Come stiamo a coerenza educativa?
Oggi si educa poco e il ruolo dell’educazione è sempre più delegato a una temporaneità che non dà garanzie. Manca una coerenza educativa, per cui molto spesso i nostri giovani si trovano a vivere una dimensione confusa dei valori. Non sanno da che parte stiano di casa ed ecco perché si creano conforti soggettivi, all’interno dei quali esauriscono la propria identità. Spesso le istituzioni non sono in grado di offrire modelli attendibili, se non quelli della consumazione immediata. Ci sono giovani che rifiutano a priori ciò che impone loro considerazioni di natura morale o etica o di lunga prospettiva, preferiscono vivere alla giornata, senza porsi troppi problemi, forse perché di problemi ne hanno moltissimi nei vari circuiti in cui percorrono la loro esistenza. Spesso la società civile preferisce non problematizzare, diventa infatti egoisticamente più utile minimizzare, far finta di niente, delegare o aspettare che il vento cambi, per non esporsi, per evitare di affrontare realtà che non offrono protezioni e garanzie adeguate. In questi casi la democrazia, anche la più semplice da applicare, si trasforma in una sorta di fatalismo, in cui trovano conforto tutte le incongruenze di questo mondo. Quando una società perde di vista la capacità di essere e si trasforma di un divenire ambiguo e incerto, si scatenano varie forme di arbitrarietà e la prima a farne le spese è l’educazione. Oggi diventa estremamente difficile imporre un codice di comportamento, diventa quasi impossibile dimostrare che la via della verità educativa passa attraverso i comportamenti quotidiani di tutti; non appena tocchi l’identità personale, anche solo per sollecitarla, si scatena il finimondo, ti rendi conto di quanto sia complicato dare o ricevere indicazioni precise per cui, alla fine, prevale una sorta di qualunquismo di maniera, dove le velleità, anche quelle buone, che potrebbero cambiare le sorti del costume, si dissolvono o perdono di peso specifico. Un tempo l’educazione occupava un posto privilegiato, basti sottolineare che a scuola il voto di condotta condizionava l’attività scolastica e se incappavi in un sette andavi a ottobre con tutte le materie. Esagerazione? Forse, ma sta di fatto che da quando si è voluto dare un volto più nuovo, più umano e moderno alla pedagogia scolastica, ci si è trovati con le mani legate, senza più l’autorità necessaria per sottolineare la vera natura democratica della legge e delle sue applicazioni pratiche. Oggi è estremamente complicato avviare una comunicazione familiare e scolastica fondata su un comune riconoscimento democratico, sulla costituzionalità del costume, è difficile, se non impossibile, dare un volto ai rapporti umani e farli diventare un pochino più umani. La coerenza si basa sempre più spesso sull’individualità, sulla determinazione di chi se lo può permettere. I problemi di questi giorni, vedi il bullismo, genitori che aggrediscono insegnanti, insegnanti malmenati da ragazzini, denotano una crisi profonda di tutto il sistema educativo, di cui famiglia e scuola sono le strutture portanti. L’educazione non è più il collante della società, è qualcosa che pesa, che dà fastidio e la storia quotidiana è occupata spesso dalla violenza fisica e da quella verbale. Ripristinare il senso della storia, ridare un significato ai comportamenti, restituire a un gesto o a una parola un significato preciso, che sia sintonico con le regole di un codice democratico, dare il giusto peso e valore a chi ha il compito di configurare l’azione educativa, tornare a parlare e a discutere di educazione a ogni livello, soprattutto in famiglia, potrebbe essere un buon punto di partenza, ma occorre fare in fretta, per evitare che il qualunquismo e varie forme di totalitarismo si impossessino dell’inclinazione democratica delle persone. Il pericolo di oggi è che l’educazione venga vista come un impedimento alla realizzazione di un consumo privatistico della produttività e che pertanto venga estromessa da quel circuito referenziale in cui si gioca il futuro educativo delle persone e della società in generale. Immaginare un mondo giovanile che prenda come esempio quello adulto attuale è utopia, i giovani sono abbastanza scaltri per capire l’aria che tira, ma non hanno ancora la forza sufficiente per cambiare quel mondo che si trovano di fronte e che non è quello che avrebbero voluto. Per questo bisogna guardare avanti conservando le garanzie del passato, almeno quelle che danno stabilità al cammino, come il rispetto, la collaborazione e la solidarietà, favorendo il senso di responsabilità delle persone, la loro partecipazione, il loro sentirsi protagoniste della società in cui vivono e operano, evitando di essere troppo paternalistici e troppo poco motivatori del cambiamento. I giovani sanno essere collaboratori straordinari, ma hanno bisogno di chi si fidi di loro, di chi li sappia valorizzare, di chi abbia la capacità di far fiorire quell’entusiasmo di cui sono importantissimo veicolatori, hanno bisogno di una società adulta che non si dimentichi di essere stata giovane e di dover interagire sempre, ma con la dovuta fermezza e chiarezza.
Come si può rafforzare il peso dell’attività educativa in generale?
Riattivando i ruoli tradizionali, ricompattando tutto quello che è stato frantumato e sbriciolato, con la certezza che la nuova democrazia dovesse essere più libera dai vincoli e dagli schemi, dagli stereotipi e dagli archetipi. Bisogna forse ripartire da un profondo esame di coscienza, da cosa sia più importante per l’uomo e per il cittadino, da quali siano i nuovi valori su cui costruire il presente e il futuro. Lasciare le cose come stanno significa andare dritti verso un’ arbitrarietà in cui ognuno può fare tutto e il contrario di tutto e dove diventerebbe molto difficile sviluppare forme di solidarietà sociale adeguate ai bisogni e alle necessità. Il mondo in cui viviamo ha un estremo bisogno di ritrovarsi, di tornare a credere, di avere fiducia, ha bisogno di uomini e donne che sappiano rinunciare alla presunzione individuale e che facciano prevalere l’interesse comunitario. La crisi della società moderna è soprattutto crisi di costume e di un’errata interpretazione e applicazione del sistema democratico, a cui tutti si appellano, senza pensare che rispettarlo significa porsi dei limiti e delle misure, mettere in campo regole precise, nei confronti delle quali essere convergenti. Nel momento in cui si registra la spinta della comunicazione digitale, prendiamo atto di quanto sia difficile entrare nella coscienza critica delle persone, di quanto sia difficile toccare le corde della responsabilità umana. Più si allarga il campo d’azione e più le cose si complicano. Famiglia e scuola stanno attraversando il loro minimo storico, sono di questi giorni fatti gravissimi che ne illustrano lo stato di decadenza. L’impressione è che l’autorità abbia perso di consistenza etica e che tutto viaggi sull’onda di una temporaneità che non lasci spazio a valutazioni oggettive. Sono in molti a chiedersi se il lassismo di questi anni non abbia prodotto una svalutazione di tutto il sistema educativo. Da più parti si afferma che sarebbe utile ripristinare un più efficace rigore educativo, evitando minimizzazioni e irrilevanti forme di buonismo, che non creano condizioni necessarie per l’acquisizione di una coscienza ferma dei problemi . Si chiede insomma di dare vita al massimo impegno nell’esercizio del rispetto e del bene comune. Alle istituzioni si chiede di essere sintoniche e convergenti sul rispetto delle regole, quelle che sovrintendono la vita collettiva, che danno il senso dello stato dell’arte educativa di una comunità. La famiglia e la scuola in particolare hanno il dovere di riappropriarsi di un’ identità che è andata affievolendosi nel corso di questi anni, offrendo il fianco a un generale stato di debolezza e di fragilità. Ripristinare un ordine gerarchico, riattivare il senso e il valore dell’autorità, rimettere in piedi ruoli e competenze significa riavviare un sistema che altrimenti rischia il collasso. Forse uno sforzo maggiore va fatto sul come affrontare quell’idea di scuola che ci ha accompagnato tra alti e bassi in tutti questi anni, per capire se l’offerta è ancora adeguata alle richieste di un mondo che gira in modo frenetico, svuotando e consumando tutto quello che incontra sul suo cammino. E’ arrivato forse il momento di ristabilire il primato dell’impegno a tutto campo, un impegno in cui lo studio e il lavoro abbiano un ruolo fondamentale e in cui ciascuno si senta protagonista della propria storia e di quella della comunità. Il mondo giovanile ha bisogno di sentirsi impegnato sul fronte della operatività individuale e di gruppo, ha bisogno di ambiti in cui realizzare la propria identità, ha bisogno di credere in quello che fa e soprattutto ha bisogno di sentirsi amato e stimolato. Una scuola più creativa dunque, più capace di quantificare l’intelligenza, di metterla al servizio dell’umanità, di dare spazio a una libertà interiore lasciata spesso in balia di un consumismo disattivante.
Oggi si parla poco di educazione civica?
Forse se ne parla, ma in modo poco convincente, è diventato quasi impossibile riuscire a far collimare teoria e pratica, quello che si dice e quello che si fa, c’è qualcosa che sfugge, che non riusciamo più a ricondurre in uno spazio di affidabilità e di credibilità educativa. Non esistono più punti fermi e l’ide di poter spiegare sempre tutto e il contrario di tutto, crea dei disagi profondi che si ripercuotono sulla effettività sociale dell’educazione. Tutto è diventato opinabile, criticabile, sostituibile, mancano spesso i tempi della ricerca, dell’approfondimento, della valutazione. L’educazione risente di varie forme di lassismo, non riesce a collocarsi, incontra difficoltà di vario ordine e natura, per cui vive uno stato di sospensione, di incertezza relazionale che frena e molto spesso annulla i rapporti interpersonali e il sistema della comprensione umana. Siamo spesso spettatori di situazioni che hanno dell’assurdo: genitori che difendono a spada tratta i figli e che vedono nei docenti dei nemici da combattere. I ruoli sono completamente saltati, il rischio è che in una condizione di questo genere chiunque possa farsi giustizia da sé. A fronte di queste situazioni occorre fare un profondo esame di coscienza, cercando di ristabilire un equilibrio sociale fondato sul rispetto dei ruoli e delle competenze, sul rispetto dell’ordine sociale, delle gerarchie, dell’autorità. Non è possibile concepire un progresso senza educazione, senza regole certe e condivise su cui appoggiare il senso della vita. L’educazione ha una sua carta costituzionale che è fatta di regole, perché l’equilibrio e l’armonia della vita comunitaria si fondano sul rispetto di principi comuni. Rendere comunitaria l’azione educativa significa far convergere l’attenzione delle persone su temi e problemi che la riguardano da vicino e la cui soluzione prevede la collaborazione di tutti. L’educazione ha una sua natura estensiva, si allarga, tende a coinvolgere, a far convergere, a determinare, a fare chiarezza sugli obiettivi che si vogliono raggiungere, lo fa perché crede che si possa fare sempre un passo avanti sulla strada del benessere individuale e su quello sociale. La regola non nasce per caso e non è mai fine a se stessa, è partorita da una necessità democratica, da un dovere civico, dalla necessità di riunire e consolidare l’importanza dei comportamenti. Certo non è facile far passare l’idea che la forza e la bellezza di un impegno nasca anche da qualche intervento di natura impositiva, ma si sa che la vita è anche comprensiva di valori che senza autorità non avrebbero una ricaduta reale. Le regole da sole non stanno in piedi se non c’è un ordine che le sorregga, che le unisca, che dia loro quel pizzico di ufficialità e di universalità che le renda ancora più forti, più vere e credibili. Se l’uomo le ha decise è perché ne ha sentito il bisogno, ha capito che senza di esse ciascuno avrebbe agito in modo arbitrario e sarebbe venuto a cadere quel principio della oggettività in cui la libertà riconosce i suoi limiti in cui svolge e dilata il suo livello di democrazia individuale. E’ la natura disciplinare della regola che la natura umana tende a non riconoscere, perché vede in essa un limite al cinismo della propria aspirazione libertaria. Si sa però che ci sono beni che vanno oltre la loro natura individuale e per la conservazione dei quali è necessario stabilire un metodo conservativo adeguato. Il cittadino teme i provvedimenti, li teme perché è convinto che siano repressivi, li teme perché non ama sentirsi costretto, vorrebbe essere libero di fare sempre quello che vuole. Purtroppo la storia, nella maggior parte dei casi non lo aiuta a crescere, tende a far passare per eccessivo ciò che è giusto e normale per costruire una società più equilibrata, dimenticandosi che senza precise linee di condotta comuni la storia sarebbe rimasta vittima di un individualismo molto più estremo di quello attuale, non avrebbe prodotto quelle forme di socialità che hanno contribuito a dare un orientamento più civile e umano alla vita delle persone. Una società democratica ha bisogno di sentirsi protetta, aiutata, indirizzata e le regole hanno proprio questa funzione, quella di unire, mettendo le persone di fronte alle loro responsabilità individuali e sociali, in un clima di libertà cosciente