Scrivo queste note negli ultimi giorni di aprile, quando ancora si contano i morti ed i nuovi contagi e l’uscita dall’isolamento forzato non è ancora in vista, per domandarmi: come sarà ‘dopo’, dopo che la pandemia ci avrà lasciati, almeno nel suo propagarsi più rumoroso, e ci affanneremo a tornare alle abitudini di un tempo.
Quali macerie ci avrà lasciato, quali paure avrà diffuso, come sarà la nostra vita collettiva dopo mesi di segregazione, e, soprattutto, quali consapevolezze avrà sedimentato nell’animo collettivo.
Come sarà, come agiremo.
“Bisognerà mettere sul tavolo riforme radicali, invertendo la direzione delle politiche prevalente negli ultimi quattro decenni. I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia. Dovranno vedere i servizi pubblici come investimenti piuttosto che come costi, e cercare modi per rendere più sicuri i mercati del lavoro. La redistribuzione tornerà nuovamente nell’agenda, i privilegi degli anziani e dei ricchi verranno messi in discussione. Le politiche finora considerate eccentriche, come il reddito di base e le tasse sulla ricchezza, dovranno far parte delle ricette”.
Lo si poteva leggere nell’editoriale del 4 aprile del Financial Times, come si dice in linguaggio giornalistico la ‘Bibbia del capitalismo’, una critica delle radici stesse delle nostre società come si sono costituite a partire dai primi anni ‘Ottanta del secolo scorso.
La pandemia, in effetti, ha scosso e dissolto molte convinzioni che facevano ormai parte del senso comune: le nostre società ricche sono invincibili, armate dalle tecnologie e dall’organizzazione e dall’efficienza dell’economia, dobbiamo solo tenere in funzione e ben lubrificata la macchina della crescita ed il benessere si diffonderà, almeno tra i meritevoli.
Invece non è andata così: questo minuscolo oggetto, cui non sappiamo nemmeno se attribuire la qualifica di essere vivente, ha messo in scacco la scienza, ha esposto la politica a scegliere al buio, ha bloccato interi settori economici, dal turismo al commercio al dettaglio, dal trasporto aereo alle manifestazioni culturali, ha rigettato nell’ombra e nell’anonimato milioni di precari ed invisibili.
Abbiamo scoperto che esistono le crisi globali che dilagano in tutto il mondo in poche settimane e di fronte alle quali siamo del tutto impreparati ed avvertiamo che, forse, non sarà l’ultima crisi di questa vastità e dimensione.
I più avveduti e lungimiranti segnalano che aver preteso di dominare i sistemi naturali, con il ferro della scienza e della tecnologia, cancellando innumerevoli specie, restringendo le aree di naturalità e portandole a sovrapporsi agli spazi dell’uomo, ha provocato in pochi anni una successione di pandemie.
E la crisi climatica non ha ancora superato la soglia di massimo rischio, oltre la quale collassi locali si trasmettono in tutto il pianeta fino a precipitare in una crisi globale, per un effetto domino, come molti studi e proiezioni non si stancano di documentare.
I rischi globali esistono, possono assumere forme diverse, e travolgere il nostro sistema globalizzato prima che abbiamo potuto approntare le difese.
Dunque dobbiamo fare proprio quello che ci dice l’editoriale del Financial Times, riportare l’economia sotto la guida della politica, che in democrazia vorrebbe dire sotto il controllo di decisioni assunte democraticamente.
Oggi il sistema economico deve essere indirizzato perché non è autosufficiente, distribuisce la ricchezza dal basso verso l’alto, e, a conti fatti, distrugge più risorse di quelle che produce.
Che cosa ha provocato la crisi climatica, la perdita di biodiversità, la disfunzionalità di molti eco-sistemi, se non quel sistema che doveva auto-governarsi, auto-regolarsi e provvedere senza sosta ai nostri bisogni e desideri?
In realtà non solo non si auto-governa e auto-regola, come dimostrano le crisi ricorrenti, ma consuma le sue stesse basi, e va finalizzato dall’esterno al benessere collettivo e al rispetto dei fondamentali processi biofisici che garantiscono la stabilità del pianeta.
Non va lasciato a se stesso nemmeno nella gestione del lavoro, che è considerato soprattutto costo da economizzare, con il risultato che ci rendiamo conto d’improvviso che ci sono, solo in Italia, milioni e milioni di persone prive di tutele, tra precariato, lavoro nero, finte partite IVA, flessibilità e mitologia dell’imprenditore di se stesso.
Ogni crisi, anche temporanea, precipita su di loro come una tempesta, e li lascia soli a dibattersi tra i marosi.
E’ stato costruito, debito su debito, un sistema finanziario fragilissimo che ha avuto bisogno, in due volte in soli dieci anni, di poderose iniezioni di liquidità dagli Stati e dalle banche centrali, che è fonte di disordine e di instabilità perenne.
Stiamo lasciando alle prossime generazioni un pianeta inquinato, la crisi climatica e ambientale, una montagna di debiti da restituire, un immediato futuro di precarietà e lavoretti.
Abbiamo coltivato la mitologia del ‘niente tasse’, come se fossero lo strumento del demonio: le tasse non sono altro che il sistema per redistribuire la ricchezza dai più ricchi ai più poveri, dai consumi agli investimenti, dall’immediato presente al futuro.
Avremmo di fronte l’impegnativo compito di rovesciare il paradigma prevalente, ma, scopriamo, ci mancano gli strumenti essenziali.
Riflettete sulle grandi crisi dell’ultimo secolo e mezzo.
La grande crisi ebbe il suo culmine nel ’29: nel 1933, Roosvelt varava il New Deal, nel 1936 Keynes dava alle stampe la sua Teoria generale, nel 1942 il rapporto Beveridge poneva le basi per il moderno welfare, nel 1944 si decideva l’assetto del nuovo sistema finanziario con gli accordi di Bretto Woods.
In soli quindici anni era stata elaborata non solo una nuova teoria economica, ma anche i principali strumenti di governo.
Negli anni ’70 la stag-flazione, la contemporanea presenza di stagnazione ed inflazione, colpiva le economie sviluppate. Anche in questo caso la teoria era già pronta, il neo-liberismo, e la politica ne adottava le ricette prima con Thatcher e Reagan poi via via in tutte le nazioni.
Anche in questo caso teoria economica e sociale e politiche hanno seguito di una decina di anni il punto più alto della crisi.
Ed ora? Ora la scienza sociale ed economica balbettano, la politica, nel migliore dei casi, ripete litanie impotenti: nulla di nuovo sotto il sole, si direbbe.
Non credo avvenga perché mancano i talenti, penso piuttosto che siamo ancora troppo immersi in un clima culturale conformista, ripetitivo, stagnante, in cui ognuno teme di uscire dal seminato, in cui nessuno ha il coraggio di gridare “Il Re è nudo” e d’inventare e immaginare nuovi futuri possibili.
Ma non dobbiamo rassegnarci, come c’insegna, con pacate e lucide parole, Roberto Mordacci nel suo ultimo libro, non per nulla intitolato “Ritorno a Utopia:
“Il pensiero utopico è dunque forse la sola possibile salvezza per il mondo contemporaneo, purché si ispiri al modello realistico e umanistico che More ha incarnato pienamente…Ripensare l’utopia è uno dei compiti odierni…una anterotopia: un luogo situato davanti a noi, che raccolga in una visione complessiva l’immagine di un futuro attraente e desiderato per gli esseri umani quali sono. La cultura e la politica contemporanea sono attraversate da molti frammenti di un pensiero utopico rivolto al futuro. Spesso questi frammenti sono contrastanti, o più semplicemente non sono connessi tra loro per mancanza di un coraggio specificamente culturale: quello appunto di pensare l’insieme, la totalità di una condizione sociale…il pensiero utopico, anche grazie allo sforzo imposto dalla modalità narrativa…costringe a uno sforzo creativo ordinato e costruttivo”.
Frasi da evidenziare:
“come sarà ‘dopo’, dopo che la pandemia ci avrà lasciati”
“La pandemia ha scosso e dissolto molte convinzioni che facevano ormai parte del senso comune”
“I rischi globali esistono, possono assumere forme diverse, e travolgere il nostro sistema globalizzato”
“Stiamo lasciando alle prossime generazioni un pianeta inquinato, la crisi climatica e ambientale, una montagna di debiti da restituire, un immediato futuro di precarietà e lavoretti”
“Siamo ancora troppo immersi in un clima culturale conformista, ripetitivo, stagnante”