C’è chi cerca cibo nei cassonetti e chi fatica ad arrivare alla fine del mese. Non sono pochi. Per questo credo che parlare di un recente passato di ristrettezze economiche e carestia sia più che mai attuale. Se hai orecchie per ascoltare chi ti circonda, carpirai innumerevoli esperienze di vita che faranno meditare. Sempre mia madre, bosina DOC, attaccata alla sua Varese come un sass a la rizava de ra vita, mi ha raccontato ciò che mia nonna diceva sempre durante i momenti conviviali di pranzo e cena, quando la famiglia si radunava attorno ad un tavolo e, ciò che c’era, si doveva mangiare, perché altro non era concesso. Le poche volte che ci si poteva concedere il lusso della carne o del pesce, ed in generale quando si consumava un piatto gustoso e laborioso con ingredienti costosi, si adoperava spesso la parola “cumpesa”. “Te piaas? Cumpesa, cumpesa inscì te ghet la panscia piena e basta par tücc”. Ma cosa si intendeva per “cumpesa”?. Presto detto: c’erano dei cibi, dagli ingrediente decisamente più poveri o cibi facilmente accessibili, come il pane fatto in casa, la polenta, le patate, i fagioli…. Che erano (e sono) particolarmente sazianti. Con una quantità minima si ha quel senso di completezza e non si ha voglia di altro. Quindi, si tendeva, per esempio nei piatti a base di polenta, ad abbondare con la polenta rimanendo in dietro con il piatto forte a base di carne, formaggio, pesce o uova. Quando poi qualcuno, pignatta e polenta in mezzo al tavolo, si allungava per un bis, mia nonna diceva sempre “cumpesa, cumpesa ca deum riparmià!” Allora, l’affamato, abbondava suo malgrado di polenta limitando il piatto prelibato, così che, ciò che avanzava, si poteva riscaldare il giorno dopo. Quindi se te ghet fam magna, ma cumpesa parpiasè, cumpesa, ca gh’in mia tanti danè.
Il dipinto è di Innocente Salvini, “la spartizione della polenta in famiglia” visibile presso il mulino di Cocquio Trevisago.
Diana Ceriani