Un mazzo di rose finte, ben curate, di un bel colore arancione attira l’attenzione dei passanti. Fa comprendere che Emilio Ossola, partigiano diciottenne del Cugnolo, frazione di Comerio, ucciso il 19 aprile 1945, non è dimenticato: all’inizio di via del Colle, laterale di via Piave, nel punto in cui perse la vita, è ben visibile la scritta che lo ricorda, come “martire della Liberazione”. “Emilio era un caro amico”: le parole di Carlo Metelerkamp, che assistette alla sua morte, rappresentano una testimonianza preziosa di una pagina di storia della Resistenza locale: con l’eleganza che gli deriva dalla sua famiglia (il padre Herman era un pittore di respiro europeo) usa termini calibrati, ma pregnanti, per descrivere un ricordo traumatico all’insegna della violenza nei confronti di Emilio e “degli interrogatori molto particolari” che seguirono la cattura del gruppo che lui comandava con il nome di Pupo. “Eravamo un piccolo gruppo di amici – spiega – che aveva aderito agli ideali della Resistenza in un periodo molto buio per l’Italia. Mi misi in contatto con il Battaglione Italia del partito liberale. Non intendevamo organizzare iniziative traumatiche, ma far circolare stampa clandestina, preparare tutto ciò che era possibile per la attesa liberazione. La sera del 19 aprile, attorno alle 22, scendemmo in paese, nonostante il coprifuoco – sapevamo quello che rischiavamo – per ritirare delle armi a Barasso. Ci fu una soffiata: ci attendevano”. Erano i fascisti della Brigata Nera “Dante Gervasini”, capeggiati da Renato Zambon, tristemente famoso per le sue crudeltà commesse prima a Bologna, poi a Varese. Fece allineare lungo il muro nel punto della cattura i cinque giovani “studenti e operai – scrive Franco Giannantoni in “Fascismo, guerra e società nella Repubblica Sociale italiana” (FrancoAngeli Storia) – Metelerkamp, Giustino Cappelletti, Luigi Broggi, Giannino Ornetto ed Emilio Ossola. Al termine dell’operazione il milite segnala: “erano scesi in paese per rapinare”.
“Sbucarono fuori da una siepe con le armi spianate – riprende il Metelerkamp – e ci fecero allineare contro il muro di fronte. Emilio cercò di scappare e fu raggiunto da un colpo. Morì in seguito all’ospedale di Varese”. Per Pupo che assistette alla scena, impotente, assieme ai compagni cominciò il calvario: subì il primo interrogatorio al ristorante “Massimino” di Comerio, poi caricato su un motocarro col pianale ribaltabile, fu condotto nella caserma dei militi fascisti presso la scuola “Felicita Morandi”. Per lui e i compagni continuarono senza pietà quelli che definisce “trattamenti”. La sua casa al Cugnolo, come quella dei compagni, fu perquisita: non trovarono nulla. Una fortuna: sotto il materasso della sorellina era nascosto un mitra. Anche il padre fu interrogato: “era cittadino olandese. Noi eravamo sfollati. Per lui ci furono solo minacce, non osarono esagerare”. Il 24 aprile, sei giorni dopo l’arresto, alle ore 19 “i nostri carcerieri furono costretti a liberarci. Non sapevamo più nulla”. Nemmeno che Emilio era morto proprio pochi giorni prima della Liberazione.
Federica Lucchini