimento, sa quanto sia difficile essere accolti senza pregiudizi, quanto occorra impegnarsi per superare le diffidenze di un mondo adulto spesso distratto da forme di individualismo estremo. Il giovane ha dalla sua valori immensi e soprattutto un’età da cui è possibile lanciarsi nelle pieghe della vita con entusiasmo, passione, vitalità, magari sbagliando, ma con l’idea di produrre qualcosa di utile e di importante per sé e per gli altri. I giovani hanno dalla loro una speranza infinita nell’esistenza e in tutto quello che la vita può offrire, per questo vanno aiutati a riconoscere ciò che può aiutarli a decodificare sistematicamente questo meraviglioso cammino, aggiungendo elementi che aiutino a capire meglio le difficoltà del mondo che li circonda. Non reprimere dunque, ma valorizzare, non stigmatizzare, ma far riflettere, non sottovalutare, ma accompagnare, in molti casi c’è un grande bisogno di acquisire certezze, sicurezze, di sapere quello cui si va incontro, che l’esperienza personale è fatta anche di muri e contromuri, di ostacoli e imprevisti con i quali occorre fare i conti, meglio se culturalmente attrezzati. Dunque i giovani hanno un sacrosanto bisogno di sentirsi impegnati, di sapere quello che fanno e perché lo fanno, di agire con coscienza di causa e con grande impegno, hanno bisogno di rendersi conto che il mondo che li circonda ha bisogno del loro contributo, li vuole accanto a sé, ha bisogno di sentirli vicini, di far leva sulla loro fantasia, sulla loro purezza di ideali, sulla loro capacità di saper guardare oltre i pregiudizi e le ambiguità. Lasciarli in balìa di un tempo libero senza confini e senza obiettivi significa alimentare un disagio che da latente può trasformarsi in persistente, creando non pochi imprevisti. Le inadempienze e le incongruenze, i disagi profondi del mondo giovanile dipendono in gran parte da un mondo adulto diventato incapace di essere coerente, di avere convinzioni certe, di saper dimostrare sul campo il valore di una frase, di una parola, di un impegno. Ci sono molti modi per far passare messaggi positivi, per dimostrare che la vita ha un senso compiuto se tutti concorrono a plasmarla, a renderla più viva, attenta, reale, se ciascuno si assume le proprie responsabilità e se tutti capiscono che nella coesione, nella lealtà, nella chiarezza, nell’unione e nella collaborazione quel mondo disadattato che abbiamo imparato a conoscere, forse cambierà direzione, abbandonerà le guerre e i massacri, gli odi e i rancori, i dossieraggi e tutte quelle brutte cose che non fanno altro che sporcare più del previsto quell’eredità che abbiamo ricevuto in dono e che abbiamo il dovere di conservare e di proteggere per tutti coloro che verranno.
PIU’ ATTENZIONE E CONTROLLO SULLE STRADE
Chi frequenta solitamente le strade comunali, provinciali e statali, per lavoro, per sport o per turismo, sa benissimo quanto sia diventato pericoloso percorrerle e quanto sia carente l’attenzione al riguardo. Capita sempre più spesso di incontrare macchine che tagliano la strada, automobilisti che viaggiano con una mano sul volante e con l’altra con il telefonino all’orecchio, automobilisti che viaggiano ben oltre i cinquanta chilometri orari nei centri urbani, ciclisti che passano con il rosso, camionisti che sfilano pedoni e ciclisti con autoarticolati che si muovono come serpenti oltre i limiti di velocità consentiti, il tutto avviene sistematicamente sulle nostre strade, dov’ è assolutamente carente un servizio d’ordine adeguato e dove l’educazione stradale generale è sempre più carente. Non solo, ma chi più sbaglia è chi più se la prende con quei poveretti che di solito subiscono l’oltraggio dei prepotenti. Chi viaggia sistematicamente sulle nostre strade lo fa con una grande dose di paura. Forse converrebbe alzare lo sguardo e spingerlo verso quelle nazioni del nord europeo, la cui civiltà è avanzatissima su tutti i fronti, sia su quello delle responsabilità individuali, del senso civico, delle pubbliche responsabilità, del livello educativo del singolo e della collettività. In molte nazioni d’Europa, tra ciclista, automobilista, camionista e pubbliche istituzioni esiste un solido patto di alleanza, così come tra coscienza individuale e coscienza collettiva, tra livello educativo individuale e livello educativo pubblico, tra individuo e società. Ciascuno è responsabile dei propri compiti e li mette in pratica nell’interesse di tutti. Nelle aree del nord Europa l’educazione ha un grossissimo spessore che salda le varie parti del tessuto sociale, viene messa in pratica da tutti, perché è diffusa la consapevolezza che il bene comune sia davvero la carta vincente di una nazione che vuole dimostrare di essere all’altezza della situazione, capace quindi di garantire e legittimare l’aspirazione alla sicurezza della propria gente. In Italia la visione è meno collettiva e più individuale, meno vincolata alle regole e più interpretata e personalizzata. Per l’italiano la regola è un impedimento, una sorta di muro eretto per limitare la libertà, per impedire che si possa agire d’istinto, che si possa dare il via libera ai propri diritti, sbandierati spesso senza il sostegno paritario dei doveri. Il nostro sistema viario risente di una visione priva di oggettività e di attendibilità, è spesso inadeguato, mal programmato, messo in campo in tutta fretta per una scadenza elettorale alle porte, o per dimostrare l’efficienza di una parte politica, ma i risultati risentono di un’incapacità atavica di mettersi insieme e di imparare a vivere e a condividere il senso di una rinascita umana e civile, fondata sulla necessità di migliorare realmente la condizione esistenziale. Rimettere l’uomo al centro, formarlo, ascoltarlo e considerarlo, capirne i problemi, offrendogli la possibilità di vivere una vita più adeguata, sono elementi necessari per favorirne la rinascita, per rimettere in moto il valore di una coscienza lasciata per troppo tempo in balìa di situazione di comodo. L’educazione stradale è fondamentale, riflette la natura delle persone, è il banco di prova della loro formazione, di ciò che hanno appreso nel corso degli anni, è il risultato di come famiglia, scuola e società civile abbiano interagito e interagiscano durante il loro cammino formativo. Il vero carattere delle persone lo scopri guidando, quando la tua libertà personale è soggetta al rispetto di regole precise, quando sei solo con la tua volontà e la tua onestà, quando quello che hai appreso deve essere messo in pratica, quando il confronto diretto con gli altri assume un’importanza vitale. Sulla strada il cittadino misura la sua onestà, la sua coerenza, la sua lealtà, dimostra concretamente di quale natura sia portatore, se crede realmente nella storia del diritto e in quella del dovere. Sulla strada l’educazione si afferma o scompare, la natura dell’essere umano viene messa alla prova. Si tratta di un confronto serrato con se stessi e con quel sistema di cui siamo operatori ed esecutori. Certo sarebbe straordinario se non ci fosse bisogno di una presenza visiva, di qualcuno che ci tocchi la spalla quando esageriamo, quando trasformiamo l’auto, la moto o la bici in un’arma con cui aggredire, frodare, alterare, violare. Sarebbe troppo bello se evitassimo le multe e mettessimo in atto una coscienza vera del rispetto e dell’educazione. Purtroppo la libertà individuale è, in molti casi, un modo per falsificare la realtà e sono ancora troppi coloro che usano il prossimo come un nemico da abbattere. Il cammino della rinascita educativa è ancora molto lungo, ma proprio per questo ha un estremo bisogno di educatori che lo sappiano insegnare. Non bastano le regole scritte, la pattuglia ferma poco dopo il semaforo, occorre che ciascuno faccia un esame di coscienza e si comporti di conseguenza, ricordandosi sempre che la vita è una sola e che merita di essere vissuta e difesa con tutta l’accortezza possibile.
IMPIEGARE I GIOVANI
L’impressione è che la società in cui viviamo sia molto individualista, molto egoista, incapace di avere una visione complessiva delle cose di questo mondo, soprattutto incapace di stabilire solide relazioni sociali, capaci di annullare le distanze e consolidare quell’armonia di fondo, necessaria per sviluppare una democrazia vera, leale, profonda, condivisa, fondata sulla comprensione e sulla condivisione. I giovani hanno un valore fondamentale, sono la carta d’identità di una nazione, il patrimonio su cui una nazione si gioca il presente e il futuro, ma hanno bisogno degli adulti, di un mondo adulto maturo, capace di dare il giusto senso allo slancio vitale di chi si affaccia alla vita per capirla, viverla, amarla, proteggerla, conservarla. In questi anni di tecnologie avanzate, di scoperte e di sperimentazioni ci siamo resi conto di quanto l’umanità acquisti sul piano dell’iniziativa produttiva, ma di quanto perda su quello dell’educazione. I rapporti e le relazioni umane perdono infatti di umanità, strada facendo, si scavano nicchie in cui si consumano l’altruismo e la comprensione, lasciando aperti ampi spazi alla frustrazione, alla solitudine, all’anarchia, a una libertà privata della sua consistenza morale e sempre più spesso ridotta a mero esercizio di personalissime comodità. Siamo lontanissimi dai tempi in cui dominavano il senso del pudore, il rispetto per le persone anziane, l’educazione della parola, l’apprensione educativa dei genitori, l’energia protettiva dei nonni, l’idea che la famiglia fosse davvero il centro del mondo, la base di decollo della felicità umana. La moderna tecnologia avvolge, assorbe, distrae, richiama, ma contemporaneamente distoglie l’umanità dalla sua natura, le toglie la propensione affettiva, le costruisce attorno una cintura che le impedisce di guardare oltre, di andare alla scoperta quotidiana di quella felicità terrena che anima la voglia di fare, amare, stimare, vivere, gioire. La vita viene svuotata della sua magia, del suo mistero, della sua voglia di libertà cosciente, della sua voglia di credere, di andare oltre i materialismi che la piegano alle volontà umane, soprattutto a quelle che la usano per rimpolpare i propri egoismi. I giovani hanno un estremo bisogno di attenzioni da parte del mondo adulto, hanno bisogno di tornare a credere che la vita sia davvero quel tesoro straordinario di cui papà e mamma sono i paladini, hanno bisogno di ricominciare a credere che il male esiste da sempre, ma che si può vivere bene e felici anche senza dover comprimere l’immenso patrimonio di valori e sentimenti che ciascuno porta con sé dalla nascita. I giovani possono compiere il grande salto verso una globalizzazione meno oppressiva, meno disarcionante e meno distruttiva, possono ritessere anche solo l’idea che si possa vivere ritrovando una solidarietà sociale ampia e condivisa e che il motore del mondo sia proprio nella diversità, nel saper fare tesoro dei valori che ogni essere umano porta con sé per affrontare l’impegnativo viaggio della vita. Per questo non possono vivere ai margini, ma dentro il cuore pulsante dell’azione comune, devono assaporare il gusto di una presenza operativa capace di risollevare le sorti di una civiltà stanca e spesso senza speranza. E’ in questa rinascita che si colloca la nuova dimensione umana, nella sua capacità di saper distinguere ciò che unisce e aiuta da ciò che consuma e distrugge.
UNA SCUOLA A TEMPO PIENO PUO’ ESSERE LA SOLUZIONE?
Oggi si torna a parlare di scuola a tempo pieno, si sente fortemente la necessità di creare una cintura di sicurezza intorno a un mondo giovanile lasciato troppo spesso in balìa della cattiveria umana, dove si consumano le inadempienze di un mondo che crede sempre di meno nell’umanità delle persone, trattandole spesso come strumenti per raggiungere i propri fini e i propri scopi. Dunque l’idea di una scuola che sia somma di vocazioni e iniziative, di attività e di creatività, di umanità e di cultura, una scuola che sappia rispondere in modo completo alle attese di una natura umana che rischia di perdere per strada la propria interiorità, cercando disperatamente una via di fuga dai mille problemi che si abbattono quotidianamente sui giovani, sui professori e sulle persone in difficoltà. Una scuola che diventi tempio di educazione e di civiltà, capace di stimolare senza opprimere, di coinvolgere senza stancare, di produrre concretamente soluzioni, che sappia far amare la famiglia, la patria, la religione, investendo su una cultura attiva, che sappia adattarsi all’innovazione e alla modernità senza perdere di vista la conservazione di valori e di esperienze, una cultura che sappia orientare concretamente e umanamente i giovani verso conoscenze che sappiano unire, coinvolgere, contemperando la cultura della vita a quella del lavoro, la voglie di fare con quella di pensare. Si tratta dunque di ricreare una scuola che sia intimamente legata e correlata alle potenzialità umane, quelle che emergono quando il cuore e la mente accompagnano di pari passo l’intelligenza pratica, quella che si lega alla voglia di interagire con la materia, senza diventarne schiavi. La scuola a tempo pieno è un tipo di esperienza che si è già abbondantemente vista in passato, si tratta di una iniziativa socialmente utile, che ha politicamente risposto a esigenze di natura associativa, legate alle difficoltà organizzative del sistema familiare e sociale. Una iniziativa utile, formalmente e sostanzialmente interessante, che va supportata da una visione in cui tutto si connette, partendo da quella parte strutturale e infrastrutturale che tante lacune ha avuto in passato. Tutti quanti siamo stati testimoni di scuole fatiscenti, obsolete, inadeguate, abbandonate a un ignobile destino che, in alcuni casi, si è ritorto contro alunni ignari, vittime dell’ignoranza di un mondo adulto molto più coinvolto nelle diatribe personali, che non nelle necessità e nei bisogni della famiglia, della scuola, del lavoro. Si è lasciato poco spazio alla coscienza come strumento di valutazione delle difficoltà e delle risorse, ci si è affidati alla bacchetta magica di una politica sempre meno capace di rispondere alle esigenze di una società in rapida evoluzione. Spesso le riforme sono state create ad hoc per dimostrare al proprio elettorato di esserci, mentre in realtà si trattava di approntare cambiamenti radicali, capaci di rinnovare sul serio un sistema rimasto legato a vincoli e a situazioni inadempienti. Una scuola a tempo pieno potrebbe essere una soluzione, ma va studiata, progettata, in modo tale che diventi realmente elemento di rinascita di una generazione che ha spesso abbandonato il mondo dell’educazione, dell’istruzione e della cultura al proprio destino, immaginando che il mondo fosse solo quello degli euro, delle economie, delle finanze, delle banche e delle tecnologie più avanzate. Formare il cittadino è un impegno molto più grande, si tratta di un impegno che fonde tutte le parti nobili della natura umana, quelle che sfociano in una coscienza corretta della vita, nella capacità di saper affrontare le dinamiche esistenziali con l’orgoglio e la fierezza di chi sa trasformare la cultura in relazioni e comportamenti adeguati. Un scuola a tempo pieno è possibile, ma non deve chiudere, non deve comprimere, non deve diventare un orto privato da coltivare in relazione a obiettivi di natura elettoralistica o di parte, deve proporsi come una grande operazione di libertà, nella quale trovino posto tutte le attitudini umane, in particolare quelle che aiutano ad aprire il cuore e la mente alla conoscenza del mondo.
POETARE E’ COMUNICARE
La poesia non ha età, non ha confini e non ha colori, è l’essenza stessa della vita, perfetta sintesi di vocazioni che trasformano la materia in musicalità e armonia, in pura genialità creativa. La poesia non è fuori dal mondo, è dentro di noi, nella leggerezza dei nostri sentimenti, nel geniale raccordo tra l’essere e l’intuizione, nella libertà espressiva che accompagna il nostro cammino. E’ la più elevata manifestazione dell’atto comunicativo e per questo richiede qualità molto particolari, come la sensibilità, la forza dell’analisi introspettiva, una forte capacità di osservazione, che sappia cogliere tutto ciò che sfugge alla normale lente d’ingrandimento. Se qualcuno pensasse di sostituire la scienza alla poesia, decreterebbe la morte spirituale dell’essere umano, costringendolo a un imbarbarimento progressivo della sua interiorità. Uno dei grandi problemi del mondo moderno è quello di non riuscire più ad armonizzare sentimento e ragione, passione e razionalità, azione e sentimento, prosa e poesia. E’ come se improvvisamente mondi che sembravano dormienti, si ripresentassero sul palcoscenico della storia per chiedere la restituzione di un primato. Il razionalismo industriale si ciba di futurismo, delegando a un sottile e sofisticato gioco di onde elettromagnetiche il potere della seduzione, mentre l’umanesimo difende la specularità della natura umana, grande protagonista della conoscenza e del sapere. Vivere la poesia significa capirsi e capire, snidare la parte più nobile che giace latente negli angoli remoti della nostra coscienza e nelle vie ramificate del nostro sistema vascolare, accendere la luce dell’universalità della natura umana, sviluppare generosi rapporti relazionali con noi stessi e il mondo esterno. Il poeta è colui che stempera i contrasti, che dirime le contraddizioni, che ripropone l’unione e l’umanità del lavoro, il giusto rapporto tra anima e pensiero. La poesia è la voce della nostra cultura, l’unica che sia ancora in grado di elevare l’uomo dalla barbarie dell’omologazione