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Frammenti 11 di Felice Magnani

 21 Febbraio 2019 |  Pippo | |

CHI DIFENDE OGGI IL MONDO OPERAIO?

C’era una volta il mondo operaio, quello delle fabbriche, che si alzava alle cinque di mattina e che faceva i turni di notte, un mondo straordinario, tirato fuori spesso nelle bufere esistenziali, quando il posto di lavoro e il salario minimo non quadravano o quando i diritti e i doveri valevano per gli altri e pochissimo per chi faticava moltissimo. Un mondo da riqualificare, che chiamava in causa trattamenti dal volto umano, rispettosi dei cuori e delle anime, del lavoro e delle famiglie, un mondo che era stato l’anima di una grande rivoluzione, che aveva trovato strenui difensori tra i partiti e i movimenti, nel mondo sindacale e in quello politico, nei rappresentanti ufficiali del mondo cattolico. Ci sono pagine bellissime dell’arcivescovo Montini, sul lavoro, sulla sua capacità di far sentire l’uomo meno vittima e suddito e più autentico depositario della religiosità del fare, del creare, dell’inventare, del credere. Montini credeva ciecamente nel lavoro, nella sua essenza, nella sua capacità di attrarre, di coinvolgere, di dimostrare quanto l’intelligenza divina, se applicata, potesse entrare direttamente in sintonia con l’aspirazione umana al fare. Dunque una chiesa attenta, sollevatrice di cuori e di speranze, capace di trasformare la filosofia in operosità concreta, di cui la religione diventava attenta promulgatrice. Un passaggio fondamentale quello della chiesa montiniana, capace di stemperare un mondo del lavoro trascurato, lasciato in balia di ideologie, antagonismi e ritorsioni, incapace di generare speranza e soprattutto di credere nella capacità di essere espressione autentica dell’Intelligenza divina. Non più dunque un lavoro figlio di un materialismo negletto, ma espressione autentica di un uomo convinto di essere qualcosa di più di un semplice esecutore di volontà altrui. Sul lavoro si è sempre speso troppo poco e solo in circostanze difficili, quando la spada di Damocle scendeva impietosa sulla sua testa per definirlo, isolarlo, trattandolo come il nemico da convertire. Eppure quel mondo complicato e difficile ha dimostrato la forza e la bellezza del lavoro anche nella sua durezza espressiva, nella sua presunta volgarità, ma pieno di una straordinaria estensione morale, capace anche di andare oltre, di dimostrare quanto avesse bisogno di attenzioni e riconoscimenti, di umanità, di sentirsi amato e sorretto e non irriso da chi lo usava per fini propagandistici o per incrementare il valore del potere e quello della ricchezza personale. Se qualcuno avesse realmente pensato alla forza innovativa del lavoro lo avrebbe eletto a giudice costituzionale, gli avrebbe conferito la giusta dignità, lo avrebbe sollecitato, promosso, insegnato, gli avrebbe riservato una piazza ancora più importante, in cui la voce non fosse solo espressione episodica di sofferenza e incomprensione, ma di voglia di fare, di sentirsi utile, di essere ascoltata e capita, di trovare quella comprensione nella quale fosse più facile affrontare la durezza di un destino pieno di difficoltà. Oggi quel mondo sembra quasi scomparso. C’è ancora chi lo richiama e lo raccoglie per affermarne la presenza, ma il lavoro stenta a crescere, a trovare spazi, è vittima di inadempienze e di diatribe che non si risolvono, di prevaricazioni e sopraffazioni, di negligenze, di menefreghismi, ma c’è, è lì che aspetta di essere riconosciuto, valorizzato, riamato, immaginando che la storia abbia capito dove stia di casa la rinascita di un paese. Si ricomincia a parlare di ultimi, di povertà, di gente che non sa dove andare a mangiare e dove andare a dormire, di operai che perdono il lavoro perché le fabbriche chiudono e si trasferiscono altrove a volte senza preavvisare, di multinazionali che si fanno vive quando c’è da raccogliere e se ne vanno quando diventa indispensabile aiutare il prossimo in difficoltà, eppure i porti straripano di yachts, i ristoranti sono sempre pieni, i suv sono all’ordine del giorno, la gente se ne va in vacanza nei paradisi dove il sole e il mare la fanno da padroni. Un mondo davvero strano, dove chi predica sono i più ricchi, quelli che hanno tutto e che si possono permettere di urlare, insultare, predicare, passando il loro tempo profumatamente pagati da chi ha soldi da buttare. Il mondo operaio c’è e si fa sentire, forse ha capito che non bisogna mollare, che è pericoloso lasciarsi andare e che la società ha ancora bisogno di qualcuno che la inviti a svegliarsi.

ESISTE ANCORA L’ITALIANITA’

Chi ha vissuto per intero l’italianità, ogni tanto si domanda se esista ancora, come e dove incontrarla. Il problema non riguarda forse chi ha già un po’ di anni e potrebbe tirare i remi in barca, ma quel mondo dei giovani che ha la fortuna di nascere in uno dei paesi più belli al mondo e che si guarda attorno per cercare di capire cosa significhi realmente essere italiani. Quando la globalizzazione non esisteva, l’Unione europea era un sogno e la televisione non invadeva l’aspirazione alla gioia e alla tranquillità di un popolo messo duramente alla prova da guerre drammatiche, le famiglie insegnavano il rispetto, la chiesa i Comandamenti, la scuola la conoscenza, il servizio militare l’ordine e la difesa della patria, tutto convergeva verso una presa di coscienza comune, nella quale ci si poteva identificare, mettendo bene in luce il senso vero e profondo di un’ appartenenza. Cosa significava essere italiani? Riflettere, ad esempio, sui principi educativi insegnati dai genitori, sul senso della storia e dell’educazione civica insegnate a scuola, sul significato di un inno e di una bandiera, mentre emozionato più che mai impartivi gli ordini ai militari della tua compagnia o mentre osservavi incuriosito e fiero le sfilate delle truppe e dei mezzi corazzati alla festa della Repubblica e a quella delle Forze Armate. Sopra tutto, sventolava una bandiera bianca, rossa e verde, era il simbolo di un’appartenenza bella, vera, capace di generare emozioni forti, che partivano da quelle del momento, per ripercorrere subito dopo le tappe di una storia impegnativa, difficile, capace però di generare nuove speranze e nuovi slanci. Bastava ascoltare l’omelia domenicale del Santo Padre, partecipare a una festa, esercitare un diritto, ottemperare a un dovere e capivi che quello era il tuo paese, quello in cui eri stato educato e al quale dovevi portare rispetto sempre, in ogni circostanza, anche quando l’incoerenza bussava per tentare la tua onestà. Lo studio della storia aveva un ruolo fondamentale, soprattutto quella Risorgimentale, con i suoi eroi, i suoi atti, i suoi personaggi, le sue azioni, la sua letteratura, le sue poesie, la sua musica, tutto richiamava l’animo all’osservanza, alla rimembranza. Ci si sentiva italiani anche senza volerlo e tutto sommato era una bella storia, insegnata in punta di fioretto da maestre e maestri, professori e professoresse che avevano nell’animo, prima ancora che nella voce, una dolcissima predisposizione all’amore per la patria. Non si trattava di una patria ossessiva o impositiva, ma una realtà che sentivi umanamente tua, difesa, promossa e protetta da gente che per lei aveva dato la vita. Vivevi la patria come una madre tenera, attenta, dolce, ma anche molto severa all’occorrenza. In quella patria c’era tutto: il senso della vita, le regole da rispettare, la Costituzione, la legge, l’affetto per i nonni e per i genitori, il fortissimo legame con quell’educazione cattolica che era il perno attorno al quale gravitavano le nostre ansie e le nostre attese. L’educazione cattolica aveva il grande pregio di definire meglio, di affinare e potenziare quella laica, con il vantaggio che la dipendenza non era solo di natura materiale, ma tra materia e aspirazione umana c’era anche un Qualcuno che sentivamo molto vicino, quasi fosse un familiare attento a non lasciare mai mancare nulla. Era un’educazione che stuzzicava l’interiorità, la presa di coscienza. Allenava alla riflessione, promuoveva l’idea che i padroni della vita fossero anche di altra natura e che, soprattutto, non lasciavano indietro nessuno. Chi ha vissuto quel tipo di educazione sa quanto fosse attenta alla creazione e allo sviluppo di una personalità formata, capace di dare il giusto valore alla gioia e alla sofferenza, sempre pronta venirti incontro nei momenti difficili, quando la speranza rimaneva prigioniera di varie forme di materialismo. C’era un’educazione familiare attenta, severa, capace di insegnare con l’esempio, pronta ad assumersi le proprie responsabilità, capace di riconoscere il proprio limite, l’autorità degli altri. C’era una sorta di giusto parallelismo, ciascuno con la propria esperienza, il proprio carattere, la propria personalità, ma i principi e i valori erano uguali per tutti, tutti dovevano concorrere all’educazione sociale, a eternare quei valori che erano passati attraverso il vaglio di una storia difficile, aspra, piena di contraddizioni, ma anche di nuove speranze e di nuovi valori. Niente di eterno dunque, ma un’attenzione vera e profonda nei confronti della condizione umana, dei suoi limiti, dei suoi bisogni, delle sue necessità, versata alla ricerca di un’ identità non razzista, non sprezzante, non prevaricatrice, ma piena di amore da conservare e da donare, una patria capace di far capire che i confini sono il limite di una storia ancora più grande e più esigente, capace di scrollarsi di dosso le angherie di un passato da non dimenticare, da ricostruire con coraggio. Si pensava a una patria che non fosse un muro, ma l’inizio di un cammino coraggioso, capace di condividere i buoni valori di quelle nazioni che ambivano una ripartenza pulita, senza quei pregiudizi e quelle furberie che avevano avvelenato la storia. Chi ha vissuto il servizio militare sa quanto fosse suggestivo e coinvolgente ascoltare l’Inno del Piave, mentre la bandiera saliva fino a raggiungere il pennone, mentre un battaglione di ragazzi in armi ascoltava sull’attenti. Nessuno in quei momenti pensava alle armi, alla violenza, alla prevaricazione, tutto era finalizzato al rispetto di un principio costituzionale. Forse c’erano molte cose da correggere, da migliorare, da cambiare, ma c’era anche molto che contribuiva a formare. Oggi la gioventù è spesso dispersa in mille rivoli, non sa dove guardare, è disorientata, non sa quale possa essere la via giusta da percorrere per dare un senso compiuto alla propria indipendenza. Fiumi di disagio morale e sociale assorbono una parte fondamentale delle energie giovanili, spesso preda della droga, di ogni tipo di droga, anche di quella propinata da gente senza scrupoli, che sfrutta l’essere umano per i propri fini illeciti. Lo stato ha cancellato, ma non ha sostituito, ha lasciato varchi aperti che non portano a nulla e in molti casi anche il lavoro diventa un’aspirazione irraggiungibile ed è allora che chi esercita responsabilità importanti ha il sacrosanto dovere di pensare a come dare un senso a una democrazia svuotata delle sue certezze. E’ il momento della grande unione, del recupero dei valori perduti, della dimostrazione che la storia non cade mai in prescrizione, ma continua imperterrita a sollecitare domande e risposte, ad affrontare e a risolvere problemi, a promuovere nuovi consensi, ad aprire nuovi orizzonti. Forse al cittadino interessa sempre meno la politica di parte, quella che si consuma in diatribe di natura personale, del tutto prive di sostanza etica, desidera rispolverare la forza e la bellezza di un paese che ha conosciuto diverse cadute, si preoccupa che la Costituzione abbia un senso e che la Democrazia sia rispettata e protetta sempre, soprattutto nei momenti difficili. Un salto di qualità?Certamente il tempo e la storia hanno insegnato moltissimo e il popolo italiano è molto più avanti di quanto qualche incallito illusionista del potere vorrebbe far credere.

QUALE EUROPA?

Quale Europa? Quella che è rimasta ancorata al passato o quella che guarda al futuro, sognando una grande unione di volontà in cui la persona si senta veramente libera, capace di affrontare le difficoltà del mondo senza dover piegare il capo o sottostare ai poteri forti che verranno? Siamo testimoni di un’Europa profondamente divisa, tesa ancora a difendere e a proteggere vecchi e nuovi personalismi, incapace di trovare forme di solidale convivenza, orientata, come sempre, a mantenere e a rafforzare le proprie peculiarità, un’Europa che si tinge di rivendicazioni nepotiste e che perde di vista i grandi cambiamenti epocali, ignorando l’avanzata mondiale del colosso cinese, capace di occupare i mercati, di popolare nuovi territori e di far scorrere fiumi di denaro in ogni parte del mondo, al seguito dei suoi investimenti, della modernità del suo sistema produttivo e delle sue modernissime strategie economiche finanziarie. Un’Europa divisa, che presta il fianco allo strapotere dei grandi imperi finanziari, in grado di colonizzare quei paesi che rallentano, perdendo di vista la loro energia innovativa, la capacità di competere, di investire, di produrre. La grande politica oltrepassa i confini, gioca le proprie carte e s’impone là, dove il mondo ha bisogno di essere orientato, dove gli uomini vogliono uscire dal giogo della miseria e della povertà, dove l’intelligenza è stata per troppo tempo privata della sua libertà, della sua capacità di dimostrare quanto fosse pronta a fornire una nuova e più efficace definizione dei rapporti, delle competenze, della capacità di mettere in campo le proprie genialità. Gli stati europei si sono chiusi in se stessi, con la presunzione che la loro cultura fosse un primato acquisito, hanno puntato molto di più sul rafforzamento dei poteri che non sulla democrazia e i suoi significati, hanno rallentato il processo unitario, tenendo una posizione che, col passare del tempo, si è dimostrata fragile e senza futuro, non hanno camminato per costruire la casa comune, hanno preferito manifestare le proprie simpatie e le proprie antipatie come ai vecchi tempi, quando la politica del potere economico si giocava lontano da casa, nelle aree abbandonate dei grandi continenti, naturalmente ricche di materie prime. Un’Europa ancora carente sul piano della maturità, visibilmente incapace di gestire bene, fino in fondo, la propria vocazione industriale, la propria corposa e immaginifica propensione culturale, spesso vittima di una politica dell’euro che invece di sollecitare e di sviluppare dinamismo e socialità, si limita a esercitare varie forme di primati e costrizioni che nulla hanno a che vedere con l’evoluzione democratica degli esseri umani, in ogni parte del mondo. Dunque le prossime elezioni saranno fondamentali per impostare una ristrutturazione prolifica, che sappia distribuire con saggezza e con intelligenza le straordinarie risorse del continente europeo, mettendo da parte una volta per tutte quella smania di grandezza che è stata ed è ancora oggi all’origine dell’inefficienza e dell’antagonismo che ne impediscono la rinascita e la competitività a livello mondiale.

RICOMINCIAMO DALLA REALTA’

I palcoscenici nascono come funghi, ma la televisione tiene banco, è il luogo della consacrazione o della maledizione. In televisione si difendono i governi o si massacrano, si scelgono i rappresentanti, si combattono i rivali e si benedicono gli amici, si stendono tappeti rossi o si ordiscono trame, si formano confraternite e comitati, movimenti e partiti, ci si sfida in battaglie decisive, si creano tribunali dell’inquisizione. I giudizi si sprecano, come pure gli insulti, le offese, le sopraffazioni e le prevaricazioni, persino il mondo dell’arte si colora di trame, di ombre, di appartenenze, tutto diventa possibile, opinabile, sovvertibile, mai come in questi momenti l’uomo avverte il senso della precarietà. Quello che non si riesce più a definire nella vita quotidiana, si cerca di risolverlo in televisione, amplificando al massimo i giudizi, i punti di vista, i pensieri, la partecipazione. Le voci sono tante, ma in questo modo diventa sempre più difficile fare una sintesi, mettere in campo il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. I dualismi sembrano superati, subentra un relativismo di maniera che mette d’accordo tutto e tutti, stempera le diversità, annulla, attutisce, creando serie difficoltà, allorquando si vorrebbe arrivare a una soluzione seria e condivisa. Quello è colpevole, va punito? Un volta i punti interrogativi erano rari, si trovavano soluzioni, si davano risposte, il bene e il male avevano due volti molto diversi, era facile riconoscerli, amarli o combatterli. Oggi si cerca la scappatoia, lo si fa in nome di una democrazia che è stanca di dover giudicare sempre tutti, di trovare sempre delle scappatoie, come se l’uomo non fosse più in grado di assumersi le proprie responsabilità, di prendere delle decisioni. Capita sempre più spesso di assistere a una fantastica operazione di polizia e di sapere, subito dopo, che il colpevole è a casa agli arresti domiciliari, con l’obbligo della firma. Sembra che la legge, nella sua straordinaria democraticità, presenti sempre una via di fuga, come se ogni volta si muovesse a compassione del delinquente di turno. Questo stato di incertezza genera disorientamento nel cittadino, che si chiede come mai sia diventato così difficile stabilire chi sia il colpevole e come mai la giustizia sia così apertamente benevola, invece di essere giustamente severa. E’ anche partendo da queste riflessioni che la democrazia perde d’autorità, si conforma, diventa vittima delle mille possibilità e la gente fatica a posizionarla. Insegnare a vivere in democrazia è qualcosa di molto importante, che va fatto sempre, con continuità, impegnando le persone, soprattutto i giovani, in attività pratiche, da cui risultino la forza e la bellezza di un atto, di un impegno, di un sacrificio. Fare in modo che ci si renda conto di quale valore possa avere un’azione, di quanto sia importante collaborare e condividere, orientare verso soluzioni pratiche, responsabilizzare e premiare, esercitare un ruolo e mantenerlo, sono passaggi che dimostrano il valore di un sistema. Siamo spesso vittime di un esacerbato difensivismo, cerchiamo sempre di minimizzare, di relativizzare, privando un gesto della sua reale ricaduta morale e sociale. Il buonismo esasperato apre le porte dell’’omertà e del protezionismo ad oltranza, svuota di senso le regole e le norme che sovrintendono la vita sociale e quella politica, sviluppa varie forme di antagonismo e di cattiveria, rende sempre più sterile l’esercizio dell’autorità, al punto che si crea una sorta di appiattimento, dove tutto trova sempre una giustificazione, inciviltà compresa.

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