Per il mondo del lavoro è un brutto momento. Diversi sono i fattori che ne hanno minato e che continuano a minarne la forza. C’è addirittura chi parla di eccesso di garantismo costituzionale e istituzionale, chi afferma che ha goduto per troppo tempo di un protezionismo che non gli ha permesso di crescere, di diventare adulto, per ragioni di comodità o forse anche di natura ideologico/politica. Sembra infatti che il lavoro e i lavoratori siano stati una sorta di giardino personale da coltivare, fruendo di un protezionismo speciale soprattutto da parte delle forze cosiddette “progressiste” del paese, quelle che hanno fondato una parte fondamentale della loro storia e della loro fede sul mondo operaio e le sue lotte. Una difesa ad oltranza avrebbe generato una sorta di immobilismo imprenditoriale che avrebbe rallentato il piano degl’investimenti, quello delle assunzioni e soprattutto avrebbe impedito ai lavoratori di esprimere al meglio le loro potenzialità, in un clima di ampia e riconosciuta libertà democratica. In molte circostanze il lavoro si è trasformato nello strumento cardine su cui scommettere il futuro della propria forza elettorale, la capacità di interpretare al meglio le aspirazioni e le esigenze popolari, senza tenere conto che il popolo, per sua natura, ha una sintomatologia sociale variegata e alternativa, non ama soprattutto sentirsi preda, dover sottostare a regole che invece di stimolarlo, incentivarlo, migliorarlo, lo addormentano, impedendogli di diventare adulto, di crescere e di maturare. Ci si è spesso orientati sul concetto di lavoro/diritto, come se bastasse l’obbedienza costituzionale a sancirne l’inattaccabilità. E’ su questo fronte che all’interno del mondo del lavoro si è creata una sorta di investitura basata sul fatto che il lavoratore avesse sempre ragione e che l’imprenditore fosse il nemico da abbattere o da condizionare profondamente. Il vecchio padrone è quasi sempre rimasto il nemico storico della classe operaia: non si è evoluto? Forse perché glielo hanno impedito, marchiandolo come un salame. Si sa che una certa filosofia se cade male, soprattutto in un certo momento della storia, può creare danni incalcolabili, produce un effetto domino da cui diventa umanamente molto complicato uscire. In tutto questo tempo è venuta a mancare una cultura del lavoro, qualcosa che lo distogliesse dalle diatribe politiche e lo consegnasse a una intellighenzia capace di cucirgli addosso un vestito nuovo, più attuale, più moderno, più capace di far vivere meglio le persone. Il lavoro è stato per troppo tempo strumento nelle mani di qualcuno, ha sofferto una sudditanza e strategie tattiche ambigue, incapaci di dargli l’orientamento giusto, quello che produce effetti positivi con il passare del tempo. E’ mancata una giusta visione delle cose, la politica non è stata capace di staccarsi dai soliti veleni, quelli che per molti anni non l’hanno aiutata a crescere, a diventare sempre un pochino più adulta, ad abbandonare quei sentieri che l’avevano minata per anni. Ha badato molto di più a crescere con la demagogia di parte che in un libero confronto con una realtà in repentina evoluzione sia sul piano pratico, che su quello umano, che su quello scientifico. Quando poi il lavoro ha subito l’assalto della demagogia si è storicamente svuotato di energie e ha indotto molta gente, giovani compresi, a prendere la via dell’esilio forzato. Nel paese della bellezza, della genialità e della creatività industriale, il popolo cominciava a pensare seriamente che, mancando le basi di una doverosa ricerca umana e scientifica, fosse più utile e interessante sul piano degli interessi privati scegliere paesi liberisti sul serio, dove una comprovata capacità fosse sufficiente per uscire dalle infinite pastoie di una frenante burocrazia e da varie forme di servilismo politico. La Costituzione, bravissima nella sua veste predicatoria, si verificava non adatta a rafforzare quello spirito d’intrapresa di cui aveva assolutamente bisogno chi voleva affacciarsi al mondo del lavoro. In molti casi infatti non bastano le leggi scritte, ci vuole chi le spieghi e le faccia capire, chi cerchi di creare dei modelli attendibili, capaci di attrarre quelle volontà in cui il successo personale o di gruppo dipenda soprattutto dal merito, dalle capacità personali, dalla volontà, dalla consapevolezza che il lavoro non sia una condanna, ma l’occasione umana più ghiotta per costruire una società a misura d’uomo. Si è parlato molto poco di centralità della condizione umana, di spirito del lavoro, di valori legati alla persona e alla famiglia, si è parlato moltissimo invece della qualità dei prodotti, delle tecniche di approvvigionamento, di espandere il mercato, di produrre per guadagnare, ma il vero perno di tutta la situazione e cioè il lavoratore è stato tenuto fuori dalla costruzione vera e propria, lo si è lasciato in un limbo, con la speranza che chi lo rappresentava in quel momento fosse sufficientemente bravo per metterlo in una condizione di assoluta sicurezza. Si è pensato pochissimo al fatto che una persona cambia, migliora, si accultura, impara, matura nuove visioni, nuove idee, nuove volontà e magari si accorge di saper fare benissimo quella cosa di cui nessuno si è mai accorto abbastanza. In fondo anche il lavoratore è un essere umano, ha bisogno di chi lo capisca, di chi lo rispetti, di chi si accorga delle sue qualità, dei suoi meriti, ha bisogno di sentirsi realizzato come persona, come uomo, come padre di famiglia, come marito, di chi lo sappia motivare Forse nessuno si è mai accorto che il lavoratore, per rendere al meglio, deve poter mettersi alla prova, godere di un suo spazio vitale, dimostrare che ha assolutamente bisogno di alternare a una solerte operatività quello spazio educativo così costruttivo e gratificante, da dedicare alla propria famiglia. Per al verità sono stati molto pochi quegli industriali che si sono occupati sul serio dei propri lavoratori, predisponendo per loro una vita che fosse davvero una vita da vivere e da condividere e non una frustrazione continua, dettata dalla legge della giungla: o vivere o morire. Di solito il profitto ha sempre avuto un ruolo primario, l’azienda doveva far lavorare al massimo per guadagnare e poter investire. Ma chi era davvero la persona che ti permetteva di poter fare tutto questo? Chi era davvero quel lavoratore che avevi assunto perché qualcuno ti aveva detto che era bravo e poi lo hai lasciato morire nel deserto del gobi? Le persone dimenticano facilmente, sono molto brave quando devono ottenere o guadagnare, ma non lo sono quando invece devono dimostrare che avere un cuore e un’anima vale più di qualsiasi altra cosa. Ancora oggi c’è chi pensa che se una classe industriale adeguata avesse trattato meglio la classe operaia, forse non sarebbero neppure nati i sindacati, con tutte quelle lotte al massacro che hanno caratterizzato la storia del mondo del lavoro. Ecco il punto nodale: il lavoro come strumento di elevazione morale, sociale e culturale, il lavoro come realizzazione di una società forte e matura, capace di cambiare in meglio una società, il lavoro come espressione di abilità manuale, mentale, morale, spirituale, il lavoro come orgoglio e fantasia, come genialità e creatività, il lavoro come diritto e soprattutto come dovere. Chi ha lavorato sa quanto poco sia stato valorizzato l’essere umano, sa quanto abbiano giocato le strategie politiche per tornaconti personali, sa quanto chi faceva bene il proprio dovere cadeva poi nella riprovazione di capi e capetti animati solo dalla volontà di mantenere la leadership del gruppo politico di appartenenza, questo perché l’errore è stato quello di aver presentato la politica come strumento di demagogia applicata al successo personale, al potere e a tutte quelle forme di prevaricazione umana che hanno consumato le aspirazioni di molte persone che, magari, avrebbero potuto dare molto di più e meglio. Se per un certo periodo di tempo il lavoro ha sofferto la coercizione di una classe imprenditoriale piuttosto avara e autoritaria, improvvisamente si è trovato dunque a diventare vittima di un’altra filosofia altrettanto coercitiva, quella ideologica, vincolata a una tradizione politicamente dogmatica e assolutamente incapace di aprire alla libera iniziativa privata. Si è passati dalla frusta del padrone a quella non meno pesante della politica. Gli anni difficili del lavoro in Italia sono stati contrassegnati dunque da forme ossessive di protezionismo, un protezionismo che ha pianificato, appiattito, massificato volontà e intelligenze e che non ha permesso di sviluppare forme di interazione basate sulla reciproca fiducia, sulla creatività e sulla fantasia, sulla possibilità di mettere a fuoco tutte le qualità umane, costringendole a una assurda ripetitività. Il lavoro come scoperta, come fattore umano di crescita e di civiltà, il lavoro come benessere materiale e sociale, come benessere fisico e mentale, il lavoro come energica forza propulsiva, il lavoro come possibilità di modificarsi, adattarsi, essere sintonico rispetto alle attitudini dell’essere umano. Il lavoro è una disciplina da insegnare nelle scuole sia sotto il profilo costituzionale sia come metodo sia come sistema di realizzazione. Dunque un lavoro che non pesa, ma che aiuta a rendere più affidabile e credibile la condizione umana, arricchendola di nuovi orientamenti e di condizioni più soddisfacenti sotto il profilo umano ed economico. Il lavoro richiede impegno, precisione, aggiornamento, ha quindi bisogno di persone che lo sappiano gestire e orientare in modo tale che possa rispondere alla richiesta di una società in evoluzione. L’evoluzione non prevede la cancellazione del passato, sarebbe come dire che la storia non conta niente, ma come invece capacità di saper cogliere il nuovo che avanza, senza creare traumi e allarmismi, come succede spesso oggi quando si parla di certi problemi. Rafforzare il lavoro significa potenziare l’affidabilità attitudinale delle persone. Quella che sarebbe dovuta essere una sana ed equilibrata competitività che avrebbe dovuto far emergere la cultura umana e professionale del lavoratore, si è trasformata in una dissacrante lotta di classe. La demagogia ha imposto il lavoro come diritto, facendo passare in secondo piano il lavoro come dovere, come merito, come realizzazione di attitudini, come progetto nel quale le parti avrebbero dovuto collaborare alla costruzione di un futuro migliore per tutti. L’idea che il lavoro fosse un diritto inalienabile e che il lavoratore avesse sempre ragione, ha sventolato per molto tempo sui pennoni della vita politica e imprenditoriale italiana, ingessando le parti nobili dei lavoratori: il merito, la volontà, la capacità, l’impegno, il rispetto, quelle risorse che fanno scattare la voglia di migliorarsi, di sviluppare al massimo livello le proprie capacità. E’ mancata soprattutto una cultura del lavoro, uno spazio di formazione umana e professionale seria al quale attingere per motivare al meglio i lavoratori e gli imprenditori, oltre la logica della storica contrapposizione sociale. Non si è lavorato abbastanza sulla composizione di quei dissidi che hanno caratterizzato la nascita della rivoluzione industriale, è stato fatto molto poco per comporre un piano collaborativo tra classe imprenditoriale e classe operaia, stemperando divisioni e filosofie ampiamente superate dalla storia. Lo Statuto dei Lavoratori è un punto d’arrivo importante sulla via della crescita democratica del mondo del lavoro, ma risente di un protezionismo dettato da condizioni di reciproca sfiducia, come se le parti in questione avessero delegato a un codice scritto le loro relazioni, i loro rapporti, ma anche tutta una lunga serie di incomprensioni e pregiudizi mai risolti. Il lavoro non deve essere una camicia di forza o una proprietà privata, deve garantire al massimo livello la crescita umana, culturale, economica e sociale delle persone e della comunità. Deve essere la molla dalla quale partire per migliorare la qualità della vita, per garantire prosperità, ordine e sicurezza. Ma perché ciò avvenga occorre abbandonare tutte quelle forme di pregiudizio scritte e mentali che hanno caratterizzato e che caratterizzano la storia stessa del lavoro e dei lavoratori. In Italia esiste di fatto un’ arbitrarietà radicata e profonda, ad esempio, da parte delle imprese, che in molti casi agiscono al di fuori delle regole, adottando sistemi di tipo mercenario, assolutamente incompatibili con l’etica del lavoro e del rispetto delle persone. Si è lavorato molto poco sulla sfera umana e morale, lasciando che proliferassero sotterfugi, trasgressioni, prevaricazioni di ogni genere da una parte e dall’altra. La storia dei nostri tempi dimostra quanto le parti in causa, mondo imprenditoriale e mondo del lavoro siano ancora lontani dall’aver raggiunto una maturità esistenziale fondata sulla fiducia, sul rispetto reciproco, sulla convinzione che il futuro è nella collaborazione, nella capacità di affrontare le difficoltà insieme. Molti degl’inconvenienti che minano la solidità del mondo del lavoro dipendono dunque, in buona parte, da una storica mancanza di collaborazione e di relazione tra le parti. Il lavoro è ancora sfruttamento, prevaricazione, trasgressione, è soggetto a troppi condizionamenti, a troppe tasse, impedisce alle generazioni che vogliono intraprendere di avviare nuove attività, con la giusta disponibilità d’animo. In molti casi viene vissuto come una prigione o come una condanna, mancano motivazioni e stimoli, manca soprattutto una preparazione seria al mondo del lavoro, per questo diventa discriminante, conflittuale, frustrante, aliena e non aiuta la crescita delle persone. Spesso subentrano demotivazione, noia e ripetitività. Ci sono lavoratori che svolgono più lavori ed altri che fanno fatica a trovarne uno. Manca soprattutto un’ educazione al lavoro. Dunque non basta adottare éscamotage per ampliare la produttività, bisogna investire sul lavoro come realizzazione di personalità, come strumento di crescita non solo economica, ma soprattutto umana, culturale e morale. Credo sia fondamentale motivare chi lavora, trasmettere entusiasmo, sviluppare forme di merito, tornare a premiare chi svolge con abnegazione il proprio dovere, migliorare l’aspetto economico e soprattutto mantenere un rapporto di fiducia costante con chi ha un estremo bisogno di lavorare. Troppo spesso negli ambienti di lavoro non si è dato spazio alla volontà, alla professionalità, all’impegno, al rispetto delle regole, si è lasciato che i bravi lavoratori venissero trattati alla stessa stregua di chi ha sempre cercato di aggirare il senso del dovere con la solita furbizia all’italiana. Il lavoro va amato, anche quando non piace, anche quando non corrisponde a un corso di studi, a una simpatia, a una vocazione, perché è onorandolo con l’impegno e la serietà professionale che si costruisce il futuro della nostra società e del nostro paese. Oggi il mondo del lavoro si deve aprire, deve abbandonare ogni forma di burocrazia, deve dimostrare che le potenzialità per fare esistono, quindi è compito di una politica corretta e rispettosa delle regole costituzionali fare in modo che chiunque abbia la possibilità di intraprendere e di raggiungere il massimo delle proprie ambizioni lo faccia con la benedizione di tutti, soprattutto di coloro che in passato hanno perso tempo in diatribe inutili. Il coronavirus una cosa l’ha dimostrata, che un paese, per sopravvivere, ha un assoluto bisogno di lavoro.