DOMANDE
E
RISPOSTE
FELICE MAGNANI
Come si diventa grandi?
La vita è un grande mistero, affascinante e bellissimo. Avere la presunzione di entrarvi è impossibile, nessuno infatti, per quanto bravo, intelligente, profetico e acculturato, ha mai avuto la possibilità di penetrarlo, di poter dire con certezza dove cominci e dove finisca. C’è chi ha tentato di dare risposte scientifiche, teologiche, a volte emotive, ma senza prove legalmente riconosciute, nessuno è mai tornato con la verità in tasca: nessuno! Il mondo religioso ha elaborato sulla base anche di documenti scritti. Il cristianesimo ha creato una svolta importante, mettendo al centro della curiosità umana la parola del figlio di Dio, quel Gesù di Nazareth a cui il Padre ha affidato il delicatissimo compito di morire e di risuscitare, per dimostrare che la fede può restituire fiducia nella ricerca di una verità che superi i confini del mistero stesso. Fuori dalla condizione teologica è molto difficile disegnare un quadro sufficientemente credibile, capace di mettere il cuore in pace su questo tipo di interrogativo. Si diventa grandi passando attraverso il mistero della vita, lasciando al tempo lo spazio necessario di uno sguardo garbato sull’emozione di esserci, di poter vedere, contemplare, vivere, godere, osservare, di vivere intensamente il miracolo della vita, senza buttare via niente. Si guarda alla vita con la speranza di poter godere a lungo, ma anche con la consapevolezza che siamo investiti di una grandissima responsabilità, che la necessità terrena ci insegna e ci chiede. Si diventa grandi cercando di non buttare al vento l’occasione. Non è facile dare un senso compiuto al bene che abbiamo ricevuto, ma abbiamo il compito di farlo, non fosse altro per una questione di riconoscenza nei confronti di chi ci ha dato la possibilità di aprire gli occhi su questo meraviglioso mondo e di conoscerlo il più a fondo possibile. Come facciamo a stabilire esattamente dove stia di casa la verità? Come facciamo a decodificare il mosaico nel quale occupiamo il nostro unicum? Per fortuna esiste la fede, a sostenere la nostra voglia di bene, il nostro desiderio di essere migliori, a darci la forza di superare una condizione umana assolutamente bella, ma difficile da gestire e da coordinare e soprattutto non sempre facile da vivere. Anche la fede chiede di essere capita, interpretata e vissuta, ha bisogno della convinzione che possa essere una chiave di lettura importante, rendendo meno opprimente una condizione di per sé bellissima, ma anche difficilissima, alimentando così il diritto a una speranza.
Cos’è, per lei, la fede?
Un bellissimo dono che s’incontra strada facendo, qualche volta con difficoltà. I doni non sono facili da comprendere e da amministrare, soprattutto quando hanno un valore morale, etico, sociale, culturale, divino e affettivo molto elevato. Qualcuno ci guida su questa presa d’atto prendendoci per mano, ci fa capire con voci, toni e significati molto diversi tra loro, ma convergenti, quanto sia umanamente utile viverla secondo un certo ordine. Spesso mi sono chiesto come sarebbe stata la mia vita se non avessi incontrato la fede. Migliore? Peggiore? Non lo so, l’unica cosa che so è che non è un dono facile da gestire, richiede infatti un grande senso di responsabilità, perché non basta credere, bisogna mettere in pratica e la messa in pratica richiede una preparazione e una predisposizione umana e mentale. La bellezza va sempre allenata, mai lasciata ammuffire o peggio ancora morire. Forse senza di lei mi sarei sentito più solo, più indefinito, più soggetto alle pulsioni umane, più incapace di andare oltre i richiami del materialismo e del consumismo, non sarei riuscito a dare risposte a quegl’ interrogativi che da sempre tormentano la natura umana, soprattutto quando diventa prigioniera di ciò che non ha valore. Trasformare la fede da valore soggettivo, in pragmatismo personale e comunitario, presuppone una forte convinzione morale, la certezza che lo spirito che portiamo dentro faccia davvero la differenza, permettendogli di orientare positivamente le nostre mosse, offrendogliene l’opportunità. La fede, come tutti i doni che riceviamo nel corso della nostra vita, non è un articolo pregiato da abbandonare nel nostro armadio, è una energia che desidera diventare sostanza, umanizzandosi, ci aiuta così a dare un senso più laicamente cristiano al nostro modo di essere e di agire. Dunque non è facile gestire un dono, soprattutto quando è lo Spirito divino a sollecitarlo, perché prendendone coscienza ci rendiamo responsabili della sua incarnazione nella vita di tutti i giorni. La fede si alimenta di pensiero divino, ma si sostanzia nell’amore per i nostri genitori e nei confronti di quel prossimo con il quale condividiamo la vita quotidiana in tutte i suoi aspetti e le sue forme. La fede vive di un amore disinteressato, forte, coraggioso, che non cede ai ricatti e alle compressioni, perché è sempre capace di sopravvivere, soprattutto quando il desiderio di ribellarsi diventa più umanamente appetibile. La fede aiuta. Aiuta a dare risposte ai vuoti esistenziali, dà una maggiore completezza al nostro modo di essere e di vivere, rispondendo con la sua mirabile franchezza alle mille domande che assillano la natura umana. E’una stupenda opportunità, per questo va accolta, orientata, valorizzata, distribuita possibilmente con l’aiuto dell’esempio. Ci sono diversi modi di vivere la fede, di credere in Dio, di ringraziarlo per quello che riceviamo. Si può cercare di mettere in pratica le opere di misericordia, aprendo la strada proprio quando questa sembra chiudersi. La fede aiuta a vivere meglio, ad amare di più e con maggiore convinzione il creato e le creature, a dare un senso più compiuto alla nostra voglia di bene, per questo chiede in cambio di essere coltivata, amata, protetta, promossa e insegnata.
Cosa la spinge a credere nell’esistenza di Dio?
Il limite della condizione umana e la certezza che dentro quell’aura che ci avvolge c’è una piccola parte della nostra anima. Credere di essere parte di un sistema meraviglioso, riconoscendo i propri limiti, induce naturalmente a ricercare, a mettersi in cammino, a chiedere aiuto a chi è immensamente più forte di noi e che può quindi orientare quell’ansia irrisolta di conoscenza e di verità che di solito assilla la condizione umana, soprattutto quando perde di vista il senso della maternità e quello della paternità. Si comincia a credere a catechismo, quando la voce dell’educatore indirizza alla comprensione di un pensiero, quindi s’impara a conoscere e a capire strada facendo la forza e la bellezza dell’energia che ci avvolge, in particolare quando ci si sofferma per cercare di capire qualcosa di più della forma e della sostanza. Spesso la nostra vita resta sospesa tra desiderio di armonia e disarmonia, tra pensieri positivi e pensieri negativi, ci troviamo spesso sospesi in un vicolo e non sappiamo come fare per rompere l’incantesimo, riappropriandoci di quella aspirazione che sentiamo, ma che non riusciamo a individuare e a posizionare. Credere non è un atto di presunzione, non è essere dei privilegiati o degli eletti, è semplicemente sentire che la nostra vita ha dei limiti, dei bisogni e delle necessità, credere è entrare a far parte del desiderio di definire meglio e con maggiore sicurezza quell’ansia di connessione che portiamo dentro fin dalla nascita e che per vari motivi ci scappa di mano, perché entrare nel campo della trascendenza non è un’impresa facile, bisogna essere preparati. Cosa sarebbe l’umanità senza Dio? Una creatura a metà, da cui riluce solo quella parte che si lega alla forma e alla materia, quella che fa rumore, che crea immagine, ma che non sa connettersi con l’altra, quella che la sollecita a fare un passo avanti verso verità più articolate e profonde, più capaci di dare respiro e ampiezza alle nostre aspirazioni. Nella nostra società si dà molta più importanza alle cose materiali, quelle che governano la sfera delle necessità e dei bisogni umani, quelle che ci consentono di essere più umanamente realizzati nell’immediatezza. Spesso ci si dimentica che gran parte della felicità è già dentro di noi, nella convinzione di essere qualcosa di positivo e di bello, qualcosa che si lega a doni straordinari, come l’intelligenza, la capacità di osservare, vedere, capire, sentire, amare, godere, vivere. Quando e come ho capito di essere un credente? E’ difficile dirlo, spesso lo spirito è più potente delle dell’intelligenza stessa, è capace di creare connessioni talmente belle e importanti, che un amore ancora più grande diventa unico e necessario, sorprende in tutta la sua pienezza e ne rimaniamo affascinati, quando meno ce lo aspettiamo. Il fatto è che siamo spesso vittime di pregiudizi, non sappiamo o non vogliamo riconoscere i nostri limiti, le nostre inadeguatezze, ci lasciamo trascinare dalla presunzione di essere arbitri non solo della nostre fortune, ma anche di quelle delle persone che ci stanno accanto e intorno. Credere non è una condizione di comodo, è ricerca continua, impone di verificare se quello che facciamo è pari al nostro impegno e alla nostra serietà. In molti casi credere mi consola, è vero, mi fa sentire più attento, offre una dimensione più completa all’ esistenza, mi fa capire quanto siamo fragili e bisognosi di aiuto, quanto sia importante essere in relazione. Credere è bellissimo, basta solo osservare attentamente la natura in tutte le sue forme per capire che è forse difficile poter parlare di casualità. La vita è un dono straordinario, anche quando pone qualche problema, come quello della coerenza e del rispetto, ad esempio. Credere impone l’assunzione di una coscienza morale che non ammette indugi o presunzioni. Quando ti convinci di avere delle responsabilità e della riconoscenza nei confronti di qualcuno, devi adottare un comportamento degno, puoi sbagliare, ma devi essere anche pronto a riconoscere l’errore e a fare un passo indietro. Essere senza fede, non credere in Dio è come privarsi della gioia di avere uno sguardo più acuto e ampio, capace di riconsegnare un sorriso e una certezza ogniqualvolta la nave sembra naufragare e i marinai guardano impauriti il cielo, in attesa che la luce riconsegni la traccia di un cammino rivolto all’obiettivo che bisogna raggiungere.
Ci sono momenti in cui il pessimismo supera l’ottimismo?
Nella vita di ognuno ci sono momenti difficili, momenti in cui l’ identità è messa a dura prova, ma è proprio nel momento della verità che s’impara a conoscere se stessi, i propri limiti, l’incapacità di essere quello che si vorrebbe essere, forse per la prima volta si intuisce la bellezza di quello che portiamo dentro, fragilità compresa. Il pessimismo e l’ottimismo sono due facce della stessa medaglia, due modi di essere di fronte al mondo, due stati che generano pensiero, conoscenza, cultura, passione, fatica, impegno, lavoro. Non esiste un pessimismo che non generi ottimismo, non esiste negazione assoluta, passività assoluta, esistono modi diversi di affrontare i problemi, di fornire risposte, stati d’animo alternativi, capacità individuali di elaborare e rielaborare. La vita è grande anche per questo, perché si lascia cogliere nelle sue contraddizioni, nelle sue bellezze e nei suoi drammi, nelle sue gioie e nei suoi dolori. Siamo solo la parte di un tutto che si armonizza a volte con difficoltà, ma che tende naturalmente alla convergenza. Viviamo nella costante ricerca di una completezza che difficilmente incontriamo, vorremmo infatti che tutto filasse via liscio, che non ci fosse il male, che gli uomini vivessero in pace tra loro, vorremmo incontrare il benessere, vorremmo insomma che la nostra vita fosse la più lineare possibile, all’insegna di sorrisi e gratificazioni. Purtroppo siamo costretti a rinascere ogni volta, a rimettere in equilibrio ciò che un eccesso di presunzione destabilizza e inquieta, ci rendiamo conto che dobbiamo lottare per vivere con dignità il nostro tempo. E’ incredibile come all’interno della nostra umanissima inadeguatezza troviamo la nostra forza, che ci consente di riemergere ogni volta e di salutare l’alba con un grazie per il bene ricevuto. Dobbiamo fare sempre qualcosa in più per rimettere in equilibrio ciò che il materialismo quotidianamente distrugge. Il pessimismo è una schiavitù fisica e morale perché impedisce di incontrare quella parte di bellezza che gratifica, che ci fa capire il senso della vita, è come se volesse impedirci di aprire gli occhi sulla bellezza del mondo che abbiamo di fronte, costringendoci a negarlo, invece di insegnarci ad accettarlo e di amarlo per quello che è. Bisogna essere ottimisti per noi stessi, ma anche per le persone che ci osservano e che sperano di trovare, attraverso il nostro esempio, pace, armonia e felicità. Quando il pessimismo supera l’ottimismo occorre accendere subito la speranza, in modo tale che la vita non perda il suo significato vero e profondo. Una piccola dose quotidiana di ottimismo fa bene, rende partecipi di un mondo pieno di meraviglie e di stupori, capace di sorprendere sempre, di infondere coraggio e una rinnovata voglia di godere di ciò che siamo e di quello che facciamo. Accanto al pessimismo c’è sempre la voglia di rinascere, perché la vita è più grande di tutto, ha la straordinaria capacità di trasformare i nostri dubbi e le nostre incertezze in una sfida a cielo aperto, dove tutto si colora di affetti, tenerezze, immagini e pensieri
Come mai l’uomo è in molti casi è così cattivo, così incapace di amore?
L’uomo è una creatura meravigliosa, ma imperfetta. E’ messo a dura prova dagli eventi, è soggetto al bene e al male, deve lottare per vivere e in molti casi per sopravvivere. Quello che un tempo era definito metaforicamente il paradiso terrestre è stato trasformato in un campo di battaglia. Le sue giornate sono contrassegnate da uno stato di precarietà permanente a causa di guerre, malattie, incidenti, conflitti, la pace è un bene sempre più difficile da conquistare. Dentro questa precarietà l’uomo deve trovare un equilibrio, deve saper coniare risposte adeguate, deve cercare di vivere senza ledere i diritti degli altri, deve costruire la sua vita cercando di conferirle un senso. E’ nella capacità di trovare il senso che gli esseri umani si caratterizzano, si distinguono dalla vita animale e da quella vegetale. Se ci guardiamo attorno ci rendiamo conto di quanto sia difficile essere coerenti, condividere, solidarizzare, creare momenti di crescita comune, star bene con se stessi e con gli altri. A volte si ha la netta sensazione che tutto sia così immensamente bello e difficile, incapace di generare quello che realmente sentiamo e ci aspettiamo. La pace è un sogno, l’amore è un sogno, il benessere è un sogno, ogni piccola conquista è soggetta a una condizione, ogni obiettivo richiede cammini complessi e imprevedibili, a volte basta un niente per doversi fermare. Dentro questa complessità la storia si è posizionata grazie a un graduale e progressivo innalzamento del livello culturale, che ha permesso di sviluppare sistemi, strategie, modi di essere e di fare, pensieri, insomma l’uomo ha cercato e continua a cercare soluzioni adeguate ai suoi problemi. Dunque non è assolutamente facile vivere, per questo la natura umana si avvale di strumenti che fungono da sostegno e da apripista, che aiutano a scandagliare il terreno alla ricerca di opportunità. Un grande aiuto è rappresentato dalla ragione, dalla capacità cioè di trovare delle risposte logiche, di costruire nuove possibilità, di mettere a frutto ciò di cui la natura umana è portatrice. La razionalità è un’elevata forma d’investigazione e di indagine, consente di fornire strumenti cognitivi e in molti casi permette di dare un senso più compiuto all’esistenza. Non sempre però la ragione è sinonimo di chiarezza, non sempre è esauriente e appagante, in qualche caso accentua la condizione critica, sviluppa conflitti e contrarietà, mette di fronte a limiti e inadeguatezze e, leopardianamente parlando, consuma la nostra piccola dose di ottimismo. Ci sono casi in cui una razionalità esasperata cancella la spiritualità, quella parte della natura umana che si guarda dentro, che ama la contemplazione, la meditazione, la vita del pensiero, il mito della bellezza, la curiosità del mistero, la ricerca di una verità che non sia solo quella legata a un fatto materiale. Nell’umanità convivono due mondi paralleli, due mondi che hanno spesso obiettivi diversi, a volte contrastanti, ma sono entrambi parte fondamentale di una stessa natura e della sua complessità. La cattiveria ad esempio ha origini lontane, quando l’istinto predominava e bisognava lottare per sopravvivere. Col passare del tempo le cose sono migliorate, ma resta sempre qualcosa di connaturato che non evolve, che si stabilizza, che rende la vita difficile, mettendo in luce la fragilità profonda dell’essere umano. L’uomo ha sviluppato moltissimo la sua capacità di rendere più funzionale la propria esistenza, fornendola di strumenti sempre più sofisticati, ma gli sfugge di mano e non è abbastanza forte per poterla dominare, per ottenere quelle risposte che potrebbero renderla ancora più appetibile, perché la vita conserva gelosamente i suoi misteri e se si vuole davvero conoscerla un pochino di più occorre saper riconoscere la propria inadeguatezza, occorre fare spazio a una dimensione in cui diventi più facile riconoscersi, scoprirsi, mettersi in discussione. La religione lega la vita a un inizio straordinario, il cristianesimo fissa un punto di partenza e uno di arrivo, coglie in pieno il tema delle necessità umane, soprattutto quello di trovare una risposta alla voglia di certezze, per questo mette a disposizione dell’umanità lo spirito divino, incarnato nella persona di Gesù Cristo, il Dio fatto uomo che sostiene il cammino terreno, offrendo all’umanità il suo appoggio. Qualsiasi religione, se ben condotta e orientata, può essere la carta di credito per essere più capaci di tracciare percorsi dove l’umanità dei rapporti è il vero differenziale e tutto concorre a stemperare l’ansia della imprevedibilità. Il punto nodale della tranquillità umana è l’amore. L’amore è infatti fonte di equilibrio e di armonia, ma solo quando punta decisamente al consolidamento del bene, quando toglie l’uomo dalla dipendenza e lo restituisce libero, capace di autodeterminarsi, sapendo quindi quali siano gli elementi fondamentali che stanno alla base del suo benessere e quello della comunità in cui vive.
A che punto siamo con l’educazione? E’ ancora un bene primario? A chi spetta il compito di insegnarla?
Viviamo un momento difficile, siamo passati da un tipo di educazione classista, di natura elitaria, con caratteri di natura religiosa, a una che deve smaltire il disorientamento di una società che è stata letteralmente travolta da una storia di cui è in parte protagonista e spettatrice. La crisi del mondo del lavoro, i problemi dei giovani, la caduta di tutti i valori tradizionali, compresi quelli della vita e della famiglia, l’arrivo in massa di migranti in un momento difficilissimo del nostro paese, la crisi profonda di una politica che ha perso di vista la sua funzione morale, la perdita di cultura e di formazione, la crisi di una scuola che è alla disperata ricerca di una nuova identità, la lotta contro una corruzione dilagante e varie forme di antagonismo che rischiano di innescare meccanismi di conflitto permanente, la fragilità di un continente europeo che non trova momenti importanti di coesione e di identità culturale, restando avvolto in un individualismo precario, ci richiamano a una presa di coscienza comune, volta ad affrontare la crisi di un sistema che fa acqua un po’ da tutte le parti. Cosa può fare il cittadino per contribuire a creare una piattaforma sociale che funga da base di decollo per il nuovo che si profila all’orizzonte? Credo che alla base di tutto occorra mettere l’educazione, come individuazione e costruzione di un modello di vita capace di armonizzare una società estremamente divisa e disorientata. Si tratta di riedificare una identità che, col passare del tempo, si è stemperata, lasciando il posto a una precarietà che rischia di annullare la ricchezza personale e quella della comunità di cui il singolo è immagine e rappresentazione. E’ il momento della ricerca di valori universali, che superano per loro natura ed estensione il profilo individuale. Superare non vuol dire abbandonare, ma ricercare il bene che unisce, quello che non può, per sua natura, essere vincolato a forme di regionalismo di pensiero o a egoismi di parte. Quando un paese perde la propria identità a causa dei profondi mutamenti della storia, deve rivedersi, deve ricercare valori, metodi e principi che abbiano il volto di una convinzione comune e che siano veramente rappresentativi di quell’aspirazione dei popoli a vivere una vita dignitosa, capace di rispondere adeguatamente ai bisogni e alle necessità di tutti. L’educazione è fonte rigeneratrice che invita a ripensare, a individuare, a creare, a riorganizzare e a rendersi conto che non esiste società democratica priva di coscienza individuale, incapace di dare un senso al proprio modo di essere e di agire. L’educazione si lega alle grandi trasformazioni democratiche, diventa espressione dinamica di un bene ricercato e condiviso, un bene di cui tutti devono avere il diritto di godere, indipendentemente dal colore della pelle, della religione, del paese di provenienza. Educarsi ed educare vuol dire trovare nuove forme di comunicazione, di condivisione, non sentirsi detentori di un primato, ma collaboratori del fare e del creare insieme, mettendo in campo forze ed energie capaci di fornire sostegno a un sistema che cambia pelle repentinamente. Fondamentali diventano i nuovi sistemi di ascolto e di emissione, la ricerca di una piattaforma comune dalla quale partire per dare più forza alle relazioni, alla voglia di entrare in contatto. Nell’educazione si apre l’esigenza sociale di far emergere una volontà comune, il desiderio di collaborare e di unirsi in un’avventura complessa e affascinante, capace di riedificare e ridefinire tutto ciò che è diventato troppo materialista per ergersi a paladino di una comunità che allarga sempre di più l’orizzonte delle proprie aspirazioni. L’educazione corre in parallelo con la volontà di comunicare, di capirsi, di comprendere, di essere presenza attiva, di esprimere il proprio pensiero, di far sentire la propria voce. C’è nel pensiero educativo popolare il desiderio dell’approfondimento personale, la volontà comune di conoscersi meglio, di confrontarsi, di evitare che le rivendicazioni dell’uno diventino la morte dell’altro. La storia ha spesso diviso invece di unire, ha creato miti, enfatizzato, ha diviso il genere umano in categorie, ha sviluppato forme estreme di autenticazione educativa, forse è arrivato il momento di dare a ognuno quello che merita, evitando di creare divisioni, antagonismi e primati che non esistono. Nell’educazione c’è una forte componente emancipativa, che fornisce all’essere umano la capacità di apprendere, di dare risposte, di creare un sistema relazionale umanamente capace di far crescere, di dare un volto a chi non ce l’ha. E’ necessario forse uscire da uno stato di sudditanza, di prigionia esistenziale, imparando a essere liberi, senza catene, senza oppressioni fisiche e mentali. L’educazione si avvale di studi, tradizioni, conoscenze, mantiene un contatto dinamico con la realtà, cercando di interpretarla, di interagire con essa, di configurare e riconfigurare senza pregiudizi, ma con la determinazione di chi è consapevole che la vita non si ferma, ha bisogno di sostegno continuo, di posizionarsi e di riposizionarsi per ripartire, ha soprattutto bisogno di un sistema che sappia essere solidale, attento, legalmente presente nella vita sociale. Senza educazione non c’è armonia, non c’è coesione sociale, ciascuno interpreta e vive la realtà secondo il proprio punto di vista, con grave danno per la vita comunitaria. L’educazione va insegnata, i metodi possono essere diversi, occorre trovare coordinate che consentano di puntare su linee di condotta comuni, capaci di fare sistema, di mettere a punto una società solidale e collaborativa, pronta a dialogare, a stabilire confronti, a offrire orientamenti, a produrre nuove opportunità. L’educazione resta elemento fondamentale per capire chi siamo, cosa facciamo, dove andiamo, quali siano gli elementi su cui possiamo contare nel nostro cammino esistenziale. La non educazione è spesso figlia di una mancata conoscenza di sé, della non volontà di premere perché la vita abbia uno scopo più alto, un fine più nobile e che alla base ci sia la volontà di stabilire un rapporto rispettoso con quel mondo che incontriamo sul nostro cammino esistenziale. Compito di una società cosciente è predisporre un sistema educativo capace di produrre interesse, di fornire strumenti, di creare spazi di crescita, di orientare positivamente talenti e risorse, cercando di evitare che si crei stagnazione. Oggi più che mai i giovani hanno bisogno di risposte sicure, di capire quanto sia importante dare un senso a ciò che fanno. L’educazione si lega alle regole e le regole sono l’emanazione di una democrazia che vuole conservare la bellezza della sua sostanza, la sua capacità di rispondere in modo chiaro alle attese e alle aspirazioni di un popolo maturo, capace di mettere a punto una coscienza critica all’altezza della situazione. Ricostruire il sistema educativo sulla base di un’ evoluzione sociale ampia ed estesa, significa dare un volto nuovo a una società, mettendola nella condizione di poter assolvere con determinazione ai suoi fondamentali compiti istituzionali.
Sembra di capire che le distanze siano incolmabili, che ciascuno sia vincolato alla propria cultura e che non si voglia cedere neppure un millimetro di spazio a una visione comune.
La diversità non è antagonista, ma un bene che, se valorizzato, può produrre vantaggi. Confrontarsi è il primo passo di mondi che vogliono andare oltre i muri e il filo spinato, che vogliono realmente perdere qualcosa di sé per rafforzare lo spirito unitario del mondo. L’Europa e il mondo sono ancora troppo vincolati a varie forme di primati, non si rendono conto che così facendo riducono il loro slancio vitale la loro possibilità di autodefinirsi secondo uno spirito capace di convergere verso una presa di coscienza comune. Il mondo ha bisogno del mondo. Il primato nasce dal rispetto, dalla solidarietà, dall’unione, dalla voglia di lavorare, di affermare il valore, la forza e la bellezza della natura umana. Per scongiurare quei conflitti che generano morte e sofferenza, occorre uno spirito comune attraverso il quale definire il ruolo della persona, la sua identità, la sua capacità di essere ricchezza e servizio, promotrice di valori come pace, libertà, lavoro, la possibilità di essere valorizzati per quello che si è. Appartenere vuol dire essere portatori di valori, sentirsi parte di una natura dalla quale si è stati generati, ma non per questo l’appartenenza deve privare l’individuo della sua vocazione alla trasformazione, alla ricerca di un’identità, di un modo nuovo di concorrere alla formazione di sé e del suo ruolo sociale. Oggi si richiedono personalità dinamiche, capaci di essere generatrici di dinamismo intellettuale, sociale, politico e religioso, capaci di muoversi con spirito libero, senza catene che impediscano la possibilità di un’ evoluzione armonica, di una ricerca costante, di poter cambiare, di avviare processi di trasformazione, di saper guardare all’orizzonte per cogliere il senso più ampio e profondo della natura umana. Uno dei grandi messaggi che hanno attraversato il cuore dell’universo umano è l’enciclica di papa Francesco, in cui il pontefice rivendica la dignità dell’universo che ci accoglie, di quel mondo in cui ci siamo incontrati per celebrarne la bellezza, per viverne con rispetto la preziosità in tutte le sue forme e i suoi aspetti. Nell’enciclica del papa troviamo il valore unificante della vita, la forza di una creazione che ci è stata affidata perché potessimo goderne la bellezza. La coesione diventa possibile se l’uomo uscirà dalla convinzione che non ci sia altra realtà all’infuori di sé o di quel mondo di cui, forse, non ha ancora colto il senso universale. Essere coesi significa fare fronte comune ai problemi umani, cercando di creare dei ponti, delle identità, dei principi e dei valori comuni, aprendo i cuori a un respiro più ampio, meno vincolato, più aperto alla possibilità di vivere con dignità e con una visione più ampia il proprio spazio e il proprio tempo. La coesione non nasce da un’ imposizione, ma da una maturità che va oltre i dogmi e le schiavitù. La vita ha una sua missione, per questo deve essere preparata. Per troppo tempo l’uomo ha subito varie forme di sudditanza e di schiavitù, è stato dominato da un mondo che lo ha travolto. L’educazione non prevede conflitti, ma tavole rotonde, incontri, dialoghi, insegnamento, partecipazione, maturità, capacità di andare oltre i limiti. I passi da fare sono ancora molti, ma l’obiettivo è stato fissato con chiarezza, dare all’uomo la dignità che gli spetta, aiutandolo a diventare sempre più cosciente della propria libertà, invitandolo al tavolo del confronto. E’ solo costruendo una casa in cui ci sia davvero spazio per tutti, nella quale il lavoro diventi espressione di una volontà universale, che diventerà possibile convertire i talenti e le risorse in una fonte di umanità e di ricchezza.
Quali problemi comportano i flussi migratori, quando sono eccessivi?
Una comunità armonizza se tutti concorrono alla sua costruzione, ciascuno con le proprie competenze e con la propria buona volontà. Il lavoro fa scattare una serie infinita di effetti positivi, soprattutto l’idea e non solo che tutti i componenti di una società, nessuno escluso, siano costruttori di un benessere sociale comune. Dunque il lavoro è la piattaforma sulla quale prendono forma le abilità di ciascuno, è il punto di partenza, ma si sa che i tempi non sono facili e che il lavoro manca per tutti. Cosa si potrebbe fare? Ritrovare lo spirito artigianale ad esempio, ricreando le basi di una rinascita economica del paese. Il tema dei servizi è fondamentale, ma bisogna farlo capire, bisogna insegnarlo, bisogna soprattutto far passare il messaggio che la forza di una comunità stia nella qualità del lavoro prodotto. Il medico e lo spazzino svolgono due lavori diversi, ma sono entrambi fondamentali nell’economia di un paese, di una città o di una nazione. Se il medico è un bravo medico e se lo spazzino fa bene il proprio dovere sono entrambi da amare, da proteggere e da valorizzare. E’ quando i lavori vengono eseguiti male, senza volontà, senza impegno e senza cura, non fanno bene alla vita di una comunità. Certo bisogna facilitare chi entra nel mondo del lavoro, bisogna metterlo in condizione di poterlo fare con entusiasmo, con lo spirito giusto, quello che nasce dalla consapevolezza di sentirsi utili e per questo amati e rispettati. In questi tempi difficili diventa indispensabile avere rappresentanti eletti da popolo che applichino con entusiasmo le regole dell’integrazione sociale, senza dover sottostare a inutili e farraginose burocrazie statali. Chi ha voglia di lavorare deve poter lavorare, deve essere valorizzato. Il tema della formazione è fondamentale. Chi arriva deve essere messo in grado di potersi inserire subito nel tessuto sociale. Certo anche il sistema scolastico si deve adeguare, deve diventare più inclusivo, deve adottare tempi meno burocratici, più adeguati alle esigenze. Fornire un quadro integrativo di natura culturale potrebbe abbreviare l’approccio sociolinguistico, mettendo i nuovi arrivati nella condizione di diventare velocemente autosufficienti nella vita di relazione. Dunque cultura e lavoro sono presupposti fondamentali per la creazione di una società fondata su valori comuni. I flussi migratori vanno gestiti e orientati, per questo occorre una perfetta sinergia tra stato, regioni e comuni, tutte le istituzioni dovrebbero concorrere alla formazione di un sistema di collaborazione generale che superi le divisioni e gli antagonismi del passato. Il timore è che interessi e vecchi antagonismi di natura coloniale siano ancora presenti nel sistema delle nuove relazioni sociali e che sia quindi difficile svolgere una efficace azione comunitaria. Il problema è anche quello di favorire l’emancipazione del mondo delle povertà, evitando di costringerlo a scappare altrove, col pericolo di passare da una schiavitù primordiale a un’altra legata agl’interessi economici. Gestire i flussi significa responsabilizzare i paesi di provenienza, creare un filo diretto, pensare non solo al sostentamento economico, ma alla capacità di sapersi autodeterminare e di poter concorrere alla formazione di stati autonomi e indipendenti, capaci di provvedere da soli alle necessità e ai bisogni dei popoli. La politica deve prendere decisioni, non può continuare a farsi la guerra, lasciando la nazione in balia di incertezze che possono diventare molto pesanti col passare del tempo. Gli eccessi vanno sempre evitati, soprattutto quando si brancola nel buio e non si è sufficientemente preparati per affrontarli. I migranti possono essere una grande ricchezza per il paese, ma per questo si rende necessario attivare progetti di coinvolgimento che stimolino la voglia di intraprendere, di sentirsi parte attiva di una nuova realtà della quale ciascuno diventa protagonista.
Come riuscire a creare un’armonia che favorisca la crescita educativa?
Spesso sono i tempi morti a generare situazioni di disagio che conducono inevitabilmente al sovvertimento dell’ordine interiore. Manca in molti casi un sistema educativo attivo che spinga ad esercitare la volontà, a ricercare, a far uscir fuori quella ricchezza creativa che gli esseri umani portano dentro. I problemi educativi nascono quando le persone non riescono a liberare la propria energia, quando diventano prigioniere di una condizione che non matura e che non evolve, assumendo sempre di più i toni e le sfumature dell’apatia, di convinzioni sbagliate, di inquietudini che, col passare del tempo, diventano vere e proprie patologie. Chi ne ha esperienza sa benissimo che la più grande nemica della crescita è la noia, l’assenza di tensione positiva, di dimostrare la propria capacità, la propria voglia di liberare quel fuoco della volontà e della conoscenza, che arde in ognuno. In molti casi la noia produce varie forme di dipendenza che intossicano la voce della coscienza e quella condizione di libera volontà che concorre a metter in campo energie preziose. Aiutare l’essere umano a diventare indipendente è la grande sfida della vita, una sfida che richiede collaborazione. E’ la società che deve entrare in campo, diventando protagonista della crescita dei propri figli, evitando che la dipendenza li costringa a elemosinare varie forme di schiavitù. Quali sono le dipendenze? Molte ed estremamente distruttive: televisione, computer, telefonini, droga, alcol, pornografia. Ogni dipendenza ha una sua origine, non nasce per caso, di solito è figlia di qualcosa o di qualcuno che l’ha generata, che l’ha fatta diventare talmente potente da annientare la coscienza stessa dell’individuo, la sua capacità di autodeterminarsi. La coscienza riveste una funzione fondamentale, quella di essere l’antidoto per eccellenza all’instabilità interiore. Va coltivata sempre con amore, pazienza e determinazione perché è il vero motore della nostra storia, da cui dipendono le nostre azioni e i nostri comportamenti, il nostro modo di affrontare la vita. Si è soliti dire che è incosciente colui che agisce senza logica, fuori dagli schemi della rettitudine, colui che compie atti o azioni che vanno contro il buon senso comune, contro le regole e le leggi che governano la vita della comunità. Quando una società diventa incosciente apre le porte a qualsiasi tipo di avventura, lo abbiamo visto in alcuni della nostra storia personale o di quella del nostro paese. L’incoscienza genera perdita di personalità, apre le porte di un libertà senza controllo, mettendo in serio pericolo l’equilibro individuale e quello sociale. I giovani soprattutto hanno bisogno di formarsi una coscienza e in questo vanno aiutati dalla famiglia, dalla società civile e dallo stato. Formare o formarsi una coscienza significa porre e porsi delle domanda, stabilire un dialogo aperto e vero con se stessi, senza imbrogli, senza ipocrisie, senza mezzi termini, ma con la determinazione di chi vuole scoprire la forza e la bellezza del mondo in cui è stato chiamato a esercitare la sua missione. Coscienza e missione sono i pilastri di un’esistenza che richiede di essere alimentata sempre, rinnovata, consolidata, rafforzata e spesso anche ricostruita. Il problema educativo di sempre, quello capace di generare rinascita, è rafforzare la coscienza individuale, il senso di responsabilità, avviando un percorso di autostima, accompagnando le persone ad acquisire consapevolezza di chi sono e di quello che fanno. La vocazione al rispetto cresce e si rafforza quando la coscienza personale viene sistematicamente alimentata da buoni educatori, capaci di far pensare, riflettere, dialogare, capire, quando è in grado, da sola, di volare alta sui problemi che incontra sul suo cammino. Chi è veramente libero? Chi è capace di assumere decisioni autonome, dimostrando di aver maturato una coscienza adeguata. La società in cui viviamo sta attraversando un complesso periodo di rinnovamento strutturale. Come sempre succede quando gli avvicendamenti sono repentini e arrivano quasi senza preavviso, rischiano di produrre disorientamenti che causano malesseri diffusi e gravi forme di disagio che richiedono tempo e pazienza per evolvere. I giovani hanno più che mai bisogno di un sistema educativo che li sappia leggere e capire, che li consideri, che li faccia sentire vivi, partecipi, capaci di concorrere positivamente alla costruzione di una società che li sappia accogliere e indirizzare, hanno soprattutto bisogno di persone che credano in loro e che li sappiano orientare, che premino la loro volontà, il loro impegno, la loro voglia di partecipare in prima persona alla costruzione di un mondo nuovo, più capace di rappresentarli e soprattutto di amarli.
Com’era l’educazione di una volta?
La punizione era un classico, si poteva finire in ginocchio dietro la lavagna oppure essere bacchettati sulle dita a mano aperta sul banco. In molti casi il maestro o la maestra potevano dare anche uno sganassone o un buffetto sulla guancia o sul collo, potevano farti fare dei piegamenti, insomma c’erano molti modi per far passare la trasgressione. E i genitori? Non facevano una piega, perché il maestro e il professore erano intoccabili. Se ricorrevano a una punizione era perché i ragazzi se la meritavano. Non mi è mai capitato di sentir dire frasi del tipo: “Vado a casa e le dico a mio padre” oppure: “Vado dai Carabinieri e denuncio il professore”. L’autorità non si discuteva, era uguale per tutti. I ragazzi crescevano sapendo che bisognava rispettare gli adulti, che bisognava lasciar sedere gli anziani sugli autobus e sui treni, che bisognava dire grazie e chiedere scusa, che non bisognava sputare per terra e che non bisognava dire le parolacce. Crescevano con un sano timor di Dio e delle cose umane, pur senza conoscere a fondo la sintassi o la letteratura o la teologia. Le famiglie si sentivano parte in causa e nutrivano molta fiducia nei confronti della scuola e dei suoi rappresentanti. Affidare i figli alla scuola era un orgoglio condiviso, perché la scuola era l’unico strumento valido per uscire da una condizione di inferiorità, per intraprendere la via del riscatto sociale. Ogni istituzione aveva un’impostazione gerarchica, dappertutto c’era il capo, il sovrintendente generale, l’uomo della disciplina, dell’ordine, della programmazione e i rapporti si basavano essenzialmente sul rispetto. Lavori e ti pago, ti comporti bene e ti premio, ti dai da fare e ti aiuto, ti impegni e sarai ricompensato, non c’era tempo per pensare di appellarsi a un eventuale difensore del diritto, il dovere era davanti a tutti e chi non lo esercitava fino in fondo ne pagava le conseguenze, non esisteva il problema della giusta causa o della burocrazia intimidatoria. La gente aveva bisogno di punti fermi, di sapere che la democrazia era soprattutto aver maturato un profondo senso del dovere individuale e collettivo. In molti casi le persone si davano ancora del Voi o del Lei, il “tu” era rarissimo in casa e fuori. Dare del tu significava mancare di rispetto, prendersi delle confidenze impossibili. La gerarchia aveva una sua configurazione precisa e faceva pesare la forza del sistema, democratico sì, ma con rispetto. Oggi la democrazia si è giustamente allargata, molti la masticano, ma in certi casi riesce indigesta, soprattutto a chi di democrazia capisce poco. Spesso, quel poco lo si riassume così: “Siamo in democrazia, io posso dire e fare quello che voglio, tanto la legge è dalla mia parte e poi, anche se succede qualcosa, trovo sempre la scappatoia”. Bisogna stare attenti, perché molti non hanno ancora capito che la democrazia non è un’opinione personale o un’imposizione dettata da qualcuno con la mania del comando, ma una ricchezza che va seminata, coltivata, amata e protetta. Ognuno è responsabile del suo livello di democrazia, per questo deve esercitarsi nell’arte dell’autovalutazione e nella riflessione, per capire bene se quello che fa corrisponde ai principi e alle regole che la democrazia impone. Nella storia passata e recente siamo stati testimoni di aberrazioni condotte ai danni della democrazia. C’è chi ha rubato, rapinato, sottratto, chi è rimasto senza lavoro e senza stipendio, chi ha guadagnato palate di soldi in barba alla povera gente, chi si è arrogato il diritto di imporre sempre il proprio punti di vista, chi ha fatto girare le leggi in modo tale che potesse sempre trovare una via di fuga. Ci sono persone che violano la legge e sono protette, ci sono malfattori che la spuntano sempre e non si sa perché, c’è gente che ruba, ammazza, rapina e poi si trova a casa invece che in galera, insomma, sembra che ognuno abbia un’opinione diversa e che la faccia valere, creando un mare di confusione nella testa e nel cuore di chi osserva e ascolta. L’impressione del cittadino è che troppa democrazia o che una democrazia imparata male possa generi disorientamenti capaci di far saltare un impianto giuridico per sua natura bellissimo. Il problema è come far funzionare le leggi che ci sono già. In democrazia l’educazione riveste un ruolo fondamentale, è la base d’appoggio, non solo, è il collante di tutta l’attività umana, lo stile che contraddistingue i comportamenti di una comunità. La via dell’educazione democratica è la più difficile, non solo per la quantità e la varietà di contenuti presenti nel suo codice. Rimettere in pista i ruoli, ridare autorità alle regole, alle leggi e a chi le rappresenta, riconfigurare l’autorevolezza, rimettere in campo tolleranza e fermezza, premiare chi se lo merita, chi si guadagna sul campo ogni giorno la propria democrazia, sono passaggi fondamentali per restituire dignità a uno stato fortemente in crisi. Il paese ha un estremo bisogno di cittadini che contribuiscano al progresso sociale e l’educazione, in questo senso, riveste un ruolo fondamentale che riguarda tutti.