Ci si dimentica spesso che vivere in democrazia significa rinnovarla ogni mattina, liberarla dagli involucri che la comprimono e che non le permettono di distendersi nell’ ampia e solidale comprensione di quella realtà in cui è chiamata a vivere e a operare. Uno degli errori più frequenti è quello di pensarla onnipresente solo per il fatto che la sua identità sia scritta nella Costituzione italiana o nella didattica familiare, scolastica e sociale, se così fosse rimarrebbe imprigionata nella sua fissità, non avrebbe vita, respiro, possibilità di abilitarsi e riabilitarsi, di rendersi pubblica, presente in ogni ambito o momento della vita delle persone. Costruire la democrazia significa dare vita a quel potere popolare da cui dipende in larga misura lo stile di vita dei cittadini. E’ infatti nell’attività pratica di ognuno che si misura la sua forza espressiva, è nella produzione sociale che si evidenzia, migliorando la vita stessa di uno stato e di una nazione, sulla base di una più retta coscienza dei diritti e dei propri doveri. In questi anni è stata spesso ridotta in una schiavitù esistenziale, fino a perdere di autenticità, di freschezza attuativa e di autorità. Le esperienze politiche di questi anni hanno dimostrato segni evidenti di qualunquismo e di fatalismo, di un costume che è andato perdendo quella volontà che ne aveva caratterizzato il carattere alla fine del secondo conflitto mondiale, quando il paese, rientrando in se stesso si, è dovuto liberare dai fantasmi, creando un sistema di natura popolare che lo mettesse al riparo da approdi incerti e insicuri. Una democrazia dunque che fatica a riconoscersi e a realizzarsi, che si perde spesso in fenomeni corruttivi, nell’indifferenza e nell’abbandono, che non sa usare in modo proficuo la propria identità, lasciandosi travolgere da varie forme di egoismo, di egocentrismo, di anarchismo, lasciandosi dietro una lunga serie di iniquità, tra le quali spicca una forte dose di arbitrarietà che distrugge il senso di responsabilità individuale e collettivo. Una democrazia che si è sempre più convinta di essere eterna, di poter sopravvivere anche senza autocritica, senza la capacità di fermarsi a valutare il proprio stato di salute, la propria capacità di essere pronta ad affrontare le difficoltà dei tempi, magari sottoponendosi a un accurato lifting.
La cosa che manca di più oggi è la convinzione che il rispetto sia davvero il punto di approdo di uno stato democratico, la condizione prioritaria di una costruzione articolata e complessa che esige cura, attenzione, disciplina, ordine, autorevolezza, fermezza, insomma tutte quelle doti che servono a creare responsabilità individuale e collettiva. In molti casi si ha la sensazione che non esistano più confini e regole, che tutto sia diventato opinabile, eludibile, trasferibile, incontrollabile e che ciascuno pensi e a agisca secondo un codice personale. Ritrovare un comune senso di responsabilità che sappia affrontare con coraggio e determinazione i cambiamenti non è cosa facile, ma si tratta di un impegno che va preso e messo in opera, altrimenti il rischio è quello di vivere sempre di più in un confuso sistema di piccole e rissose oligarchie, ciascuna munita di una personalissima visione della verità e quindi incapace di creare relazione, comprensione, unione. L’idea è che non si sia ancora capito che esistano vari livelli di libertà, modi diversi di applicazione e di condivisione e che non basti ridurli in schiavitù per avere la certezza di poterli consumare a proprio piacimento, ma che vadano contemperati con quell’ordine democratico su cui si appoggia il delicatissimo sistema degli equilibri. Prendiamo atto con gioia che sulla realizzazione della democrazia si possa ancora lavorare e a questo proposito occorre non dimenticare mai la frase epica del buon Massimo D’Azeglio, secondo la quale: “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gl’italiani”. Come dire: “C’è sempre la possibilità di migliorare” e questo è fondamentale per chi, nonostante tutto, continua a credere che il nostro paese sia davvero il più bello del mondo.