A chi tocca l’educazione dei giovani?
Le massime istituzioni, famiglia, scuola, società civile e stato, hanno sicuramente una responsabilità molto elevata, ma occorre precisare che i giovani devono crescere con la convinzione che siano loro stessi i veri protagonisti della loro storia e che la loro storia, per quanto possa dipendere da condizioni esterne, sia pur sempre il frutto di una volontà soggettiva che si mette in gioco, che si apre e che si confronta, che vuole crescere ampliando sempre di più la propria coscienza critica, il proprio voler contare all’interno di una società che li veda protagonisti in positivo. Non sempre l’educazione è figlia di eredità testamentarie di natura aristocratica, spesso nasce nella povertà e nella semplicità di cuori che imparano a riconoscerne e a rispettarne l’importanza. Ho conosciuto giovani che non avevano famiglie alle spalle e che hanno costruito un’esistenza esemplare, mentre ne ho conosciuti altri che avevano tutto e che si sono persi per strada. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, senza demandare ad altri diritti e doveri. Da che mondo è mondo le società non sono mai state tenere, non hanno mai spalancato le porte a nessuno, ma il bello è quando riesci a capire il senso della vita, a dare risposte esaurienti senza piangerti addosso, quando impari a lottare per raggiungere un traguardo, per dimostrare a te stesso e al mondo che vali, che metti in cantiere le tue forze e le tue energie per dare un senso compiuto alla tua vita. A molti giovani manca la voglia di combattere e di lottare per qualcosa di utile e costruttivo, manca perché non sono stati motivati abbastanza, perché non sono stati fortunati o forse, perché madre natura non è stata sufficientemente prodiga con loro, fornendoli delle attrezzature necessarie. L’educazione riguarda tutta la società, è un problema comune, a cui tutti devono dare risposte possibilmente convergenti, per non creare disorientamenti frustranti. Quando i giovani non incontrano comprensione e motivazione, quando si sentono esclusi dalla costruzione democratica dell’esistenza, trasferiscono le loro speranze nell’utopia, affidandosi a idealità che, in molti casi, si trasformano in ideologie violente, distruggendo la forza e la bellezza della vita stessa. La società, la famiglia, la scuola e lo stato devono svolgere fino in fondo la loro missione educativa creando condizioni favorevoli sul piano dell’interazione, della sinergia, della collaborazione e della comunicazione, non devono diventare alibi per determinare fatalismi e relativismi dentro i quali si consuma la progettualità giovanile, per sua natura esuberante e creativa. Mi diceva, durante un’intervista, un giovane campione sportivo nazionale, che i giovani non devono piangersi addosso o cercare comodi paraventi dietro i quali nascondersi, ma devono rimboccarsi le maniche e darsi da fare per modificare in meglio quel mondo in cui hanno avuto la fortuna di nascere e di crescere.
Come mai tanto disagio nel mondo giovanile?
In questi anni la società ha subito profonde trasformazioni e non tutto è andato secondo le previsioni. Di solito chi paga maggiormente è chi è più fragile, chi non è attrezzato, chi non è ancora in grado di rispondere adeguatamente alle provocazioni, chi soffre d’insicurezza e non viene adeguatamente aiutato a superarla. Si sa che il mondo dei giovani è il più esposto, lo è per varie ragioni, che si collegano al mondo istituzionale, da cui spesso dipendono. Un tempo erano molto seguiti dalle famiglie, dalla scuola, dalla società adulta e lo stato, attraverso la sua rappresentatività politica, forniva le coordinate necessarie per costruire un futuro mirato e sicuro. La buona condotta aveva un ruolo fondamentale, in ogni settore della vita pubblica si respirava il profumo del rispetto e della collaborazione, esistevano filtri attraverso i quali il passaggio della coordinazione educativa era più semplice. C’era più disponibilità da parte di un mondo adulto fortemente impegnato nella rinascita economica, morale, umana e materiale. I giovani sentivano l’energia di questa forza trainante, ne respiravano la gioia di vivere, cercavano di imitarne la positività, avevano dinnanzi una società coesa, compatta, le regole erano regole per tutti, c’era una gran voglia di fare e di aiutare chiunque volesse far parte di questa rinascita. In famiglia si poteva ottenere tutto, ma era un tutto dosato, amministrato, governato, con strategie definite, c’era un impegno comune ben finalizzato, esistevano ruoli e gerarchie che andavano rispettati, c’era un senso comune in ogni cosa e così era più facile sentirsi coinvolti in questa avventura esistenziale. Il rispetto lo si annusava un po’ dappertutto: in famiglia, a scuola, nella società civile e nelle associazioni. Si diventava grandi per gradi, dopo essere passati attraverso esperienze di servizio, dove bisognava spesso chinare la testa e dire grazie Oggi il grazie è quasi scomparso, tutto è dovuto e soprattutto le regole, nella maggior parte dei casi, sono diventate muri da abbattere perché danno fastidio, impediscono di fare quello che si vuole. I ruoli hanno perso d’identità, l’autorità è sempre meno presente e quando lo è fa di tutto per minimizzare. Col passare del tempo il sistema educativo ha abbandonato i suoi valori, quelli che lo avevano caratterizzato nel momento della ripresa, dopo anni e anni di guerre e di distruzioni, si è lasciato abbindolare da un progresso che ha messo a dura prova tutto il sistema umano della vita, modificandone radicalmente l’immagine e la sostanza. Si è andato affievolendo, avallato da una democrazia che si è imposta sempre di più nella sua forma accomodante, disattivante, capace sempre di passare oltre, di far finta di niente, di costruire paradossi, di dimostrare che l’autorità è qualcosa di cui non ci si può fidare e che confina spesso con varie forme di arbitrarietà esistenziale. Così facendo le istituzioni hanno perso di mordente, si sono lasciate andare, hanno iniziato a mettere un po’ tutto in discussione, persino il valore stesso della vita umana, la sua bellezza, la sua forza, la sua capacità di dare un senso positivo e profondo all’ esistenza. L’uomo ha perso di vista l’autorità positiva, quella capace di richiamare al senso di un’ identità, al significato di fare il proprio dovere, di vivere nel pieno rispetto di sé e degli altri. La democrazia si è svuotata e ha mostrato tutti i suoi punti deboli, in primo luogo l’incapacità di giudicare e di esprimere con fermezza le proprie verità. Un eccesso di protezionismo ha generato profili falsi e omertosi, personalità fragili e insofferenti a qualsiasi forma di vita comunitaria. Il disagio che respiriamo oggi è un atto d’accusa contro le nostre inadeguatezze, contro la paura di essere se stessi, contro un lassismo che ha coinvolto tutto e tutti in uno dei momenti più difficili della nostra storia, quando sarebbe stato oltremodo necessario essere autorevoli e decisi, affermando senza sotterfugi i pregi e i difetti della nostra identità. I giovani sono una risorsa, sono il nostro futuro ed è per questo che vanno seguiti e aiutati a crescere in modo adeguato. In questi anni di crisi politica, economica, morale ed esistenziale in genere si sono trovati spesso da soli a configurarsi una realtà affidabile da vivere. La crisi della famiglia tradizionale e dei suoi punti fermi, la crisi della scuola e degli organi collegiali, la crisi occupazionale che ha scardinato la stabilità della famiglia e i sogni del mondo giovanile, un immenso fenomeno migratorio che ha colto un po’ tutti di sorpresa, mettendo spesso in discussione i rapporti relazionali e quelli di potere, i fenomeni della droga e dell’alcolismo, la crisi di una politica arretrata rispetto allo slancio di un mondo giovanile alle prese son il progresso telematico sono tutti fenomeni che hanno costretto il mondo giovanile a trovare nuovi equilibri, dotandosi di strumenti adatti all’evoluzione in corso, ma nella maggior parte dei casi senza poter contare su un sistema attento alle sue problematiche, alla necessità di poter contare su un mondo adulto responsabile.
Chi educa deve dare l’esempio?
Chi educa deve essere un esempio. I valori che insegna li deve prima dimostrare sul campo, in modo tale che chi vede e ascolta sappia con chi ha a che fare. Se mi arrabbio con una alunno che arriva in ritardo e lo punisco severamente, quando io stesso, che sono l’insegnante, arrivo quasi sempre in ritardo, non sono un esempio credibile, quindi non posso pretendere coerenza, offro il fianco a varie forme di negatività. Il rispetto deve essere reciproco, l’alunno o l’adolescente devono sapere con chi hanno a che fare. Ho notato spesso che i giovani rispettano e stimano quegli educatori che sanno farsi valere, che non temono il confronto, perché sono coerenti e fermi nella loro linea educativa. Il rapporto deve essere fondato sul rispetto reciproco, deve essere chiaro e confortante, senza sottintesi, senza veli o strategie. Ho visto insegnanti che per accattivarsi le simpatie dei loro alunni si facevano dare del tu, stavano seduti col sedere sul banco e con i piedi sulle seggiole. Dunque il primo passo è quello di rilanciare il ruolo adulto, chiamandolo fuori dalla situazione confusionale nella quale si è imprigionato. La società civile e lo stato devono contribuire a rafforzare il ruolo docente, collaborando in modo costruttivo con la scuola e i suoi insegnanti, ma senza interferire nelle dinamiche educative e metodologiche. La scuola ha assolutamente bisogno di autorità che, tanto per essere chiari, non si costruisce soltanto con la bocciatura come succedeva in passato, quando su trenta ragazzi che frequentavano la quarta ginnasio ne arrivavano in quinta solo quattordici o quindici, perché nel disegno divino di qualche docente, quello era lo statuto della scuola, al di fuori del quale non esistevano altre verità. L’autorità si fonda soprattutto sul carisma del docente, sulla sua capacità di relazionarsi, ottenendo stima e rispetto. Alla base di un insegnamento proficuo c’è sempre un buon rapporto umano con la classe, la capacità di essere credibili, di saper trasmettere, di entrare in empatia, anche quando i passaggi possono essere complicati. E’ nella forza persuasiva del docente che cerca spazio la necessità di posizionarsi del discepolo, è nella fiducia che si costruisce un rapporto, è nella chiarezza degli intenti che prende forma il percorso che persone caratterialmente diverse devono intraprendere per approdare a una visione umanamente fruibile della storia che li attende. Adottare la fermezza non significa essere severi, ma dire e fare senza tradire, con la convinzione reciproca di costruire qualcosa di buono per la vita. I giovani hanno bisogno di appoggiarsi, di credere, di diventare, di essere, vogliono partecipare, essere uniti e solidali, vogliono essere parte viva e attiva della società in cui vivono. E’ in questa direzione che l’educazione si apre e si dilata, diventa pane quotidiano e banchetto conviviale, ricchezza e risorsa per tutti. Nell’evoluzione educativa del mondo giovanile giocano un ruolo fondamentale la famiglia, la scuola, ma anche la società civile, quella che frequentiamo sul nostro cammino. I giovani hanno bisogno di incontrare persone che sappiano far funzionare l’articolato meccanismo della reciprocità educativa, in un processo in cui maestro e discepolo concorrono insieme alla costruzione della nuova identità democratica, anche fuori dal rigido sistema delle agenzie educative. Il disagio lo si combatte ricostruendo un sistema credibile di responsabilità individuale e collettive, in cui ognuno si riconosca, ritornando a praticare l’esempio come strumento di formazione della persona. I giovani osservano, sono attenti più di quanto si possa immaginare, sanno vedere nelle pieghe più recondite del genere umano, amano il confronto, sanno distinguere e fare le opportune differenze, vogliono essere valorizzati, resi protagonisti della vita civile, quella che molto spesso li ignora. La scuola resta il punto fermo di una società che vuole cambiare, che vuole far crescere cittadini responsabili, capaci di distinguere il bene dal male, di non lasciarsi coinvolgere dai tentacoli della malavita. Non dobbiamo dimenticare che Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti i magistrati uccisi per aver difeso la giustizia e la legalità nella lotta contro le mafie hanno sempre affermato che bisognava partire dalla scuola, per formare giovani nuovi, più attenti, capaci di abbattere i muri dell’ignoranza e della sopraffazione.