COSA SERVE ESSERE I PIU’ BRAVI?
di Felice Magnani
Essere bravi serve ancora a qualcosa? Ha senso impegnarsi a fondo per raggiungere obiettivi importanti? Si può ancora aspirare a raggiungere posizioni di prestigio con la meritocrazia, la buona volontà e l’impegno quotidiano? E davvero ancora importante inseguire il primato della partecipazione e quello dell’intelligenza? Siamo sicuri che la democrazia sia aperta a tutti e che tutti ne possano usufruire secondo le leggi e le regole saggiamente preposte dai padri fondatori? Spesso i giovani hanno l’impressione che essere bravi conti poco e conti molto di più avere qualche santo in paradiso, che ti mette le ali anche se hai le corna. Non è solo un’impressione, in molti casi è una realtà. Non bastano tutta la buona volontà e la meritocrazia del mondo per aspirare a fare un passo in più, spesso i bravi non fanno carriera, vivono blindati in una prigione di lusso, usati e lasciati prosperare nella loro utopia relazionale, manca la capacità di scegliere, di mettere da parte quelle cammarille in cui gl’italiani sono bravissimi. Il sistema mafioso si è andato propagando in tutti i settori della società italiana, ha cambiato radicalmente il modo di essere, di fare, di agire, ha creato un grosso equivoco generazionale, ha disseminato le vie e le piazze di intrallazzi, intrighi, scorribande, ha costruito una cultura antagonista, fatta di promesse, di sollecitazioni, di coinvolgimenti e di legami senza futuro. Il sistema mafioso ha demolito la voglia di fare di un popolo attivo e dinamico, capace di dare sempre risposte esplicite a situazioni implicite. Si ha la netta sensazione che qualcuno abbia scambiato la democrazia per una sorta di portafoglio personale, da usare secondo criteri personalizzati. Manca una visione d’insieme, manca soprattutto la capacità di rompere quell’antagonismo assurdo che crea conflitto generazionale, manca soprattutto una fermezza d’intenti che dia risposte senza se e senza ma a un mondo che ha un estremo bisogno di certezze. Inseguire la bravura un tempo era il mito, il bravo faceva la differenza, lasciava tutti a piedi e in molti casi i somari lo diventavano anche un po’ per merito suo. Il bravo era nella maggior parte dei casi il figlio della ricca borghesia, quella che studiava nei migliori collegi, che aveva l’educatore in casa, quello che dominava la scena umana in virtù di una tradizione o di un testamento, mentre il resto era ciurma alla ricerca di una propria identità. Oggi se sei bravo corri il rischio di sparire nell’anonimato, perché conta soprattutto essere alle dipendenze di una storia di cui non si conosce né il presente né il futuro. Parlare di bravura oggi è deleterio, sono lontani i tempi dell’ode carducciana, oggi conta tirare a campare, fare un po’ come <l’asin bigio, che rosicchiando un cardo rosso e turchino a brucar serio e lento continuò>. Mancano gli stimoli, manca l’entusiasmo, manca la figura di motivatori capaci di infondere la voglia di fare e di fare bene, per raggiungere buoni traguardi. La speranza è di non ritrovarci tutti figli di un ciao omologante, in cui si perde di vista la bellezza di una identità voluta, amata, coltivata e promossa con tanto amore.