Compie cento anni domani (30 aprile) Carlo Biasoli. E’ un compleanno atteso perché la sua è una figura molto amata per i valori che ha saputo dare a piene mani. Il libro della sua vita ha capitoli all’insegna della religione del lavoro, dell’amore assoluto per la famiglia e un capitolo che ha pagine eroiche sul coraggio e solidarietà e buie nel segno della guerra. Per anni non ha parlato, non riusciva a dire niente degli amici gaviratesi, corpi senza nome nell’immensa steppa russa o feriti come lui durante il secondo mondiale. Poi quando il fiume dei ricordi è diventato dirompente allora questo capitolo si è aperto e la memoria di quei giorni l’ha accompagnato per lunghi anni quotidianamente. E’ stato ferito all’alba del 24 agosto 1942 durante l’ultima carica della nostra Cavalleria (faceva parte del 3° Savoia Cavalleria, Divisione Celere) nei pressi del villaggio di Jsbuscenskij, a pochi chilometri dal Don. Una pagina di storia destinata ad entrare nella leggenda: a pochi anni dal lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, 650 soldati a cavallo con le sciabole sguainate al grido di “Savoia” si lanciarono contro carri armati sovietici e contro due battaglioni di fanti siberiani forti di 3000 uomini che tentavano l’accerchiamento delle truppe italo-tedesche. Questa eroica battaglia salvò centinaia di soldati italiani in fuga.
C’era anche lui con il suo cavallo Berceto che lo seguiva fin dalla campagna in Jugoslavia. Fra i documenti che conserva, testimonianza di una esperienza iniziata a contatto degli ultimo rampolli delle Belle Epoque e terminata tra il freddo glaciale delle steppa a contatto giornaliero con la morte ce n’è uno a cui tiene: è la sua piastrina di riconoscimento che è riuscito a conservare durante il suo lunghissimo rientro in Italia, pieno di peripezie e di agguati: “2268 (73) Biasoli Carlo di Filippo e di Giovanna Biasoli/ Classe 1918/ Gavirate”. Il suo racconto, ricco di dati e di tanta umanità, non ha tinte cruente. Non parla con odio dei russi, in particolare degli ucraini, anzi ricorda le loro usanze. Gli uomini caduti prigionieri supplicavano di non essere consegnati in mano tedesca. Volevano restare con gli italiani ai quali, quando c’era abbondanza di cibo, offrivano in segno di ospitalità semi arrostiti di zucca e girasole, vodka, uova, latte, pane, nelle loro case costruite con la terracreta, tenuta salde dai gambi di girasole. E quando il cibo cominciò a scarseggiare si beveva caffè in cui era inzuppato il mangime dei cavalli, si mangiava la loro carne infilzata sulla baionetta e abbrustolita giusto il tempo di far morire gli insetti. Il suo racconto raggiunge tinte drammatiche quando ricorda il freddo eccezionale del ’41 con un equipaggiamento non adeguato alle circostanze: i pellicciotti venivano assegnati solo ai soldati di guardia. Il loro compito non durava più di un quarto d’ora, rischio il congelamento. Ricorda come la “fortuna” dei cavalieri fosse costituita dalla coperta, intrisa del sudore del cavallo, posta sotto la sella, ricorda il divieto assoluto di scaldarsi le mani congelate sopra le stufe nelle case ucraine: la mancanza di sensibilità faceva sì che cadessero sulle stufe e venissero ustionate irrimediabilmente. Da ultimo, di questa lunga esperienza russa, iniziata nell’agosto del ’41, dopo un viaggio in treno attraverso la Romania e con una marcia di 1200 km durata 35 giorni per giungere sul Dnieper alla conquista di Stalino, ricorda i giorni trascorsi all’ospedale di Millerovo, ferito durante la battaglia di Jsbuschenskij.
Federica Lucchini