Si illuminano gli occhi di don Mario Papa. Lui che è abituato alla discrezione, alle lunghe pause di silenzio per dare valore alle parole, questa volta sul viso aggiunge una manifestazione in più: quella commozione trattenuta è indice di un’esperienza che non dimentica. Quando ha dovuto lasciare nel 1994 la sua missione a Lusitu in Zambia, il capo tribù gli disse: “Fai bene a tornare dai tuoi, ma ricordati che sei uno di noi e come tale devi essere sepolto nella nostra terra”. “La mia Africa” di don Mario, che domenica 23 marzo, in occasione dei suoi 90 anni, è stato festeggiato con una grande partecipazione di fedeli nella chiesa dei santi Vitale e Agricola a Oltrona al Lago, dove lui è stato parroco per ben 16 anni, è il luogo del cuore. In qualità di sacerdote della Comunità Pastorale della Santissima Trinità di Gavirate e Comerio nella quale è sempre operativo, ha il dono di condividere la residenza con monsignor Emilio Patriarca, che è stato vescovo di Monze, in Zambia. La loro è la storia di una amicizia che ha radici profonde e da una vita continua a ravvivarsi in uno stesso ideale di vita, all’insegna di quel dare che è già un ricevere. Sullo sfondo c’è l’Africa, il fiume Zambesi e quel villaggio, Lusitu, dove si sono rivisti nel 1980, dopo anni di lontananza. Don Mario vi era giunto, reduce da un mese trascorso in Inghilterra per imparare l’inglese. Ma per comunicare necessitava conoscere la lingua tonga, che apprese sul posto, stando in mezzo alla gente. Ha conosciuto cosa è l’accoglienza e nel contempo la freddezza nell’ascoltare la Parola di Cristo di alcuni villaggi che ricordavano la dominazione bianca. Ma lui, con la sua estrema semplicità irradia luce, mette in pratica quotidianamente la carità e porta la gioia dell’incontro, vissuta anche durante la celebrazione della messa nella chiesa che poteva contenere tutti: era un momento di lunga durata e di festa con canti e tamburi. “Molti dei fedeli avevano percorso decine di chilometri per arrivare alla chiesa (nei loro villaggi c’erano cappelline con il tetto di paglia, uno spazio non sufficiente per la celebrazione) e non erano contenti se finiva presto -spiega- Ricordo una vecchietta cieca che abitava a dieci km. di distanza. Si fermava la notte e ripartiva il giorno successivo. L’intrattenimento dopo la celebrazione era veramente un momento comunitario. Mi manca tanto quella semplicità di vita con tutte le difficoltà per sopravvivere con poco cibo anche se la stagione delle piogge, da metà ottobre a marzo, permetteva la coltivazione del granoturco. Altrimenti c’era carestia”. Ha davanti agli occhi i grandi spazi, gli elefanti, le iene e i bambini che dove arrivava erano i primi a saltare sulla sua macchina. Ha ancora nelle orecchie i tamburi che suonavano durante le loro feste per allontanare lo spirito della malattia. E ha ancora nelle narici il profumo della grappa, fatta da un confratello, con le bucce della banana, nella logica che nulla si butta. Quanto don Mario sia rimasto nel cuore delle comunità africane presso cui ha svolto il suo ministero è sintetizzato in questo episodio: nel 2005 allorché si era diffusa la notizia che sarebbe tornato temporaneamente a far loro visita, già dalle tre del mattino, fuori dalla casa presso cui avrebbe alloggiato, erano giunti dai più lontani villaggi gli anziani per poterlo salutare. Erano tanti, seduti pazienti in attesa di vederlo. Alla domanda “Come sono le notti africane, don?”. “Sono bellissime!”, risponde immediatamente e gli occhi assumono quella luminosità che sa tanto di commozione.
Federica Lucchini