FORSE SI E’ ESAGERATO
Una delle primissime cose che insegnavano i vecchi di una volta era la moderazione. La voce sguaiata, la prevaricazione, la sovrapposizione, una passione dissennata, un’accumulazione esagerata, una gestione assolutistica del potere, erano oggetto di molta attenzione nell’educazione tradizionale, quella che respirava l’aria del buon senso comune, che nasceva da una vita semplice, vissuta con il cuore, con la certezza che l’esperienza fosse una buona maestra di vita. I genitori si preoccupavano quando i figli correvano troppo, a piedi, in macchina, in moto, in vespa, nello studio e nelle grandi decisioni della vita, cercavano sempre di richiamare l’attenzione sulla necessità di pensare, di riflettere, di cercare di capire se quello che si decideva o che si faceva avesse un valore reale o fosse soltanto l’infatuazione di un’idea esageratamente sbilanciata. In molti casi l’esperienza, quella parte dell’educazione appresa nel vissuto reale, aveva un ruolo decisivo, ampiamente condiviso, molto di più, in certi casi, di una teoria estrapolata dai libri o da qualche dotto insegnamento arrivato tramite i canali ufficiali. Moderazione era una parola usata molto spesso, soprattutto da chi aveva il compito di richiamare l’attenzione, conoscendo molto bene le infiltrazioni dissolute della natura umana. Era prassi comune che una sana moderazione fornisse più valore alla persona, le consentisse di manifestare una maturità a largo raggio, capace sempre di riflettere su verità propinate in eccesso, per imbrigliare il buon senso. La moderazione era nelle persone, ma anche nelle istituzioni, soprattutto in quelle che avevano una ricaduta importante sulle decisioni comunitarie. La prima cosa che dicevano i genitori era: “Pensa!”. “Prima di agire, pensa, non lasciarti prendere la mano dall’istinto, gestisci le tue pulsioni, orientale pensando a quello che fai, al perché lo fai, a come lo fai. Fermati un attimo, non avere fretta, un attimo in più potrebbe essere decisivo per evitare un giudizio affrettato, un passo sbagliato”. L’idea dominante era che la fretta fosse una cattiva consigliera e che non bisognasse assolutamente lasciarsi prendere la mano da qualsiasi forma di eccesso: la ponderatezza prima di tutto. In famiglia si insegnava. Non c’era la cattedra, non c’erano i banchi, non c’erano professori o maestre, ma c’era un fortissimo spirito persuasivo, ereditato dai nonni e da tradizioni che si erano evolute grazie a un’ottima capacità di osservazione e di riflessione sulla vita. L’educazione di una volta insegnava a non agire scriteriatamente, senza prima aver ponderato attentamente le cause e le conseguenze. Un’educazione fatta in casa? Certamente sì, magari condita di buone letture, di insegnamenti proficui, di racconti e di emozioni vissute nel quotidiano, a stretto contatto di gomito con la vita e le sue sfaccettature, con persone che non erano condizionate da una fretta smodata, con anziani che non erano semplicemente ombre o pedine, ma commentatori quotidiani di fatti, storie, esperienze, capaci di dare sempre un volto alle cose, un volto che non fosse mai troppo critico o disarmante. Nella moderazione, la riflessione ampliava il suo spazio e sviluppava una forte attrattiva, dentro la quale trovano spazio quei passaggi senza i quali le decisioni diventano frivole e labili, perdendo la loro naturale vocazione etica, impedendo quindi alla ragionevolezza di far valere la sua capacità di convinzione. Oggi viviamo il tempo delle esagerazioni, determinate anche in parte da forme dissolute di benessere e di consumismo. Chi si è buttato nella certezza di poter sfruttare al massimo il momento lo ha fatto spesso senza ponderare, andando spesso molto oltre rispetto le reali possibilità, affidandosi a entusiasmi che col passare del tempo hanno dimostrato il dramma di vuoti esistenziali non sufficientemente calibrati. In molti casi è venuta a mancare una programmazione seria, progetti ad ampio raggio capaci di affrontare con sufficiente determinazione gl’imprevisti, ci si è lasciati spesso sorprendere dagli eccessi, è venuta a mancare una forte preparazione di base, una formazione capace di fornire tutti quegli elementi che diventano indispensabili nel lungo e tormentato cammino lavorativo. Si è data poca importanza al lavoro come bene costituzionale, lo si è trattato con troppa leggerezza, non lo si è fatto conoscere abbastanza, ci si è limitati a considerazioni di natura materialistica, si è parlato pochissimo di etica e, soprattutto, il lavoratore non ha avuto quel riconoscimento ampiamente previsto dal nostro ordinamento istituzionale. In molti casi si è pensato che il sistema delle rivendicazioni sociali fosse la via, si sono aperti conflitti permanenti, incompatibilità e presunzioni che hanno acuito le distanze e le incompatibilità, creando spesso muri insormontabili. Il mondo della scuola, ad esempio, non si è allineato alle dinamiche di una società in costante trasformazione, si è mantenuto su un terreno troppo teorico, troppo impregnato di una natura spesso classista e divisiva, non ha sviluppato una cultura dell’apprendimento anzi, in molti casi, ha passato l’idea che un certo tipo di scuola fosse di serie b. Ancora oggi s’inneggia alla formazione classica e a quella scientifica, ma la cultura del lavoro è estremamente carente, soprattutto sul piano pratico, dove mancano le coordinate guida verso un orientamento fatto soprattutto di concretezza, le scuole che si occupano di lavoro vivono una condizione di subalternità, non trovano la giusta collocazione, non godono di una giustificata posizione prammatica, vivono una condizione di inferiorità. Manca una fiducia nel mondo del lavoro e nei confronti di chi lo rappresenta, in molti casi chi lo crea dimentica chi sono realmente coloro ai quali viene affidata la difficilissima responsabilità di collaborare. Spesso l’insegnamento è stato di natura impositiva, è stato vittima di categorie, di pregiudizi, ma non si è rivolto all’anima del lavoratore, non ne ha messo in evidenza i bisogni umani e culturali, si è accontentato di esaurire la parte dei bisogni materiali. E’ nella più generale crisi dei valori umani che prende piede la più grande crisi della storia sociale, una crisi che non è stata affrontata con quella capacità intuitiva che sarebbe stata necessaria per capire meglio l’evoluzione dei tempi, per evitare di cadere nella trappola di approssimazioni e facilonerie pagate a caro prezzo. Si è guardato sempre con una certa diffidenza alla natura vera e profonda della vocazione umana, lasciandola spesso in balia di posizioni che non si sono evolute e che hanno continuato a creare contrapposizioni e antagonismi. La scuola è arrivata spesso in ritardo, vittima di una politica che ha guardato più a perpetuare il potere che non a introdurre riforme adeguate alle necessità dei tempi.
RIPARTIAMO DALLE PICCOLE COSE
Quando le cose non vanno la prima cosa è cercare di rendersene conto, di capire quali ne siano le cause e che cosa sia giusto fare per porvi rimedio. L’essere umano è sempre piuttosto reticente quando è costretto a mettere in discussione se stesso, soprattutto quando sbaglia e vuole avere ragione, quando crede di risolvere i problemi con la forza della rabbia o con la violenza, quando non usa la ragione, quando non si ferma a pensare e a riflettere. Uno dei grandi problemi di oggi è proprio quello di non essere più abituati a pensare prima di compiere un’azione o di pronunciare un giudizio, in molti casi non si parla neppure più, si urla sovrapponendo le voci, impedendo alle persone di capire da che parte provenga l’emissione. Spesso l’incontro diventa scontro e una diffusa irritazione impedisce di leggere con tollerante pazienza e determinazione l’origine dei problemi, la loro evoluzione, la loro natura, il rischio è quello di nascondersi dietro un’infausta posizione d’interesse, dove tutto si restringe e si colora di individualismo, di conservazione, di rifiuto e di furberie varie, che impediscono alla natura umana di svelarsi per quella che realmente è. Ripartire dalle piccole cose è il passaggio fondamentale. Quali sono le piccole cose? Quelle che rappresentano l’asse di sostegno, il perno attorno al quale si confermano le virtù e le debolezze, tornando a essere quelli che realmente siamo, un popolo capace di grandi cose, dotato di una rara capacità intellettiva, messa in discussione spesso da un’acuta voglia di rivalsa, da negazioni estreme, da varie forme di antagonismo, da un individualismo che spesso diventa prevaricazione dei più elementari principi di libertà. In molti casi dimentichiamo il senso critico, allontaniamo tutto ciò che può mettere in discussione la presunta autorevolezza dei nostri punti di vista, presi come siamo dalla convinzione che il nostro pensiero sia il migliore dei pensieri possibili. In questi anni ci siamo anche resi conto, ad esempio, che risulta oltremodo difficile valutare serenamente il passato, senza incorrere in supervalutazioni e in sottovalutazioni, capita spesso, infatti, di essere testimoni di stereotipi e di archetipi, oltre i quali diventa quasi impossibile raggiungere nuove verità, nuovi modi di essere e di agire. La dicotomia tra passato e presente è molto forte, incomprensioni e vecchi rancori sono ancora all’origine di un furbesco posizionamento intellettuale che impedisce di vedere chiaro anche là dove urge fare chiarezza, dove si rende importante compiere analisi accurate, corrette, capaci di sdoganare ciò che è stato sottratto all’anamnesi storica, non si sa per quali ragioni. Nella nostra vita sopravvivono zone, spazi e settori della vita privata e di quella pubblica che non hanno permesso alla lente di ampliare i caratteri, di chiarire significati e significanti, aree che generano ancora spazi di ambiguità. Superare l’ambiguità, pensare che esista un mondo diverso da quello disegnato in passato può essere il passo capace di rivalutare, rigenerare e restaurare, rispondendo alle attese di un mondo che cambia profondamente nelle sue vocazioni e nelle sue aspirazioni. Assistiamo a cambiamenti epocali legati alla globalizzazione, ai fenomeni migratori, alle trasformazioni economiche, all’avvento di sofisticate tecnologie, a trasformazioni radicali e profonde dovute alle desertificazioni, ai dissesti idrogeologici, ai terremoti, alle guerre, a forme di comunicazione che amplificano la visione di un mondo che non ha più segreti. Le soffitte traboccano di valori coperti di polvere, come l’onestà, l’operosità, l’unione, la lealtà, l’impegno, l’osservanza, il rispetto, il senso della misura, valori che sopravvivono nell’individualità, ma che non hanno una tiratura commerciale adeguata. La corruzione di questi anni ha definito i limiti di una democrazia troppo spesso sopravvalutata. La convinzione che le conquiste avessero il dono della stabilità perpetua, si è rivelata spesso non idonea ad affrontare le insidie di un mondo che dimostra quanto sia importante non farsi sorprendere, essere pronti a confrontarsi con una realtà che cambia repentinamente. Gli stessi principi costitutivi del nostro ordinamento costituzionale dimostrano, in alcuni casi, l’incapacità di saper comprendere e valutare bene fino in fondo il senso e il valore di quella realtà con la quale siamo costretti a confrontarci nella vita quotidiana. Ritrovare lo spirito, avere il coraggio di limitare i danni di una dipendenza tiranna, rimettere al centro l’uomo con i suoi bisogni e le sue necessità, dare il giusto valore al denaro, riattivare l’energia creativa, ridare forma e speranza a un pensiero troppo spesso vittima di strategie paradossali, ritrovare la dimensione umana dell’affetto e della riconoscenza, sono piccoli espedienti di un passato che non molla, che continua a camminare tra alienazioni profonde e illusioni, tra mondo reale e mondo virtuale, alla ricerca di un posizionamento stabile, su cui costruire di nuovo. Nel tempo delle connessioni ossessive, forse c’è bisogno di disconnettere, di lasciare che la vita faccia il suo corso e riprenda a sognare e a comunicare, riproponendo la forza e la bellezza delle emozioni e dei sentimenti, senza nulla togliere al fantastico dinamismo della natura umana.
LAVORARE CON ORGOGLIO
C’è chi definisce l’orgoglio una forma di presunzione, qualcosa che non permette alla persone di avere una visione più vera dei propri limiti, qualcosa che esalta la posizione individuale e sociale dell’io, un io che spesso si sente superiore, che non accetta di mettersi in gioco, in relazione, che guarda il mondo dall’alto, definendosi giudice supremo. L’orgoglio può diventare questo quando le società entrano in crisi. Le crisi fanno perdere coscienza, annullano la spinta relazionale, condannano a varie forme di autismo, fanno perdere di consistenza etica, determinano disorientamento e frustrazione, aprono la strada a libertà senza limiti, a interpretazioni arbitrarie. Lavorare con orgoglio significa essere consapevoli di quello che si fa, coscienti delle ricadute che i comportamenti hanno sulla vita sociale. Quando il lavoro riempie di orgoglio? Quando fa sentire vivi, quando scuote la vocazione decisionale, la voglia di partecipare, determinare, condividere, inventare, creare, di sentirsi utile all’evoluzione di una società che ha bisogno di essere sollecitata, supportata, amata, orientata. L’orgoglio serve a mantenere alto il valore dell’autostima, a dare coraggio, a stimolare la voglia di fare, di sentirsi utili. Dunque l’orgoglio diventa necessario per non retrocedere di fronte ai muri che s’incontrano sul cammino, per testimoniare la gioia di un’appartenenza, per rafforzare una spinta, per confermare l’audacia di una scelta, la bontà di quello che si fa. Capita spesso di incontrare persone che sono state bastonate dal lavoro, che non hanno avuto il riconoscimento dovuto, che hanno dovuto sottostare all’intimidazione e alla sfrontatezza e che sono riuscite a mantenere intatto l’orgoglio, la fierezza di aver fatto sempre il proprio dovere, di essere stati sempre positivamente sul campo a lottare per la realizzazione di quei valori e di quei principi di carattere morale e sociale, ai quali hanno affidato la loro intelligenza e la loro coscienza.