Daria Lapi, Rime Libertine, Menta&Rosmarino Editore, Caldana Di Cocquio (Va)
Con un’epigrafe apodittica di Oscar Wilde (Non esistono libri morali od immorali. I libri o sono scritti bene o sono scritti male) Daria Lapi ci mostra la strada da percorrere per la sua nuova silloge poetica “Rime libertine”. Infatti, sebbene la maggior parte dei lettori si rivolga prevalentemente al contenuto di un testo, non può esistere poesia senza un’adeguata e corretta forma. Saremmo di fronte essenzialmente ad un bel pensiero. Nulla più. Una lirica per essere tale, oltre all’emozione che suscita, deve possedere una sua intrinseca musicalità. Non si chiamerebbe lirica, altrimenti.
Fatta questa premessa, d’obbligo visto l’autorevole esergo, mi soffermerò innanzitutto sul sostantivo (rime) per analizzare nel prosieguo l’aggettivo (libertine).
L’autrice utilizza in pratica quattro forme di metrica. La più usata è quella che insiste su quartine di endecasillabi. Troviamo poi il settenario ed il senario doppio. E infine il settenario semplice. Le rime sono in prevalenza o baciate o alternate e si possono considerare ad libitum, a discrezione della poetessa.
Una vivisezione così certosina dei versi non vuol essere solo mera retorica. La forma infatti ha il preciso compito di alleggerire lo scritto rendendo maggiormente fruibile il contenuto. Oltretutto il modus operandi disvela una capacità poetica non trascurabile ed una facilità di scrittura non indifferente. Le quali cose, congiunte, fanno di Daria Lapi una scrittrice da non sottovalutare.
Detto ciò vediamo dove ci conduce l’aggettivo “libertine”.
E bisogna subito notare come la letteratura occidentale fin dalle origini abbia sempre avuto in sé una pagina a parte riguardante il microcosmo del sesso e dell’erotismo, vissuti naturalmente secondo le epoche e le filosofie imperanti. Se si pensa poi a quello straordinario libro della Bibbia che è il “Cantico dei Cantici” non possiamo sicuramente cestinare o relegare ad opera secondaria uno scritto che parla dell’amore carnale hic et nunc. Non sto a citare la cultura greca o romana, sicuramente in antitesi a quella cristiana, ma basta ricordare quei liberi pensatori, nati proprio nel seno della civiltà cattolica, che hanno contribuito a restituire all’uomo ciò che, per motivi qui non sindacabili, l’uomo aveva perso. Mi riferisco a un Cecco Angiolieri, a un Ciullo d’Alcamo, a Boccaccio, a Pietro Aretino, a Ruzzante, al veneziano Baffo, al nostro Carlo Porta, tanto per rimanere nell’ambito italiano: l’elenco è sicuramente incompleto e non esaustivo.
Se però ci fermiamo alla superficie del termine libertine, sia pur con tutti i riferimenti sopra citati, non riusciremmo a comprendere fino in fondo il pregio di queste liriche che Daria Lapi ci propone. In effetti, le sue poesie sono un gioioso e spensierato percorso dell’eros in tutte le sue implicazioni e applicazioni. La sua franchezza e schiettezza ci allontanano da una non ben celata pruderie che, senza volere, potrebbe ancora abitare negli anfratti della nostra anima. La poetessa strizza l’occhio al lettore non tanto per trascinarlo a sé in una specie di captatio benevolentiae, visto che l’argomento è di quelli, anche al giorno d’oggi, tabù, quanto per ricreare il gioco dell’amore sensuale in tutte le sue sfumature.
Ecco allora che nascono l’uccellulare, il lamento dell’onanista, la pillola blu, la cintura di castità e tante altre situazioni che descrivono in una specie di girotondo della ruota della fortuna l’abbandono e i desiderata del piacere. Ma non c’è solo spensieratezza e voglia di vivere – che sarebbe già tanto fra i poeti, poiché i componimenti dei più si inalberano sulle maggiori, insanabili e tristi malinconie, votanti al suicidio – bensì uno sguardo attento ai falsi moralismi, alle menzogne pubbliche che in privato diventano vizi, alla condanna di ciò che non è genuino e sincero: come l’eros, appunto.
Citerò solo alcuni versi esemplari per non privare il lettore della bellezza e spontaneità di tutta la raccolta. Sentite qua: E’ meglio certo la masturbazione/ piuttosto che l’usanza di quei frati/ che, nel segreto della confessione, / fanno la festa ai giovani sbarbati. Oppure questi altri: Al giorno d’oggi capita sovente, / che qualcheduno non di primo pelo/ si creda ancora d’essere attraente/ anche se invero è tutto uno sfacelo. Od anche questa quartina tratta da “La cintura di castità”, e finisco: “Fatemi obliare tosto, Magnifica Eminenza,/ d’avere lungamente patito l’astinenza/ e dopo questo sfogo, con grande devozione/ vi chiederò di darmi la vostra assoluzione.”
Rara avis, è il caso di affermarlo, questa silloge di rime libertine. Dal punto di vista formale la si può avvicinare ai classici rivisitati in un linguaggio moderno. Dal punto di vista contenutistico mi fa ricordare i versi finali di una canzone di Georges Brassens, tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè e nel nostro dialetto da Nanni Svampa, a proposito di una prostituta che sale in paradiso: qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto; dumà i bigott disen de no, la ghe va minga giò.
Enea Biumi