COGITO ERGO SUM – PENSO, QUINDI
UNA MASSIMA CARTESIANA CHE NON SCADE MAI: COGITO ERGO SUM – PENSO, QUINDI SONO – NON MANCA MAI LA VOGLIA DI METTERSI IN GIOCO
felice magnani
Professore, lei ama i Promessi Sposi. Cosa ci trova di così interessante?
I Promessi Sposi sono stati definiti il primo, vero, grande romanzo storico della nuova Italia, fortemente impegnata nella sua ricerca di identità politica, storica, morale, religiosa, letteraria, umana e culturale, un’Italia che prende coscienza della propria storia e che affida alla propria gente il prezioso messaggio dell’unità nazionale. E’ un mondo che si raccoglie in una millenaria tradizione, per dimostrare che l’aspirazione alla libertà è legittima e che il prezzo che si deve pagare rientra nella sfera sacrale dei doveri umani, gli unici in grado di restituire la giusta dignità a chi ne è stato privato. Il popolo manzoniano si muove tra mille difficoltà, ma si muove, tra sopraffazioni, violenze, prevaricazioni, guerre, pestilenze e arroganze di ogni genere. Il sentimento italiano si fa strada, apre le porte alla propria creatività, sorprende per la sua genuina freschezza e per la sua determinazione. C’è un aspetto del problema che merita un’attenta osservazione, perché ci introduce nel punto nevralgico della storia italiana, quello educativo e formativo. La pedagogia italiana evocata dal grande scrittore lombardo, passando attraverso la storia e la letteratura, forma l’uomo nuovo, colui al quale viene affidato il compito etico, morale, spirituale e pratico di costruirne la nuova identità. Pur in condizioni storiche del tutto diverse, non siamo molto distanti dalle necessità della società attuale, disorientata e confusa, incapace spesso di fornire modelli affidabili, preda di diverse forme di schiavitù, una società che in molti casi ha perso per strada il sentimento, la capacità di vivere i grandi ideali della storia. Dipendenza, strumentalizzazione e demagogia, falsità e ipocrisia, brama di possesso, ricerca del piacere fine a se stesso, esaltazione del successo come modalità di affermazione, violenza e prevaricazione sono i demoni che caratterizzano una società decadente, che ha costruito forme di capitalismo esasperato, alimentando la frantumazione di quei valori che ci hanno permesso di essere amati e rispettati. I Promessi Sposi indicano una via che potrebbe essere seguita e che potrebbe fornire validi strumenti di riappropriazione e di rinascita morale, quella che si lega indissolubilmente ai grandi valori cristiani, gli unici in grado di sostanziare la ricchezza umana di un popolo geniale e costruttivo, portato a estremizzare la propria libertà, fino a farla diventare un bene personale, facilmente addomesticabile, secondo le proprie convinzioni e aspirazioni. Ripartire significa giocarsi la credibilità con l’esempio, un prezzo molto alto da pagare, ma l’unico che possa restituire il senso della trasparenza e della moralità soprattutto alle giovani generazioni, quelle più esposte ai danni della decadenza. Ritrovare i valori cristiani non significa diventare schiavi della chiesa o peggio retrocedere su posizioni oscurantiste o medievaleggianti, ma capire che possono essere ancora oggi i pilastri sui quali ricostruire la nostra identità, la nostra storia personale, non finalizzata all’abito firmato acquistato in una boutique del centro, ma alla certezza e consapevolezza di scelte fondamentali per la vita dei singoli e della collettività. Frà Cristoforo e l’Innominato ci dimostrano chiaramente quanto sia labile la condizione umana e quanto sia bello riconquistarsi, ritrovando una forma di vita piena e solidale con il prossimo. Il problema di Alessandro Manzoni è quello di dare un senso all’esistenza, di dimostrare che la vita è bella anche quando deve lottare strenuamente per affermare il suo valore. In questo generale risveglio di coscienze sta la grande opera dello scrittore lombardo, preoccupato di una unità che non sia delegata soltanto alla forza delle armi, ma alla convinzione di possedere un’identità e di affermarla per il bene del paese. Uno dei grandi meriti del romanzo è stato quello di incarnare il nuovo, attraverso l’opera intellettuale e morale dei suoi figli, un’opera che si concretizza ed evolve finalizzata al recupero della storia italiana, nella sua straordinaria unicità. In una grande confusione di popoli e di lingue, di leggi e di valori, Manzoni è riuscito a dimostrare che il cambiamento è sempre possibile, anche quando le condizioni politiche, istituzionali e culturali sembrano confermare il contrario. La garanzia della libertà di un paese nasce dalla consapevolezza che tutte le forze in campo debbano dare il loro contributo. Sul fronte dell’unità, nel romanzo, vediamo schierati gl’intellettuali e il popolo. Cultura popolare e cultura pedagogico-letteraria s’incontrano per dare vita alla cultura della ricostruzione. Valori di civiltà si fondono insieme per formare la coscienza di un popolo che anela all’affrancamento dalla schiavitù materiale, morale, politica e militare. L’intuizione manzoniana è un grande insegnamento per la storia italiana attuale, dominata spesso dalla frammentazione, dalla confusione, dalla preponderanza dell’interesse privato, da varie forme di sudditanza. Viviamo in un sistema popolato da forme di associazionismo esasperato, che impedisce di vedere i problemi nella loro dimensione reale. L’effetto di questa frammentazione è l’ingovernabilità, la perdita graduale di quei valori che hanno fatto grande la storia del nostro paese. Ecco dunque l’importanza dell’insegnamento, partire dalla comune volontà che la svolta sia possibile soltanto se gl’italiani sapranno unire le loro risorse e i loro talenti, mettendoli al servizio del paese. Superare una visione individualistica ed egoistica della storia, per ricomporre pezzi di civiltà gettati in pasto a un terribile vuoto esistenziale, dovrebbe essere l’imperativo categorico del nostro tempo. Nella comune forza di volontà sta la grandezza del romanzo, la sua funzione sociale, la sua capacità di rianimare il cuore e la mente della gente, per depositare il suo contenuto di educazione alla civiltà. Manzoni ci induce a riflettere sull’importanza dell’opera letteraria in un periodo dominato da una grande decadenza morale e culturale. Il richiamo alle origini, alla sensibilità umana e letteraria, al valore epico della poesia e del racconto, il desiderio di ritornare al pensiero come forma d’indagine e di rinnovamento, definisce la saggezza di un autore, che scrive sfidando la prigione o la fucilazione, pur di finalizzare la sua intelligenza e la sua opera alla costruzione dell’unità del paese. Lottare per la libertà e per la difesa di valori fondamentali come la patria, la vita, il lavoro, la famiglia significa rendere una grande testimonianza di fede e di saggezza, amare svisceratamente il proprio paese. Viene da domandarsi cosa avrebbe pensato e fatto Manzoni, vedendo migliaia e migliaia di giovani, delegare la propria ricchezza morale e mentale alla droga. Sicuramente non sarebbe stato a guardare, avrebbe fatto di tutto per risvegliare cuore e sentimenti, ripristinando il senso di una letteratura e di una pubblicistica affrancate dal potere del business. Lottare significa sfidare l’ingiustizia in nome della legalità, mettere a repentaglio la propria vita e la propria reputazione in nome degl’ideali, subire la violenza e la segregazione del potere costituito pur di veder trionfare il rispetto del diritto di tutti, in particolare di coloro che soffrono pesantemente le sopraffazioni della prepotenza ideologica e imprenditoriale. Riscoprire la “lotta”, come sistema di redenzione sociale, è una grande cosa, soprattutto oggi, dove tutto soggiace alle leggi della commercializzazione selvaggia. Manzoni ci insegna anche questo, a non aver paura di denunciare i malfattori, coloro che attentano quotidianamente la nostra dignità e la nostra integrità, in nome di un’Italia veramente libera da qualsiasi sorta d’iniquità.
Ci sono sempre più persone che perdono l’orientamento, che si ammalano di sofferenza mentale. Cosa ne pensa?
Paghiamo lo scotto di un cambiamento radicale del nostro modo di essere. Siamo passati da un modello esistenziale con dei valori certi a un altro, privo di qualsiasi certezza, in cui hanno preso il sopravvento la smania di raggiungere il successo e, nello stesso tempo, la paura di non farcela, di diventare degli esclusi. Le trasformazioni industriali di questi ultimi anni hanno dilapidato alcuni dei valori chiave sui quali appoggiavamo le nostre sicurezze, lasciando sul campo forme di emarginazione sociale che, col passare del tempo, hanno determinato varie forme di dissociazione mentale. L’incapacità di gestire un benessere improvviso, stimolante e invadente ha prodotto forme di dipendenza subdola. Credo che un progresso senza un’adeguata preparazione culturale e gestionale del progresso stesso, sia un pericolo gravissimo per la stabilità mentale delle persone, perché il rischio è quello di esserne schiacciati. Alla base di qualsiasi forma di benessere ci deve essere una cultura dell’orientamento, che metta l’uomo e la donna in grado di gestire con equilibrio e ponderatezza i vantaggi che possono derivare da un positivo incremento della ricerca tecnologia e imprenditoriale in genere. Un altro problema che ha generato e che genera dissociazione è la mancanza di attenzione verso tutte quelle discipline che educano la persona umana a una presa di coscienza diretta delle proprie ricchezze, delle proprie capacità, della propria forza creativa. L’uomo non si conosce ancora abbastanza, vive di stereotipi superati, di pubblicità sconsiderate, di una preparazione umana inadeguata al confronto con le stimolazioni della vita moderna. Alla base di una sofferenza mentale, c’è la sofferenza, che porta al proprio interno cause, concause e motivazioni reali che in molti casi vengono sottovalutate. La sofferenza non è solo un fattore fisico, le sue cause sono spesso di natura psicologica, si possono trovare in un vissuto, nella sfera delle relazioni familiari, nella natura stessa del soggetto portatore della sofferenza. La verità è che l’arma più terribile, quella che produce la sofferenza mentale è l’indifferenza, cioè l’assoluta mancanza di attenzione nei confronti di quegli esseri umani che esprimono un bisogno o un disagio, anche in forme violente. Il mondo si allontana dal bisogno, perché è troppo impegnato a realizzare il proprio. Credo che lo strumento più adatto per combattere l’indifferenza sia guardare negli occhi le persone, capire i loro problemi, le loro difficoltà e aiutarle con quella sensibilità che si sposa con l’amore. Non serve pontificare dal pulpito, serve piuttosto suonare un campanello per vedere come sta quella persona, parlare con lei, stabilire un rapporto comunicativo, fare in modo che si senta ancora parte viva di una comunità. Ci sono preti che per una visita a domicilio attendono una telefonata o si fanno desiderare come le dive di Hollywood, perché non sanno più amare sul serio.
Professore, lei scrive per la gloria o per rendere un servizio alla comunità?
Scrivo e basta, perché fa parte della mia normale vita di relazione con il mondo. Tutte le volte che premo la tastiera del computer, lo faccio per educarmi e per educare. L’insegnante non finisce mai di educarsi e di educare, con le parole o con la penna. Poco importa quale sia lo strumento, l’importante è vivere facendo qualcosa per cui valga la pena. Scrivere mi è servito e mi serve tantissimo. Mi ha consentito di sopravvivere all’indifferenza, mi ha permesso di poter esprimere quello che pensavo senza chiedere il permesso al padrone di turno, mi ha consentito di sottopormi a una proficua cura psicoterapeutica, perché la scrittura possiede anche questa grande virtù, quella di permettere a chi scrive di poter condurre fuori le sue gioie e i suoi dolori, le sue frustrazioni e la sua voglia di amare, nella più assoluta libertà morale e mentale. Credo che se non ci fosse stata la scrittura molte persone sarebbero diventate vittime dell’indifferenza, della solitudine, invece il padre eterno ha voluto regalare al genere umano questa bellissima opportunità, perché diventasse strumento di redenzione personale e di educazione alla lettura. Ma non è sempre facile. Scrivere, a volte è fatica, richiede una grande capacità di coordinare tutta quella vastissima gamma di idee, vissuti, sensazioni che animano il nostro cuore e la nostra mente. Mettere ordine non è sempre facile, ma è uno sforzo che vale la pena di essere fatto. C’è poi l’aspetto oggettivo, quello della esternazione al pubblico, un passaggio non sempre facile, perché le case editrici sono blindate, hanno le loro élites culturali, i loro miti, le loro icone. Per uno qualunque che intenda pubblicare i problemi sono enormi. Bisognerebbe essere famosi. C’è pochissimo spazio per chi si propone come indagatore della vita e delle sue risorse, per chi sa scrivere senza scomodare il curatore di turno, per chi crede nel valore educativo della propria missione. Non c’è gloria in quello che si scrive, solo la consapevolezza di aver reso un contributo alla società di cui siamo parte attiva. A volte chi scrive diventa bersaglio preferito di provetti cecchini, i quali aspettano nell’ombra la preda di turno per lanciare il loro dardo avvelenato e scaricare così tutta la loro acredine ideologica. Sono terribili, vivono come segugi pronti a tutto, pur di distruggere chi non la pensa come loro o chi ha avuto l’ardire di fare qualcosa di buono per gli altri. Non amano la bontà altrui, l’altrui voglia di fare del bene scrivendo.
Parliamo dello strumento televisivo…
Le caste della comunicazione sociale si contendono la curiosità degli spettatori, destrutturando sistematicamente ogni capacità di pensare e di sviluppare forme positive di concettualità. Non basta più la storia raccontata nella sua infinita umanità, bisogna alterarla, imbrattarla, screditarla, trasformarla in un raggiro sistematico, in una studiata strategia della tensione emotiva dello spettatore. La tv “spazzatura” imperversa e crea danni ancora più irreparabili della vituperata casta della politica, perché comunica con sistemica periodicità la sua dose di veleni a tutti, indistintamente. E’ molto difficile capire come mai l’utente debba pagare il canone di una televisione che subisce, di fronte alla quale è assolutamente impotente, privato della benché minima forma democratica di giustificata ingerenza nella fase censoria della programmazione. Stabilito che di veramente democratico in questo paese resta ben poco, conviene ripristinare il dialogo familiare, i giochi e i racconti attorno al solidale tepore di una fiamma.
Il progresso, distrugge?
Televisione, telefonino, computer, sono i simboli del progresso, quanto di meglio offre l’attuale tecnologia. Nulla da dire. Il progresso sia il benvenuto. Sarebbe assurdo, infatti, negare l’intelligenza umana e la sua straordinaria evoluzione. L’intelligenza è un dono e come tale va coltivata a fin di bene, in modo che tutti ne abbiano a beneficiare. Quando nasce il problema? Quando il progresso, invece di aiutare l’uomo a emanciparsi dalla schiavitù, lo imprigiona con la scusa di consentirgli il massimo della libertà. Dunque il progresso inganna? Sì, ma non lo fa di proposito, bisogna che l’uomo sia consenziente. Per non essere consenziente, deve possedere una buona dose di intelligenza critica e di spessore morale, altrimenti il rischio è quello di diventare dipendente, un robot nelle mani della scienza. Noi sappiamo quanto sia importante la scienza, ma sappiamo anche che una scienza a briglia sciolte, senza il concorso del buon senso e del timor di Dio, rischia di creare false illusioni e di travolgere i confini del lecito. La televisione non è un mostro, ma rischia di diventarlo se chi la gestisce la usa per manipolare le coscienze, per estorcere la buona fede degli utenti, lanciando messaggi sbagliati. Ed ecco che allora occorre vigilare, fare in modo che diventi comunicatrice di messaggi utili, usando il buon senso. Televisione sì, ma con moderazione e, soprattutto, selezionando la comunicazione. Il telefonino è una grandissima invenzione e la sua poliedricità strumentale consente di ottenere grandi vantaggi sul piano comunicativo, ma deve essere usato con razionalità, senza abusare, altrimenti crea dipendenza e rischia di sostituirsi alla comunicazione, quella vera. Sappiamo benissimo, infatti, che i giovani hanno ridotto il messaggio parlato a una sigla o a una sequenza di lettere in codice. Tutto rischia di diventare virtuale. Ci sono persone che vivono con il telefonino appiccicato all’orecchio: a piedi, in macchina, in pullman, in treno e in famiglia, in una condizione di completa sudditanza psicologica. E il computer? Una straordinaria invenzione, uno strumento che comunica in tempo reale con ogni parte del mondo e che porta il mondo in casa, basta premere un pulsante e muovere il mouse. Nessuno, dico nessuno, avrebbe potuto immaginare un’invenzione così unica e sensazionale nel suo genere, eppure l’uomo ha dimostrato ancora una volta di possedere risorse e talenti di grande efficacia realizzativa. Ma attenzione, perché anche il computer ha i suoi limiti: crea dipendenza, annulla la comunicazione verbale, genera una condizione fisica e psicologica non sempre salutare, quindi va usato senza abusarne. L’intelligenza umana crea e realizza con precisione e rapidità, ma in molti casi il progresso viene venduto nella sua brutale fisicità, senza una filosofia educativa che ne umanizzi e ne finalizzi l’utilità sociale. Manca la mediazione culturale che, nella maggior parte dei casi è demandata ad un foglietto illustrativo privo, però, degli effetti collaterali. Da un po’ di tempo a questa parte la televisione dispensa strategie mafiose, truffe, forme molto sottili di studiata pedagogia delinquenziale, il tutto inserito in una aberrante narrazione convulsiva, celata sotto i panni di una fiction. Fortunatamente non tutte, ma alcune di quelle che irrompono sul palcoscenico televisivo subito dopo pranzo, sono una officina di sperimentazioni assurde che si distribuiscono nelle varie parti dell’organismo, nella psiche in modo particolare, generando irrefrenabili pulsioni. La tresca esce dalla finzione e tende ad incarnarsi, a causa di un procedimento psicologico di immedesimazione dell’io e l’uomo partecipa emotivamente agli eventi come se fossero veri: piange, gioisce, si addolora, soffre, inveisce, urla il proprio disprezzo o il proprio plauso, perché in quel momento fantasia e realtà si fondono in un’unica immagine, portando con sé l’umore dello spettatore. Gioire e soffrire fa parte della vita umana, ma riesce difficile capire come si possa forzare una realtà che già di per sé, nella sua cruda verità, crea tutta una serie di problemi e interrogativi all’animo umano. Credo che il progresso debba andare di pari passo con la civiltà, con il buon senso e con l’educazione, altrimenti diventa un pericoloso boomerang, con effetti indesiderati e imprevedibili. Oggi poi occorre quadruplicare l’attenzione, con tutte le guerre e le violenze in corso. L’immagine continua e sistematica di tragedie che colpiscono le persone in quasi tutte le parti del mondo creano una continua destabilizzazione mentale, che si lega alla sfera emozionale, sottoposta a stress continui, a situazioni che non aiutano a trovare quell’equilibrio necessario per rendere più normale la vita stessa dei cittadini e il loro diritto di poter vedere e ascoltare senza sentirsi continuamente sotto tiro.
Secondo lei, è necessario ritrovare uno stile educativo?
L’uomo si è lasciato prendere la mano ed è diventato schiavo del consumismo, ha perso il gusto di pensare, valutare, riflettere e razionalizzare. Vive “andando al massimo”, senza porsi il problema se quello che fa sia giusto o sbagliato. Vive, spinto da un impulso irrefrenabile, come se dovesse conquistare il mondo, come se tutto dovesse finire all’improvviso, come se la quantità e la diversità fossero gli unici principi o valori di un’esistenza il più delle volte dominata dall’istinto, dal desiderio di non lasciarsi mancare nulla. I giovani crescono imitando, in molti casi senza conoscere a fondo il perché di un’azione, depredando il benessere dei suoi contenuti etici, fisici, biologici e filosofici. L’importante è consumare, rubare il tempo all’esistenza, sprofondare nel piacere temporaneo, lasciarsi cullare dall’illusione che non esistano limiti e che le regole servano solo a limitare la libertà, il più delle volte trasformata in una folle corsa verso l’impossibile. Poco importa se il pianeta sballa, l’importante è non perdere lo sballo del sabato sera. I problemi? Sfide esistenziali illusorie. Forse siamo un po’ tutti ubriachi. La nuova regola è l’ultima invenzione per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto, un modo per tranquillizzare la nostra coscienza. Coscienza, parola che indica consapevolezza, spazio riservato alla catena di montaggio del nostro cervello, centro di elaborazione dati d’alto livello, voce che disturba e snatura la nostra vocazione all’intolleranza. C’era una volta la coscienza, razionale mediatrice d’impulsi, celebrata custode di patrimoni storici, familiari, artistici, affettivi. A lei toccava la prima parola e l’ultima, confidente di pene e di slanci, stimolatrici di dialoghi e confronti. Oggi si agisce sulla base di una vocazione istintuale, per esaurimento di un piacere, per fuggire da tutto ciò che ci induce a meditare e a riflettere. Ecco il vero problema del terzo millennio: il rifiuto di capire se un’azione sia giusta o sbagliata, la finalità delle nostre azioni. La verità è che il nostro mondo interiore è il primo a dover essere bonificato. E’ lì dove l’inquinamento cova le sue follie, dove il diritto ha preso il posto del dovere, dove la morale comune è stata privata della sua connotazione civile e universale, dove il colore perde la sua luce e tutto diventa opaco, incapace di restituire frammenti di speranza. Vivere l’ambiente significa vivere noi stessi, il nostro essere, la nostra dimensione di vita, la nostra coscienza, l’armonia che ci lega alla natura e all’umanità. Non è facile ricostruire un ambiente distrutto dall’incoerenza e dall’inciviltà, dall’odio e dall’indifferenza, dall’interesse economico e finanziario, però è possibile tentare l’unica via percorribile, quella dell’educazione, l’arte di ritrovare dentro noi stessi la forza delle idee, la volontà di realizzarle, il desiderio di una collaborazione che vada oltre i particolarismi di ognuno. E allora non sarà più il mondo di chi sfrutta il proprio fratello, ma l’attivazione di un dialogo e di una dignità che restituiscano alla nazione e al mondo ciò che spetta di diritto. Non si cambia il mondo se non si cambia l’uomo, non si cambia l’uomo se non esistono modelli credibili di società. Tutti dobbiamo fare un passo indietro, ognuno di noi deve assumersi le proprie responsabilità, sviluppando forme di vita compatibili con il ruolo che ci è stato affidato. Non è più un problema di business, ma di stile educativo. Se l’uomo riuscirà a ritrovare se stesso, avrà anche la forza di ricreare l’ambiente che lo circonda, così come madre natura glielo ha consegnato, altrimenti il danno sarà davvero irreparabile e i figli che abbiamo amato e che continuiamo ad amare saranno le nostre vittime predestinate.
Professore, la cultura può essere strumento d’integrazione umana?
La cultura è un grande strumento di emancipazione e di affrancamento dalla servile condizione dell’ignoranza, a patto che sia costruita su basi solide. In questi anni di tecnicismo, di imprenditorialità scientifica, di telematica e di elettronica, l’uomo ha disimparato a guardarsi dentro, a riconoscere la propria dimensione umana, i sentimenti, gli affetti, la vasta gamma di interiorità che lo caratterizza. La cultura ha privilegiato l’informazione alla formazione, la spettacolarità dell’immagine esteriore alla ricerca interiore, il successo rapido e scontato, rispetto a un saggio percorso introspettivo che mettesse a fuoco la capacità di vivere e di pensare, di riflettere e di valutare. Abbiamo assistito a un progresso che ha bruciato l’umanesimo e i suoi valori, favorendo l’insorgere di una illusoria cultura della libertà e della laicità. La cultura classica ha subito un forte declassamento, così come l’educazione civica, pilastro di tutto il nostro sistema educativo. Progresso e civiltà si sono spesso incontrati e scontrati, lasciando sul campo vuoti esistenziali e problematiche tuttora irrisolte. In molti casi l’uomo studia, lavora e produce in modo meccanicistico, individualistico, finalizzando tutto a una mera soddisfazione materiale. La cultura non è più un bisogno dello spirito, il ponte tra il noto e l’ignoto, il desiderio di superare la barriera dell’ignoranza per accedere ad una visione più completa del proprio essere e della realtà che ci circonda, è diventata un opzional che ciascuno determina e usa secondo le proprie personali esigenze. E’ venuta meno la cultura come esigenza interiore, come aspirazione ad approfondire lo spazio mentale ed esistenziale, come rapporto che ci lega alla natura, alla scienza, alla religione, a tutto ciò che amplifica il nostro spazio cognitivo e operativo. Eppure la cultura è un grande integratore, è lo strumento che ci permette di conoscere, apprendere, mediare e comunicare, è la fonte primaria della nostra storia, del nostro essere creature intelligenti, votate alla conoscenza come unica e reale forma di equilibrio esistenziale con il mondo. La cultura religiosa, ad esempio, è quella che ci ha permesso di stabilire un contatto con il trascendente, con quella vocazione soprannaturale che scuote il desiderio delle creature di indagare l’infinito, il rapporto che lega la terra al cielo, la ragione e la fede, lo spirito e la materia. La cultura cristiana ci ha consegnato il grande mistero della salvezza, l’amore come speranza, la sopportazione e la tolleranza come strumenti di rivincita sul male e sulla sofferenza, condizione umana necessaria per poter scoprire l’altra faccia della verità, quella che i più condannano come parte vile della vita umana. Occorre rivalutare la cultura, ma quale cultura? Quella rivendicata dal sistema industriale, tesa alla formazione dell’uomo tecnocratico o quella dell’uomo filosofico, indirizzato alla realizzazione di una umanità consapevole e aperta alla universalità del sapere? La cultura scientifica o quella umanistica? La matematica o il racconto? La cultura della fede o quella della ragione? Certo la cultura non può assolutamente essere imprigionata in una ristretta rete opportunistica, anche se è ormai universalmente riconosciuta l’importanza delle nuove discipline globali, quelle che consentono un inserimento rapido e veloce nell’ambito del sistema relazionale europeo e mondiale. L’uomo, oggi come non mai, avverte la necessità di riappropriarsi della sua identità, di ridare vita e speranza al pensiero e alla sua capacità di creare nuovi sistemi concettuali, di riconsegnare all’anima la sua straordinaria parte di trascendente umanità. Il confronto e l’integrazione con le nuove culture stimola una revisione personale e collettiva, che diventa sempre di più intermediazione, approfondimento, ricerca di una nuova dimensione umana. La cultura, in questo preciso momento, ha la funzione di saldare valori morali, etici, umani, religiosi e politici, tesi a potenziare la comprensione tra i popoli e il dialogo interculturale. La religione cattolica continua ad essere una straordinaria mediatrice culturale, perché favorisce la promozione umana, la comprensione e la conciliazione tra i popoli, il rispetto del prossimo e il dialogo, attraverso l’ecumenismo e la solidarietà sociale. Rappresenta ancora oggi l’affrancamento dalla schiavitù ideologica, il passaggio dalla condizione di subalternità a quella di liberazione e di salvezza.
E’ il caso di rimandare a scuola gli adulti?
Spesso ci chiediamo come mai i giovani siano così arroganti, trasgressivi, maleducati. Forse sono così o lo sono diventati perché nessuno li ha educati o forse perché non hanno trovato quelle corrispondenze educative che si aspettavano, dopo aver trascorso un bel po’ di tempo in famiglia, a scuola, nella società civile. Tutto questo non deve essere una scusante, ma ha inciso e incide sicuramente sui livelli di maleducazione giovanile presenti nei nostri paesi e nelle nostre città. Li abbiamo resi inattaccabili, superprotetti, legittimati sempre. Li abbiamo resi deboli e fragili, facendo loro credere di essere forti e temuti. Li abbiamo confusi con i nostri consumismi, le nostre false aperture mentali. Abbiamo fatto credere loro di essere uomini subito, senza che avessero il tempo di dimostrarlo. Li abbiamo allevati in nuclei familiari pronti a tutto, pur di scrollarsi di dosso responsabilità educative, li abbiamo mandati al massacro con moto di grossa cilindrata, con scooter e macchine costosi e potenti. Abbiamo concesso loro la libertà sessuale, come se il sesso fosse un atto fine a se stesso. Li abbiamo spinti verso l’uso di droghe, tagliando loro ogni speranza in un mondo più umano, bello e felice. Abbiamo raccontato loro che non bisognava rubare, che bisognava essere onesti, che la trasparenza e la lealtà erano delle virtù, che la religione era fede e comprensione, senza tener fede alle parole dette. Li abbiamo traditi facendo loro credere che si poteva ottenere tutto con il denaro, senza spiegare la finalità di un’azione, lo scopo di un atto. Li abbiamo fatti diventare grandi prima del tempo, ma senza quel senso di responsabilità individuale e collettivo che forma il sistema umano delle relazioni. I giovani, i minori in particolare, sanno di avere sempre ragione, ma non sanno cosa sia la ragione e così vivono alla giornata, sprecando le loro vite, quel meraviglioso spazio di umanità che è stato donato loro, perché potessero conoscerne la grandezza. E’ davvero un peccato. Credo che sprecare la vita sia la condanna peggiore. Per questo occorre un atto di coraggio da parte di tutti, sempre che il coraggio esista ancora nel clima di decadenza educativa in cui viviamo.
Secondo lei, esiste ancora l’interiorità?
Per chi è cresciuto nell’ambito della filosofia del trascendente, riesce sempre più difficile conciliare l’interiorità con l’esteriorità, il bisogno di spiritualità, con una radicale tendenza al materialismo. Malgrado tutto, c’è ancora chi cerca l’interiorità in tutte le sue variabili fisiologiche, filosofiche, religiose e cognitive in generale. Sembra che il mondo non si riconosca più, che faccia fatica a rispolverare la propria natura, quell’io che abbiamo insabbiato per renderlo inoffensivo di fronte alla nostra voglia di potere, fama, prestigio, ricchezza. Spesso sentiamo parlare di libertà in senso legislativo e costituzionale, come regola ferrea di un codice di comportamento sociale, in realtà l’essere umano trova la vera libertà dentro di sé, nel proprio cuore, nella propria mente, nell’anima, nell’intelligenza, nei suoi affetti. E’ come se si domandasse di nuovo chi è, che senso ha la sua vita, se l’esistenza ha un termine materiale o se prosegue in una corrispondenza ideale con l’Aldilà. Ed ecco che scopre il desiderio della comunicazione verbale e scritta, la voglia di raccontarsi, di relazionarsi, un rinnovato desiderio di purezza interiore. Molte persone, trovandosi di fronte alla propria interiorità, rimangono mute e intolleranti. L’interiorità è una parte straordinaria della natura umana, talmente straordinaria che è persino capace di compiere miracoli. E’ la nostra essenza, uno spazio riservato nel quale troviamo noi stessi, il nostro bisogno di pensare e ragionare, di recuperare l’autenticità del nostro essere creature. L’interiorità è ciò che ci contraddistingue, è ricerca e, proprio per questo, ha bisogno di qualcuno che funga da ponte tra lei e il mondo esterno. Non tutti sono consapevoli di possederla e quanto sia importante nella rigenerazione materiale e spirituale dell’essere umano. Occorre educare al riconoscimento della propria interiorità, come punto di partenza per una riconsiderazione in chiave antropologica della natura umana. L’interiorità non è una fuga verso l’interno, ma il bisogno di ricreare, riaffermare, riformare un meccanismo che, col passare del tempo e degli eventi, ha perso via via la coscienza di sé e del mondo esterno. Quanto sia importante, nella società di oggi, riflettere e meditare, prima di agire, lo dimostra la grande attenzione che l’uomo ripone nelle discipline rigenerative del corpo e della mente. Viviamo un periodo di profonda crisi d’interiorità e d’identità. Credo che anche la politica abbia un estremo bisogno di interiorità, di riscoperta e di riappropriazione. Conviene un po’ a tutti compiere un viaggio a ritroso, accompagnati dalla forza della ragione umana e dal coraggio della fede cristiana, per capire dove abbiamo sbagliato e per ritrovare di nuovo la forza di ricostruire un mondo a misura d’uomo, fondato sulla giustizia e sulla legalità.
Cosa pensa del maschilismo che alligna nella società?
E’ una forma mentale che fatica a scomparire, perché l’educazione non trova spazio proprio dove l’insegnamento dovrebbe incontrare i suoi principali pilastri, la famiglia e la scuola. Non dobbiamo mai dimenticare che la vita prende forma non per caso, ma soprattutto grazie a chi è deputato a spiegare la storia delle nostre origini, a come si sono affermati certi modi di dire o certe modalità di comportamento, spiegare, parlare, insegnare, far capire, far riflettere, sono tutti passaggi obbligati per modificare un sistema sociale in molti casi sbagliato, incapace di far crescere una popolazione con la convinzione che l’insegnamento dell’educazione civica sia davvero fondamentale nella costruzione di una società che sappia rispettare, capire, conoscere, comprendere e costruire una società dove tutti si sentano considerati, amati e stimati per quello che fanno e per come lo fanno, indipendentemente se maschi o femmine. E’ stato dimostrato che il maschilismo genera disumanità, destabilizzazione, maleducazione, incapacità di riconoscere i valori che stanno alla base di una sana ed evoluta democrazia. Ciò che realmente conta nella vita è la qualità dell’impegno che ciascuno mette nelle cose che fa, la società diventa realmente civile quando pone tutti sullo stesso piano, senza discriminare. Viviamo in una società molto sbagliata, dove le donne pagano lo scotto di anni e anni di sudditanza al potere del maschio, un maschio che ancora oggi in molti casi dispone della vita degli altri con il massimo dell’arroganza e della stupidità umana. I femminicidi dimostrano quanto la barbarie abiti ancora nelle nostre comunità e quanto sia ancora difficile insegnare che la vita è uguale per tutti e che non esistono predestinati. La vita è un dono meraviglioso e lo è per tutti uomini e donne. I maschi non dovrebbero mai dimenticare che la vita che loro hanno è stata partorita da una donna che è diventata madre e che li ha allevati con tutto l’amore del mondo, immaginando che un giorno le loro tenerezze e il loro amore sarebbero stati ripagati con grande affetto e umanità. Le differenze, se di differenze possiamo parlare, stanno nel modo con cui le persone, siano essi maschi o femmine, sanno gestire il loro livello di umanità, la loro capacità di saper dimostrare con l’impegno e l’intelligenza quanto sia bello e importante concorrere al benessere di una società che, proprio per questo, può e deve diventare ancora più civile.
Il diritto, è ancora un bene fondamentale del cittadino?
Nella Carta Costituzionale si parla di diritti come di beni che definiscono la natura stessa della dignità e della legalità umane: il diritto al lavoro, allo studio, alla cittadinanza, alla libertà di parola e di pensiero, alla libertà di stampa, ma quante persone, oggi, sanno valutare il significato o l’essenza di un diritto? Quanti sanno distinguere un diritto da un dovere? Si assiste a un progressivo, ma inesorabile svuotamento di questi pilastri della democrazia italiana. Tutto è diventato possibile, viviamo l’epoca della possibilità come fenomeno giustificativo di un’azione o di un atto, l’epoca dello svuotamento legale dell’autorità come forma di promozione e di organizzazione sociale. L’autorità sopravvive come icona, come simbolo, ma non ha più forza decisionale, non riesce a collocarsi in un mondo dominato dalla forza economica del potere. La coscienza del diritto, che ha sancito la nascita del nostro stato nazionale, elevandolo al rango di democrazia europea, è sprofondato nell’arbitrarietà, perdendo la sua forza determinante. Col passare del tempo il diritto è diventato un ricatto, un assoluto scevro da ogni legame col dovere, è stato completamente svuotato della sua energia morale, del suo livello spirituale, della sua dimensione umana, per ridursi al ruolo di pezza giustificativa per sancire le manipolazioni umane. Siamo cresciuti in una realtà che ha perso di vista la sua storia, la sua unità, la forza dei suoi valori e che si è via via lasciata irretire dalla potenza corruttrice del denaro, eludendo la sacralità del diritto e quella del dovere. Oggi l’uomo agisce sulla base di bisogni istintivi, di stereotipi, di consolidate omonimie, eludendo ogni forma di autorità morale. Il nostro modo di vivere è governato dalle cose, è subordinato alla materialità, è dominato dall’emulazione, dall’apparenza, abbiamo emarginato il pensiero come strumento di elaborazione e conoscenza, lasciando via libera alle forme più sfrenate di edonismo. Tutto è in funzione del benessere materiale, tutto viene concepito in ordine al piacere. La risposta deve essere gradita e immediata. La nostra coscienza ha sradicato il senso dell’indefinito, la ricerca d’identità come strumento di riappropriazione, l’espressività creativa come momento di auto gratificazione personale. Il diritto alla vita è diventato uno strumento nelle mani di gente senza scrupoli, pronta a tutto pur di soddisfare i propri bisogni materiali. E’ tempo di ridefinire il concetto di comunità, d’identità della persona umana, di legalità, di legge, di diritto e di dovere. Occorre ripartire dalla coscienza individuale e da quella collettiva, per ripristinare la fiducia nelle istituzioni, nelle norme, negli uomini e donne che le rappresentano. Uno dei diritti fondamentali è quello alla sicurezza, un diritto che non trova più risposte adeguate né da parte delle leggi né da parte degli uomini che dovrebbero avere il compito di farle rispettare. Una società che vive nella paura non è più una società democratica e apre il campo a barbarismi di ogni genere, che portano inevitabilmente alla dissoluzione dell’ordine democratico. Rafforzare il diritto significa educare il cittadino a vivere dignitosamente la sua dimensione esistenziale, facendo riemergere l’educazione di un paese.
Cosa significa essere cattolici, oggi?
Il mondo cattolico sta vivendo una delle pagine più travagliate della sua storia. In molti casi non è più un punto di riferimento, le sue verità soffrono di una libertà che è stata trasformata in arbitrarietà e le sue convinzioni rischiano di frantumarsi in una miriade di pseudoverità condotte con abile strategia da provetti strateghi della demagogia speculativa e politica in generale. L’evoluzione tecnologica, un eccesso di consumismo, la dilatazione irrazionale della libertà, la formazione di morali individuali, la dissacrazione del concetto di sacralità, la mancanza di una definizione dei contenuti del progresso, un eccesso di superomismo, la relativizzazione a scopo personale delle verità di fede, hanno generato malesseri sociali e cognitivi che in molti casi svuotano di contenuti e di finalità l’azione umana, riducendola a puro meccanicismo tecnologico. Il mondo cattolico ha perso la sua unità, si è arroccato in una miriade di piccoli arcipelaghi nei quali coltiva la sua visione personalistica della verità, adattandola via via al proprio egoismo, ai propri bisogni e alle proprie necessità. E’ diviso sulla visione politica delle cose, sul giudizio etico rispetto ai grandi temi correnti, ha adottato sistemi comportamentali molto personali, ha adottato un sistema di tolleranza che confluisce spesso nel relativismo e nel soggettivismo, in molti casi non è più in grado di proporre modelli certi e conclamati. Tutto questo non per mancanza di efficacia delle sue spinte storiche e dottrinali, ma a causa di incertezze e ambiguità coltivate per arginare fenomeni degenerativi. Quale il risultato? Gli effetti collaterali di una progressiva disgregazione hanno generato danni irreparabili e non sarà facile ricostruire ciò che l’uomo ha distrutto in virtù di una malsana vocazione all’egoismo. Il clima storico culturale è molto simile a un guazzabuglio di comportamenti contrastanti nei quali si esalta l’edonismo come massima forma di espressione. Il piacere inteso nella sua esaltazione pagana sembra aver dirottato ogni forma di razionalità e di fede, fermo restando che la situazione attuale riveli in tutta la sua fragilità gli errori commessi. Nonostante questo calo d’autorità, la Chiesa resta il punto fermo della nostra azione educativa, la custode dei valori sui quali è stata costruita la nostra storia di uomini e di comunità. Mai come nei momenti crisi, quelli in cui l’uomo, dopo aver provato tutto, si accorge di non essere appagato, insorge la volontà di una ricerca che getti un ponte tra la terra e il cielo, tra il materialismo corrente e il bisogno di spiritualità, tra la schiavitù dell’immanenza e l’anelito alla trascendenza, al bisogno di dare risposte più adeguate ai grandi interrogativi esistenziali della storia. Ed ecco che il Vangelo di Gesù Cristo riconsegna le nostre umane fragilità alla speranza e la fede torna ad essere la risposta alle frustrazioni e ai vuoti esistenziali della nostra vita. Quando gli esseri umani non trovano più soddisfazione alla loro vocazione materiale, improvvisamente sentono il desiderio di ricompattare quella parte di sé che hanno delegato ad altro e riscoprono la sostanziale bellezza di valori come l’amore, il perdono, la pace, il rispetto, la fede, la preghiera. Dopo l’ondata di piena del rumore arriva il desiderio di vivere la stagione della ricerca interiore in un clima di religioso silenzio.
Come giudica il silenzio?
Il silenzio è uno dei grandi valori che il mondo ha sottovalutato e, in molti casi, annientato. E’ condizione essenziale per restituire spazio alla nostra spiritualità, voce che richiama all’interiorità, al desiderio di rivisitare quella parte di noi che giace nascosta e che attende di essere portata alla luce. Il cristiano ha trascurato la cultura del silenzio, la cultura della meditazione e della riflessione, quella che permette al nostro io di esprimersi in tutta la sua completezza umana e spirituale, l’ha relegata ad un posto di secondo piano, favorendo in certi casi l’affermazione del rumore come forma di conciliazione con le esigenze di una società tecnologica in evoluzione, un modo per dimostrare che l’educazione è progressista, insegue il benessere in tutte le sue forme e i suoi stili, ma in questo modo l’educazione ha perduto la sua capacità di riconoscersi e di riconoscere, è diventata trasgressione, confusione, desituazione, anarchia. Non sempre il voler dimostrare a tutti i costi di essere al passo coi tempi è la soluzione, in molti casi è più efficace essere molto fermi nel difendere quelle verità che non temono il giudizio della storia, perché sono esse stesse la storia, portando nel loro grembo il carattere dell’universalità. Recuperare la cultura del silenzio è un esercizio che deve essere coltivato e promosso con grande determinazione nella famiglia, nella scuola, negli oratori, in tutte le agenzie educative e nella società civile. E’ una grande campagna di riconciliazione con la vita che deve essere portata avanti dal mondo cattolico con grande forza e coraggio.
Cosa significa recuperare il senso dell’eternità?
Recuperare il senso dell’eternità non significa adottare la precarietà come forma di vita, ma semplicemente attribuire alla vita un significato molto più ampio e vivo, che va ben oltre il sistema terreno degli eventi. Occorre ribadire con forza i significati veri e profondi delle cose, il fine e lo scopo delle nostre azioni, essere testimoni sempre, in ogni momento della vita, esserlo con grande determinazione e con grande coraggio, anche quando la professione di verità comporta l’essere controcorrente o rischiare di dover affrontare il giudizio severo dell’altro.
Parliamo dei cattolici e della politica. Come vede questo tipo di apparentamento?
Dopo la frantumanzione della Democrazia Cristiana ad opera della magistratura milanese, il mondo politico cattolico ha intrapreso percorsi differenziati sia sul piano del posizionamento partitico sia su quello dell’interpretazione politico-amministrativa. Abbiamo assistito alla nascita di nuovi partiti d’ispirazione cattolica, eredi in parte della testimonianza politica della vecchia DC, a movimenti che hanno assunto l’investitura cattolico-liberale e ad alleanze di cattolici con forze ideologicamente opposte alla cultura politica cattolica. I valori che avevano caratterizzato l’unità politica del mondo cattolico sono passati via via al vaglio di una sofisticatissima azione critico/diplomatica, con conseguenze negative per la loro sostanziale indissolubilità. Un eccesso di intermediazione ha creato una grande rete diversificatoria, con tutti gli effetti collaterali del caso: perdita di forza contrattuale del mondo cattolico, disorientamento e confusione da parte di un elettorato sempre più incapace di identificarsi, di ricomporre una cattolicità politica sulla base di idealità comuni, progressiva frantumazione della cultura politica cattolica, incapacità di dare risposte ferme e solidali su temi e problemi di natura etico-morali, difficoltà di esprimere soluzioni ideologico/politiche convergenti, contrapposizioni e progressiva disaffezione dei cittadini nei confronti della politica. La cultura politica cattolica ha perso la sua tradizionale ispirazione cristiana, lasciandosi in molti casi trascinare da varie forme di laicismo. Ha via via sostituito la politica del servizio, generando sfiducia in quei cattolici che hanno sempre visto nell’azione politica la realizzazione temporale dell’ispirazione cristiana della vita. E’ venuto a cadere l’esempio come testimonianza viva dell’azione politica. Il costume stesso della politica è decaduto vertiginosamente, lasciando sul campo retori poco credibili e inaffidabili. La politica cattolica non ha valorizzato il merito acquisito sul campo, ha privilegiato la forma rispetto alla sostanza. Uno dei limiti della politica cattolica è stato quello di non aver approfondito l’aspetto culturale delle problematiche in corso, lasciandosi spesso anticipare o prendere in contropiede da chi ha fatto della cultura, anche quella profana, un’arma da promuovere a livelli elettorali. La cultura amministrativa ha spesso privilegiato gli aspetti tecnicistici, trascurando la dimensione educativa e non si è esercitata un’educazione alla comunicazione politica. Molto spesso la scelta dei rappresentanti popolari non ha tenuto conto dei valori della persona, è stata in molti casi una scelta di comodo o di interesse. E’ mancata una formazione all’esercizio della gestione della cosa pubblica. Il mondo cattolico ha evidenziato tutta la sua carenza organizzativa, propositiva, innovativa. Nella maggior parte dei casi la voce della Chiesa è stata confinata in una formale presa d’atto, in una ufficialità quasi di maniera, messa in campo per dovere gerarchico, non ha incontrato l’attenzione sufficiente e necessaria per essere trasformata in una grande ed efficace proposta realizzativa. Le potenzialità umane e cristiane, i talenti, le risorse, la storia, la straordinaria funzionalità evangelica sono state subordinate alla dimensione temporale, ad un egoismo che in molti casi ha spento ogni forma di arricchimento e di attenzione verso la naturale cultura degli eventi. Dunque siamo stati spettatori di una caduta verticale del grande baluardo politico cattolico, con conseguente ascesa di un “liberalismo” che ha consentito ogni forma di trasformazione della libertà, dei valori, delle verità, della cultura e della tradizione del nostro paese. Un’imprenditorialità scriteriata ha sconvolto la vita stessa dei cittadini, assoggettandola al consumismo e disattivando progressivamente l’attività del pensiero, diventato suddito dell’immagine, della studiata vocazione capitalistica all’avere. La verità è che la progressiva negazione della spiritualità ha innescato un materialismo a tutto campo, artefice della maggior parte dei malesseri che assillano oggi la natura umana.
La pedagogia svolge ancora un’importante azione educativa?
La pedagogia ha sempre avuto un’importante azione educativa. Il problema vero è che l’educazione è stata cancellata dal manuale della politica, perché ritenuta troppo pericolosa e invadente, tanto è vero che di educazione se ne parla pochissimo e i risultati sono davanti agli occhi di tutti: politici che si insultano, che si offendono nei modi più irriguardosi, che dimostrano il loro disprezzo per il mondo esterno, quello che ha permesso loro di guadagnare cifre astronomiche in cambio di indecenti rappresentazioni teatrali. In molti casi il politico non parla per il popolo, ma a se stesso. La sua più grande ambizione è quella di dimostrare la propria forza. La pedagogia insegna che la forza è una virtù e che, come tale, va coltivata con grande saggezza, perché possa diventare strumento di redenzione morale, sociale, economica ed educativa. La politica ha perso di vista l’uomo, gli ha anteposto il successo, il prestigio, la fama, la gloria, il potere, la guerra, la violenza, valori o pseudo valori destinati a svuotare l’essere umano della sua più nobile essenza. Lancia anatemi a destra e a sinistra, ma non costruisce nulla di solido e di duraturo nel tempo, regala illusioni, ma ricama le sue utopie sulla sabbia. L’educazione richiama l’uomo all’assunzione di stili e comportamenti di vita rispettosi delle creature, pone al centro il tema della ricerca interiore come momento di riflessione e di verifica, stimola la critica e l’autocritica, determina l’evoluzione di dinamiche introspettive, il tema dell’interazione e dei rapporti interpersonali, propone la ricerca e la sperimentazione come momenti di approfondimento educativo, studia strategie compatibili, cause ed effetti, crea le condizioni di un ripensamento di sistemi dati per scontati.
Una democrazia matura dovrebbe avere dentro di sé una forte vocazione pedagogica?
Una democrazia matura dovrebbe avere dentro di sé una forte vocazione pedagogica, cioè la volontà di sottoporsi a giudizio educativo, di verificare costantemente i propri metodi, i propri sistemi, le proprie certezze. L’educazione è un processo dinamico e come tale soggetto a strategie e soluzioni che richiedono lo spazio del confronto, del dialogo e della discussione costruttiva. La politica è, per sua natura, un grandissimo strumento educativo, forse il più nobile e il più grande, perché riassume in sé i bisogni e le necessità dell’essere umano, ma sembra che sia diventato più facile far finta che non esista, per dare il via libera all’egoismo umano, intollerante di ogni forma di controllo. I grandi politici sono stati dei grandi educatori, hanno insegnato ad amare l’impegno, la fatica, la patria, la scuola, la famiglia, la fede, l’onestà. Gran parte della storia e della politica risorgimentale e quindi dell’unità nazionale è fondata sui grandi temi e valori dell’educazione. Poeti, scrittori, patrioti, politici e religiosi si sono sentiti responsabili di un profondo rinnovamento morale del nostro paese, adottando la funzione educativa come unica e vera risorsa del cambiamento. Bisognava educare il popolo, fornirgli gli strumenti necessari perché si rendesse conto da che parte stava il futuro dell’Italia. Il confronto politico aveva una forte base pedagogica e su quella ha fondato la sua unità e, al tempo stesso, la sua diversità. Credo che oggi manchi la vocazione a rieducarsi, a ritrovare le motivazioni che animano la parte più nobile dell’umanità. Il mondo si è appiattito, gli uomini si sono appiattiti, tutto viaggia sull’onda dell’interesse di parte e il benessere individuale prevale su quello collettivo. E’ tempo di trovare uomini dotati di fede e di coraggio, che sappiano educare di nuovo una società privata di motivazioni e di slancio vitale.
Come mai uomini nuovi?
Sono gli uomini nuovi, che hanno la capacità di orientare positivamente il popolo, perché ne fanno parte, non hanno vissuto troppo a lungo comodamente seduti sulle poltrone del potere, lontani dalla viva voce della gente, quella che, a sua volta, educa. Conoscevo un pedagogista che percepiva gli umori della politica parlando con la gente comune, quella che s’incontra agli angoli delle vie, nelle piazze, durante le file, nei bar. Gli esseri umani hanno sempre mille cose da raccontare, problemi, gioie, dolori e attese. In ognuno c’è un problema da risolvere, una questione aperta. Se trovano ascolto e comprensione si sentono rispettati nella loro dignità, nel loro modo di essere cittadini. La politica non deve, nel modo più assoluto, creare reazioni o peggio ancora rivoluzioni, deve essere un grande approdo di necessità, bisogni e convergenze di dialoghi e confronti. Confrontarsi non vuol dire armare macchine da guerra per dimostrare chi è il più forte, ma semplicemente collaborare per costruire insieme il futuro della società. In un sistema democratico vero, fondato sul rispetto delle regole e sulla solidarietà sociale e spirituale, non ci possono essere giovani che distruggono ciò che è stato costruito e comprato con fatica. La violenza ha una sua radice storica e ideologica, ma in molti casi è il frutto di stili e comportamenti che non tengono conto dell’etica umana. Compito della pedagogia politica è quello di risolvere alla radice tutto ciò che genera odio e rancore, perché gli esseri umano imparino a convivere civilmente. Occorre fare in modo che tutti siano considerati cittadini dello stato, testimoni di una costruzione collettiva della quale ciascuno si senta operatore responsabile. Le persone devono imparare ad amarsi e ad amare il proprio paese. In questo cammino di avvicinamento alla democrazia vera, i politici hanno un ruolo fondamentale, proprio come quello dell’arbitro che dirige una partita di calcio. Giustizia e legalità sociale devono essere i cardini della nuova società e la ricchezza deve essere al servizio della povertà, in un quadro di radicale trasformazione. Credo di poter affermare che il lavoro sia la condizione essenziale per una svolta decisiva. Per questo la cultura non deve spaccare le coscienze, mettendole le une contro le altre, ma deve fare in modo che si sentano coinvolte in un forte impegno di umana redenzione”.
Chi è il buon politico?
Il buon politico è colui che sa ascoltare tutti, che si confronta quotidianamente con la realtà e con il mondo che lo circonda, è colui che si interroga per sapere se agisce secondo i canoni del rispetto comunitario. Non giova al politico urlare, sbeffeggiare, sfidare, oltraggiare, aggredire, perché la sua disonestà riverbera su chi l’ascolta e genera turbamento. Si parla tanto di comunicazione e da più parti si afferma che la nostra società sforni troppi comunicatori, la verità è che gli aspiranti sono tanti, ma sono veramente pochi coloro i quali fanno della comunicazione un’arte per cambiare in meglio le condizioni di vita delle persone. Chi si affaccia alla politica deve farlo in punta di piedi, con la consapevolezza di avere un grandissimo compito da svolgere, un compito che è innanzitutto e soprattutto, servizio reso, con amore, ai cittadini.
Professore, la cultura è uno strumento di emancipazione?
La cultura è un grande strumento di emancipazione e di affrancamento dalla servile condizione dell’ignoranza, a patto che sia costruita su basi solide. In questi anni di tecnicismo, di imprenditorialità scientifica, di telematica e di elettronica, l’uomo ha in parte disimparato a guardarsi dentro, a riconoscere la propria dimensione umana, i sentimenti, gli affetti, la vasta gamma di interiorità che lo caratterizza. La cultura ha privilegiato l’informazione alla formazione, la spettacolarità dell’immagine alla ricerca interiore, la vocazione al successo rapido e scontato, rispetto a un saggio percorso introspettivo che metta a fuoco la capacità dell’essere umano di vivere e di pensare, di riflettere e di valutare. Abbiamo assistito a un progresso che ha bruciato l’umanesimo e i suoi valori, favorendo l’insorgere di una illusoria cultura della libertà e della laicità. La cultura classica ha subito un forte declassamento, così come l’educazione civica, pilastro di tutto il nostro sistema educativo. Progresso e civiltà si sono spesso incontrati e scontrati, lasciando sul campo vuoti esistenziali e problematiche tuttora irrisolte. In molti casi l’uomo studia, lavora e produce in modo meccanicistico, individualistico, finalizzando tutto a una mera soddisfazione materiale. La cultura non è più un bisogno dello spirito, il ponte tra il noto e l’ignoto, il desiderio di superare la barriera dell’ignoranza per accedere a una visione più completa del proprio essere e della realtà che ci circonda, è diventata uno strumento che ciascuno determina e usa secondo le proprie personali esigenze. E’ venuta meno la cultura come esigenza, come necessità, come aspirazione ad approfondire il proprio spazio mentale ed esistenziale, il rapporto che ci lega alla natura, alla scienza, a tutto ciò che amplifica il nostro spazio operativo. Eppure la cultura è un grande integratore, ci permette di conoscere, apprendere, mediare e comunicare, è la fonte primaria della nostra storia, del nostro essere creature intelligenti, votate alla conoscenza come reale forma di equilibrio esistenziale con il mondo. La cultura religiosa è quella che ci ha permesso di stabilire un contatto con il trascendente, con quella vocazione soprannaturale che scuote il desiderio delle creature di indagare l’infinito, il rapporto che lega la terra al cielo, la ragione e la fede, lo spirito e la materia. La nostra cultura cattolica ci ha consegnato il grande mistero della salvezza, l’amore come speranza, la sopportazione e la tolleranza come strumenti di rivincita sul male e sulla sofferenza, la sofferenza stessa come condizione umana necessaria per poter scoprire l’altra faccia della verità, quella che i più condannano come parte vile della vita umana. Occorre rivalutare la cultura, ma quale cultura? Quella rivendicata dal sistema industriale, tesa alla formazione dell’uomo tecnocratico o quella dell’uomo filosofo, più teso alla realizzazione di una umanità consapevole e aperta alla universalità del sapere? La cultura scientifica o quella umanistica? La matematica o il racconto? E la poesia? Certo la cultura non si può assolutamente imprigionare in una rete ristretta, anche se riconosciamo l’importanza delle nuove discipline, quelle che consentono un inserimento rapido e veloce nell’ambito del sistema relazionale europeo e mondiale. L’uomo di oggi avverte la necessità di riappropriarsi della sua identità, di ridare vita e speranza al pensiero e alla sua capacità di creare nuovi sistemi concettuali, di riconsegnare all’anima e allo spirito la loro straordinaria parte di trascendente umanità. Il confronto e l’integrazione con le nuove culture è soprattutto un fatto di intermediazione culturale, che richiede una grande capacità di conoscere e approfondire costumi, tradizioni, lingue e religioni e di stabilire confronti e relazioni che favoriscano il rispetto e la conoscenza reciproca. La cultura, in questo preciso momento, ha la funzione di saldare valori e principi che potenzino l’attività politica degli stati, impegnati a collaborare per creare le condizioni di un mondo fondato sul dialogo interculturale, sulla necessità di camminare uniti, mettendo a disposizione di una rinnovata identità tutta la forza propositiva della propria storia, anche di quella meno suggestiva, perché il nuovo mondo possa dimostrare quanto sia importante sapersi leggere e valutare, cercando di dare risposte che abbiano il peso di una straordinaria capacità di unire e di formare generazioni capaci di offrire al mondo uno sguardo più vero e più ampio e soprattutto di far comprendere l’importanza di saper lavorare insieme, mettendo sul campo tutto quello che è necessario per ristabilire un ordine creativo di grande stabilità.
La comunicazione può risolvere alcuni problemi?
Uno dei principali problemi dei giovani è la solitudine, la mancanza di comunicazione familiare e sociale, legata a molteplici fattori: il lavoro di entrambi i genitori, la mancanza di riferimenti e di modelli stabili sul territorio, compensazioni materiali che non aiutano le attività dell’intelletto, carenza di stimolazioni e di creatività, eccesso di egoismo. In molti casi i nostri ragazzi non sanno con chi parlare e come parlare, perché non trovano spazi comunicativi sul loro cammino, persone, luoghi accoglienti e stimolanti. I genitori stessi, a volte, non hanno tempo e preparazione sufficienti per affrontare i problemi dei propri figli, i quali cercano compensazione in una approssimativa vita di gruppo. In molti casi diventano schiavi della televisione e del motorino. Trascorrono intere giornate senza obiettivi e mete precise, senza qualcuno che si occupi dei loro piccoli e grandi problemi. Viviamo in una società che è complessivamente individualista, protesa alla conquista del proprio spazio di benessere, una società che pensa molto a se stessa e molto poco al mondo giovanile. E’ assolutamente necessario riattivare la comunicazione come strumento d’intesa, di comprensione e di libertà vera. L’uomo deve imparare ad essere un conoscitore dell’animo umano. Ogni sguardo, segno, gesto comunicano uno stato d’animo. Occorre essere pronti a intuire, capire e valutare. Le parole, in alcune circostanze, sono un importante veicolo terapeutico. Spesso i problemi risiedono nella sfera affettiva e un approccio comunicativo empatico potrebbe evitarne tanti, favorendo il livello della comprensione e la disponibilità al dialogo. La società in cui viviamo emargina, segrega, tende a ridurre lo spazio comunicativo. I giovani hanno sempre più bisogno di qualcuno/a che li ascolti, che risponda alle loro inquietudini esistenziali e che li orienti verso esperienze cognitive di se stessi e della realtà che li circonda. La comunicazione deve aiutare i giovani a scoprire le loro ricchezze interiori. Il sorriso produce effetti estremamente positivi. La comunicazione non deve creare inutili allarmismi, turbative individuali o collettive, deve proporsi come strumento di riflessione e di verifica, di approfondimento e di confronto. E’ strumento d’indagine e di conoscenza, come tale richiede tempi e spazi, perché il messaggio si trasformi in consapevolezza stimolativa. Deve avere il tono dell’accoglienza, della tolleranza e dell’indagine maieutica. Solleva l’animo dalle preoccupazioni, libera la mente da incertezze e dispersioni, consegna una nuova visione del mondo. La comunicazione deve essere chiara. semplice ed efficace, soprattutto deve arrivare al cuore, per questo non deve essere aggressiva, per evitare stati d’ansia, tremori, paure e stati di nervosismo. Deve orientare all’amore per il dialogo, la discussione e la ricerca. La comunicazione riconsegna quei campi affettivi che la società del benessere e delle tecnologie avanzate ha tolto ai giovani.
Socializzare, quindi, aiuta?
Socializzare significa entrare in rapporto, gettare un ponte tra le persone, in modo tale che possano incontrarsi e collaborare positivamente tra loro. E’ l’espressione più bella della libertà, di una libertà che finisce dove inizia quella degli altri, una libertà educata, che aiuta il cittadino a prendere coscienza della sua dimensione comunitaria, di essere parte integrante di un tutto che si chiama umanità. Stabilire rapporti comunicativi con le persone è una tappa fondamentale del cammino, tappa che arricchisce il cuore e la mente di nuove idee, stili e comportamenti. Perché ciò si verifichi è necessario saper ascoltare e capire gli altri. Purtroppo viviamo in una società che non lascia il tempo di pensare, di riflettere, di organizzare il pensiero e, molto spesso, ci coinvolge in una terribile forma di autismo nella quale riusciamo a malapena ascoltare la parte più superficiale di noi stessi. Dalla socializzazione può nascere un’amicizia stabile e proficua, uno scambio positivo di riflessioni e conoscenze che maturano e orientano la persona in forme armoniche ed equilibrate. Qualcuno afferma che socializzare significa amare, aprire il proprio animo ad un rapporto interattivo con la realtà che ci circonda, sviluppando la capacità di accettarsi e di saper accettare. Socializzare è importante perché sviluppa la capacità di comprensione e permette alle persone di capirsi. Nelle famiglie, spesso, si creano situazioni di conflitto e di incomunicabilità, per questo occorre saper esprimere una socializzazione che rompa il muro dell’incomprensione con modalità adeguate. Socializzare diventa fondamentale oggi, in una società che assume sempre di più i connotati della multietnicità, perché favorisce l’interazione tra soggetti provenienti da culture diverse. In questo modo emergono la tolleranza, l’accettazione, l’accoglienza e il rispetto reciproco. Spesso nelle famiglie e nelle istituzioni sociali non si parla, non si dialoga, non si discute per paura di manifestare quello che si è e ciò che si pensa realmente. Ognuno vive nel proprio mondo, pensando che sia il migliore dei mondi possibili. In molti casi la mancanza di socializzazione è prodotta da forme di consumismo sfrenato, da una società proiettata alla massima soddisfazione dei bisogni individuali. Nelle famiglie c’è più libertà, ma il problema vero è che le persone non sono preparate a viverla, così si riduce tutto ad una confusa ricerca di benessere che esclude la dimensione umana e creativa dell’essere umano.
Professore, parliamo di ambiente.
Parlare di ambiente significa prendere coscienza di una realtà vitale per la sopravvivenza dell’uomo, vivere la materia come atto d’amore, patrimonio mondiale d’umanità e di vita, che presuppone un forte contenuto educativo. L’ambiente, infatti, non è solo un problema politico, è soprattutto un problema di educazione, di educazione politica che, come tale, investe l’umanità e i suoi livelli di responsabilità. Oggi assistiamo, dopo anni di negligenze, alla mondializzazione del fenomeno, al tentativo di formare una coscienza universale, impegnata nel delicatissimo compito di restituzione di dignità. Individualismo, egoismo, interesse economico, esasperato sistema di sfruttamento e confusione di ruoli istituzionali hanno generato gravissimi fenomeni di prevaricazione ambientale, favoriti da una disorientante burocrazia, dalla mancanza di leggi mirate e da adeguate sanzioni risolutive. L’uomo ha confuso, volontariamente o no, la compatibilità di questioni che avrebbero dovuto essere affrontate con strumenti adeguati e a tempo debito. Ancora oggi ci sono stati che non accettano la partecipazione a un impegno ambientale, universale. C’è ancora chi insegue forme di capitalismo esasperato, marciando su cittadini che muoiono di cancro e di malattie legate alla destabilizzazione dell’ecosistema. Manca una morale politica comune, nella quale l’uomo riconosca la propria limitatezza, la necessità di stabilire un dialogo serio con l’ambiente nel quale esprime la propria esistenza. Per molti anni si è confuso il progresso con la civiltà. La faziosità dottrinale ha prevalso sulla propositività politica, limitando di fatto la democrazia delle idee, il libero confronto, l’aspirazione costruttiva di cittadini e di istituzioni. Si è pensato al pianeta come a una proprietà personale, con l’esplicitazione di forme di assolutismo territoriale. Imperialismi e dittature, colonizzazioni e istituzioni oligarchiche, mafie ed ecomafie hanno costruito orizzonti settoriali, parziali, mirati al raggiungimento di un ordine morale individuale. L’ordine deve nascere da una sintonica convergenza collaborativa, che deve a sua volta coinvolgere tutti, nell’ambito di un piano strategico, teso a conciliare forme compatibili di sviluppo. L’Europa ha di fronte a sé una grande opportunità politico-culturale: la nuova Costituzione europea. Il riconoscimento di una morale fondata su precisi indirizzi costituzionali, potrebbe convertire e riconvertire sistemi e orientamenti in una nuova coscienza della realtà nella quale viviamo e operiamo, potrebbe sviluppare interessanti confronti dialettici tra tutti gli stati impegnati nella difesa dello stato di salute del pianeta. E’ importante che le democrazie avanzate creino spazi dialettici, responsabilità che coinvolgano l’uomo, in prima persona. Non è più possibile ragionare in termini localistici. Il problema va affrontato in un quadro complessivo di programmazioni e progettazioni che assorbano l’intellighenzia mondiale. Libertà e democrazia sono beni che devono essere difesi nell’interesse popolare, contro l’arroganza e la tracotanza dei superpoteri. Troppo spesso la democrazia si è arrogata il diritto di interpretare le aspirazioni popolari, pensando alle persone come a soggetti passivi, dando per scontato tutto e il contrario di tutto. La politica deve pensare al futuro, restituendo voce e speranza a chi attende un segnale di buona volontà per esprimere il proprio pensiero. Solo così l’ambiente potrà di nuovo trovare qualcuno che ne interpreti correttamente le aspirazioni e le esigenze.
Torniamo alla famiglia. Si nota una certa decadenza culturale. Cosa ne pensa?
La famiglia sta perdendo il suo patrimonio culturale, il suo essere erede di informazioni, storie, racconti, episodi, usi, costumi e tradizioni, la sua vocazione a comunicare. Il suo budget umano e culturale è diventato sempre più esiguo e in molti casi viene delegato alla televisione, al computer o ad altri congegni elettronici. L’informazione telematica ha via via sostituito il dialogo familiare. In molte circostanze i membri, soprattutto i figli, soffrono di solitudine e di abbandono. Spesso i genitori non hanno la capacità di affrontare i problemi dei figli, per carenze scolastiche, culturali e per mancanza di tempo.
Occorre recuperare un certo senso di responsabilità?
Riconoscere le proprie responsabilità significa avere ben chiari i diritti e i doveri che regolano le dinamiche comportamentali ed essere quindi nella condizione di saperli esercitare, nell’interesse dei singoli componenti e dell’unità stessa del nucleo familiare. Oggi, purtroppo, assistiamo a una progressiva deresponsabilizzazione. La famiglia sta perdendo la sua vocazione orientativa e formativa, tende sempre più a delegare il proprio indirizzo educativo alla scuola, a persone, ad agenzie, ad enti pubblici. In questo modo perde di vista una delle sue funzioni fondamentali, quella educativa.
Le regole sono importanti?
La famiglia tende ad assolvere ogni tipo di prevaricazione o di trasgressione, onde evitare di prendere posizione ed inimicarsi eventualmente i componenti. La paura di essere se stessa, di essere educante fino al rispetto delle regole che la governano, la relega a un ruolo di subalternità e di fragilità, che si ripercuote sulla sua forza organizzativa, sulla sua capacità di essere convincente e propositiva. Le regole e la loro osservanza sono fondamentali ai fini di uno sviluppo armonico e lineare della famiglia stessa.
Anche le difficoltà economiche creano disagio?
Molte famiglie mancano della giusta tranquillità economica per affrontare i problemi esistenziali che le riguardano e lo Stato fa troppo poco per risolvere questo terribile problema. Il lavoro è sempre più precario, i salari e le pensioni, in molti casi, non sono adeguati ad affrontare con serenità i costi della vita quotidiana. Le difficoltà economiche costringono la famiglia a impegnare tutti i suoi sforzi sull’unico fronte che le permetta di sopravvivere, il lavoro. In tal modo non ha più il tempo e la tranquillità necessari per assolvere tutte le problematiche di natura educativa. Questa situazione si ripercuote negativamente sull’educazione dei figli che, in molti casi, sono costretti ad arrangiarsi.
Quanto contano i figli, oggi?
Un tempo, i figli erano l’unica, vera ricchezza della famiglia. Rappresentavano la continuità, il fine e lo scopo, la forza e il collante della famiglia stessa. La società civile e lo stato proiettavano le loro speranze sulle famiglie e sui figli, anche con iniziative di sostegno e di incentivazione. Oggi il paese soffre la mancanza d’incremento demografico a causa di un eccesso di calcolo matematico nell’investimento sulla vita. I figli, purtroppo, non rappresentano più la ricchezza, ma un costo.
La famiglia concede troppo?
La famiglia è sempre più assente dal contesto familiare e cerca di coprire la propria assenza con concessioni a tutto campo. Non è più in grado di motivare un no deciso ed è sempre più vittima delle richieste dei propri figli. In questo modo perde via via di credibilità e di autorità, diventando incapace di orientare la propria azione educativa.
La politica fa abbastanza per la famiglia?
Un eccesso di laicizzazione ha creato un grosso disorientamento nei giovani che vorrebbero avviarsi al matrimonio. Gli effetti collaterali si possono leggere in una fuga generale verso situazioni di comodo e nella disaffezione al senso di responsabilità. La politica ha cercato ancora una volta di difendere disperatamente i propri interessi, barattando il principio della “sacralità” con quello dell’interesse personale e di una libertà indefinita. In molti casi chi parla della famiglia è chi ne ha avute due o tre o che vive situazioni di amoralità conclamata. La politica ha perso in parte la sua dignità e così facendo disorienta gli animi e suscita malesseri diffusi. Si parla della famiglia, ma di fatto la famiglia è completamente isolata dal contesto politico, viene tenuta in una condizione di sudditanza materiale e psicologica”.
Cosa pensa della donna all’interno della famiglia?
Si è molto parlato in passato del ruolo della donna all’interno del nucleo familiare, ma per la donna che sceglie la casa, come realizzazione della propria personalità, non è stato fatto niente. Pur essendo ormai universalmente riconosciuto il ruolo della donna nella famiglia, non si fa nulla per permetterle di poterlo esercitare, investita di quella dignità che le compete per diritto umano e costituzionale. Lavorare nella famiglia è un investimento di straordinaria importanza, soprattutto oggi, in una società che sta perdendo tutti i suoi valori. Si era parlato di un salario che supportasse la donna che avesse scelto di lavorare in famiglia e per la famiglia, ma è andato tutto in fumo. La politica ha dimostrato ancora una volta la sua incapacità e la sua mancanza di volontà.
Com’era la vita dei figli nella famiglia patriarcale?
E’ sempre più difficile gestire la libertà personale. I ragazzi di oggi sono più liberi, ma godono di una libertà forzata, perché in molti casi i genitori sono impegnati nelle loro attività lavorative e quindi diventa sempre più difficile organizzarla, quando non c’è nessuno che guidi e orienti. Non avendo punti di riferimento e interlocutori, i figli diventano schiavi della dispersione, della frustrazione, delle dinamiche di gruppo, della dipendenza e della trasgressione. Nella vecchia famiglia patriarcale esistevano più punti di riferimento, i figli si sentivano ascoltati, aiutati e protetti, respiravano il calore umano di un dialogo, di una conversazione o di un racconto. I nonni erano un punto fermo di straordinaria importanza affettiva. Erano molto vicini ai ragazzi e soprattutto creavano il giusto equilibrio tra le generazioni, erano il ponte tra il passato e il presente, tra l’esperienza e la conoscenza. Oggi la maggior parte degli anziani finisce nelle case di riposo, che crescono un po’ dappertutto, oppure vengono lasciati in balia di persone provenienti da altre nazioni. La solitudine esistenziale creata dalla famiglia, genera frustrazioni che, a loro volta, generano reazioni di diverso ordine e natura. Molti genitori stanno troppo fuori casa e i figli si trovano senza qualcuno a cui comunicare le proprie gioie e le proprie difficoltà. In molti casi non sanno con chi confidarsi, dove trovare appoggio e comprensione. La conseguenza di questo stato di abbandono favorisce la ricerca del gruppo, come soluzione alla solitudine. Il gruppo può essere un elemento di copertura socializzante, ma può anche accentuare la dipendenza dei soggetti deboli, con conseguenze estremamente negative. Ci sono casi in cui i genitori non sanno stabilire relazioni affettive e delegano ad altri il compito educativo, aprendo le porte alla incomunicabilità e alla mancanza di fiducia nel mondo genitoriale e adulto in genere. E’ assolutamente necessario che la famiglia si riappropri del proprio ruolo e delle proprie competenze educative, perché è nella famiglia che il giovane si forma, acquisisce quei valori base che lo accompagneranno per tutta la vita.
Come stiamo a coerenza educativa?
Il problema principale di oggi è di natura fortemente educativa. Non si educa più e il ruolo dell’educazione è sempre più delegato ad agenzie, gruppi, persone, associazioni, parenti, amici, istituzioni. Manca soprattutto una coerenza educativa, per cui molto spesso i nostri giovani vivono una dimensione esasperata ed estremamente confusa dei valori. I nostri ragazzi non sanno più chi ha ragione e chi no, da che parte stia la verità, ed ecco perché, nella maggior parte dei casi, si creano delle verità soggettive, all’interno delle quali consumano la propria identità. Oggi lo Stato e la Società civile non sono più in grado di offrire modelli attendibili e percorribili, che non siano quelli della consumazione immediata. Manca anche una capacità di valutazione razionale. Molti giovani, infatti, rifiutano tutto ciò che impone loro delle considerazioni etiche o di lunga prospettiva, preferiscono vivere alla giornata, senza porsi problemi. Nessuno più vuole problematizzare, neppure per ridestare quella razionalità che sembra essere scomparsa per sempre dal panorama della vita politica e umana in generale. Che ruolo ha la famiglia in questa progressiva depauperazione del nostro patrimonio etico e affettivo? Un ruolo fondamentale. Nella maggior parte dei casi ha abdicato ai valori tradizionali, ritenendoli troppo esaustivi, e si è affidata alla occasionalità, a situazioni del tutto arbitrarie, ma perfettamente coerenti con l’inefficienza dei ruoli e dei contenuti educativi.
Professore, non crede sia il caso di potenziare lo sport nella famiglia, nella scuola, nella società civile e nello stato?
Spesso ci si chiede coma mai, in Italia, si dia così poca importanza all’educazione fisica nelle scuole e all’attività sportiva in genere. E’ vero che ci sono tante società sportive e tanti giovani che praticano sport, ma non esiste una cultura dello sport, per cui tutto avviene sull’onda di una volontà individuale, a cui spesso corrispondono stimolazioni familiari, di carattere mediale e, più raramente, scolastiche. Ci sono tantissimi giovani che sprecano le proprie energie e che diventano vecchi prima del tempo, assuefatti alle comodità della società del benessere: televisione, motorino, macchina, discoteca, birra, droga e superalcolici. In genere passano le loro giornate sgommando un po’ a destra e un po’ a sinistra, senza far funzionare quel meraviglioso patrimonio di energie fisiche e mentali che portano con sé fin dalla nascita. Il consumismo vince la sua battaglia con la vita, perché cancella la capacità di pensare, inventare, creare, quella bellissima voglia di conoscersi e di conoscere, di mettersi alla prova, al punto che diventa molto più facile prendere la vita e appoggiarla da qualche parte, piuttosto che lasciarla libera di esprimersi. Certo non è facile sfuggire le comodità, soprattutto quando vengono elargite a mani aperte da genitori che non intendono scendere sul piano del dialogo e del confronto comunicativo con i propri figli, per paura di eventuali ritorsioni. E’ così che i giovani si impossessano della volontà degli adulti, con un’arma che sanno usare perfettamente: il ricatto. E’ così che le nostre vie e le nostre strade brulicano di scooter, motorini, moto di grossa cilindrata e macchine spinte, che seminano inquinamento un po’ da tutte le parti. organizzazione. Le ore dedicate all’educazione fisica sono pochissime e sono distribuite con protocolli inadeguati. Nella maggior parte dei casi diventano momenti di sfogo fisico, delegati a corse, a partite di calcio o pallavolo, a urla che fanno tremare i muri e le orecchie di chi ascolta. Che cosa ha fatto e che cosa sta facendo la politica, per migliorare la qualità della vita? Perché non crea una cultura dello sport? Perché non favorisce la costruzione di scuole in mezzo al verde, con palestre attrezzate e con ampi spazi per l’attività all’aria aperta? Perché non ha valorizzato e non valorizza l’educazione fisica, come momento di educazione comportamentale, invece di puntare tutto sull’inglese e sul computer? Eppure i governanti sanno benissimo che l’attività sportiva, nelle sue diverse componenti, ludiche, ricreative e agonistiche, è un fortissimo antidoto alla proliferazione dei malesseri dei nostri giovani. La buona politica dovrebbe guidare i nostri ragazzi verso stili di vita adeguati, puntando sull’attività fisica e sulla cultura sportiva, come strumenti base di una sana crescita umana, fisica, morale e mentale. L’Italia possiede uno straordinario patrimonio educativo, composto da atleti che hanno reso grande il nostro paese e che, nella maggior parte dei casi, invecchiano dimenticati ed emarginati, mentre potrebbero essere i veri pilastri di una svolta educativa all’interno dell’istituzione scolastica e fuori. Abbiamo tesori immensi e non li utilizziamo. Abbiamo fruito dei loro sacrifici per poi abbandonarli al loro destino. Ecco dove manca la politica, nell’incapacità di leggere la storia del quotidiano, quella che potrebbe permetterci la svolta decisiva, ripristinando nelle persone l’amor proprio, la voglia di cimentarsi e di confrontarsi, la ricerca dell’ interiorità, in un costruttivo confronto con la realtà.
Mancano strutture, non crede?
Viviamo in un paese estremamente carente di strutture e infrastrutture sportive. Il problema riguarda in particolare le palestre, i campi di atletica, i parchi ricreativi attrezzati, i percorsi salvavita, le piste ciclabili, quelle riservate all’attività ludica, i centri sportivi plurifunzionali, i centri di benessere. E’ estremamente carente anche l’arredamento sportivo, per cui chi pratica sport, soprattutto nel periodo invernale, è costretto ad arrangiarsi, con tutte le conseguenze del caso. In Italia si sprecano milioni di euro in cattedrali nel deserto e non si fa quasi niente per fornire ai cittadini una opportunità di salute fisica e mentale. Una gestione federalista territoriale potrebbe essere più adeguata e più attenta alla soluzione di questo tipo di problematica.
Si sente fortemente la mancanza di una cultura dello sport.
Spesso la scuola risolve la sua funzione propedeutica con due ore settimanali di attività teorico-pratica, che spesso si esauriscono in una corsetta e in una partita di pallavolo. Manca una cultura sportiva seria, che offra agli alunni la conoscenza delle discipline sportive, la loro storia, la loro evoluzione nell’arco del tempo, i personaggi che le hanno rese famose, la loro vita e le loro gesta sportive. Manca un interesse vero, che crei curiosità e approfondimento. Manca agli studenti, soprattutto, l’opportunità di conoscere e quindi di praticare il tipo di attività sportiva più consona alle caratteristiche fisiche e attitudinali di ciascuno. Nella realtà attuale chi non si adegua al calcio, alla pallavolo o alla corsa è un escluso, quindi la scuola non educa, ma discrimina, impedisce una scelta ampia e democratica dell’attività adeguata al tipo di personalità. L’Educazione fisica, così come viene insegnata nelle scuole italiane, non ha alcun carisma disciplinare, spesso finisce per generare sfoghi incontrollati e situazioni di forte disorientamento. La cultura sportiva presuppone dunque una maggiore considerazione della disciplina, non solo per le sue virtù terapeutiche, ma proprio per i suoi presupposti di carattere culturale. Alla base infatti di ogni sport c’è una storia fatta di studi e sperimentazioni, di tecniche e di particolari doti fisiche e umane. Chi non conosce non è in grado di fare una libera scelta e così, nella maggior parte dei casi, finisce con l’abbandonare l’attività fisica per il computer. E’ assolutamente necessario che i ministeri interessati e gli organismi preposti studino una nuova articolazione dell’apprendimento scolastico, che dia all’Educazione fisica il ruolo che realmente gli spetta per l’importanza che riveste ai fini della salute fisica e del benessere mentale della persona.
Professore, si ha l’impressione che non venga presa in giusta considerazione la valenza sociale dello sport. Qual è il suo pensiero in proposito?
Dello sport si è soliti ammirare l’aspetto agonistico, quello finalizzato al risultato eclatante che, di solito, fa impazzire la folla, oppure l’aspetto ludico-ricreativo, quello che coinvolge la massa in circostanze particolari, come feste, manifestazioni e circostanze speciali. Sfugge l’aspetto fondamentale, quello che affonda le sue radici nell’emancipazione sociale, nella sua straordinaria capacità di sviluppare forme di autostima, di solidarietà, di aggregazione e di comunicazione sociale, di stimolare la scoperta dei talenti e delle risorse umane. Lo sport deve poter avere una sua funzione socializzante e per questo ha bisogno di conferme da parte delle pubbliche istituzioni, ha bisogno di una rivoluzione di pensiero e di costume che gli conferisca quella dignità legislativa e costituzionale che gli permetta di diventare forza propulsiva della nazione, sistema rigenerante di una condizione umana travolta dalle negatività di una società consumistica priva della capacità di razionalizzare i propri comportamenti. Solo chi è abituato al rispetto delle regole, come elemento caratterizzante della condizione umana, sa quale deve essere il suo ruolo sociale, le modalità e le strategie che governano i rapporti sociali. Ci sono società sportive che si dedicano con grande determinazione al recupero sociale di giovani disagiati e di persone diversamente abili. Lo fanno perché hanno trovato sul loro cammino volontà particolari, atleti e dirigenti che hanno sposato la causa dell’emancipazione sociale, non solo quella del risultato spettacolare. Purtroppo, però, è ancora tutto delegato alle volontà individuali, a circostanze particolari, non esiste una cultura che orienti lo sport nella direzione giusta. In molte circostanze prevale un tipo di sistema elitario, che privilegia sempre e incondizionatamente il prestigio personale o quello societario-imprenditoriale, per cui tutto viene finalizzato al risultato a tutti i costi, anche quando quest’ultimo ha un prezzo elevatissimo. Ci sono fior di campioni super medagliati che frequentano spontaneamente palestre e luoghi dove si pratica attività sportiva, per offrire un contributo di esperienza educativa ad un mondo giovanile disorientato. Lo fanno per indole personale, per una bellissima forma di consapevolezza sociale, per solidarizzare con un mondo abbandonato ai propri problemi. Lo fanno per dimostrare che i soldi non sono tutto e che la gloria serve per stimolare le doti migliori, quelle che aiutano gli altri a comprendere meglio il senso della vita. Lo fanno anche perché hanno un carattere particolare, un grande rispetto per la vita umana. Non c’è insegnamento migliore di un esempio che si mette al servizio degli altri, di un personaggio famoso che offre la propria celebrità al bene comune, per risvegliare la straordinaria bellezza della condizione umana.
Forse l’uomo ha bisogno di rispolverare la coscienza?
L’uomo si è lasciato prendere la mano ed è diventato schiavo del consumismo, ha perso il gusto di pensare, valutare, riflettere e razionalizzare. Vive “andando al massimo”, senza porsi il problema se quello che fa sia giusto o sbagliato. Vive, spinto da un impulso irrefrenabile, come se dovesse conquistare il mondo, come se tutto dovesse finire all’improvviso, come se la quantità e la diversità fossero gli unici principi o valori di un’esistenza il più delle volte dominata dall’istinto, dal desiderio di non lasciarsi mancare nulla. I giovani crescono imitando, in molti casi senza conoscere a fondo il perché di un’azione, depredando il “benessere” dei suoi contenuti etici, fisici, biologici e filosofici.
Parliamo di Alessandro Manzoni e della giustizia. Qual è il suo punto di vista in merito?
In che cosa consiste l’attualità dei temi proposti da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi? Nell’essersi immedesimato nell’uomo e nella sua condizione, creando una realtà universale, nella quale si evidenzia un immenso patrimonio socio-culturale, osservato nelle sue umanissime contraddittorietà. Manzoni ama la giustizia. La ama al punto che la incarna, in modo tale che la si possa osservare, valutare, giudicare. E’ figlia della libertà e la libertà, per Don Lisander, non è solo affrancamento dalla schiavitù politica e militare, è soprattutto legata alla sfera morale dell’individuo, è figlia di una educazione alla civiltà, al costume, al rispetto della dignità umana. Giustizia come esercizio educativo e non come strumento di arbitrarietà personale o sudditanza al potere politico. Renzo crede nella giustizia, si appella alla giustizia, ma fugge la rifugge quando si accorge che è solo una forza distruttiva della dignità umana, gestita da cupi personaggi asserviti al potere, pronti a incriminare il malcapitato di turno, pur di realizzare il machiavellico marchingegno, de “il fine giustifica i mezzi”. Per Manzoni la giustizia è l’utopia della gente semplice, cresciuta nell’onesta cultura contadina, dove tutto scorre sull’onda di regole familiari precise, che non ammettono disobbedienza. La realtà che incontra lo scrittore è ben altro, è rappresentata dal dottor Azzeccagarbugli, fedele interprete di una giustizia asservita ai potenti e ai prepotenti. Non erano ancora nati Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la giustizia “asservita” allo Stato, incurante delle minacce dei poteri occulti, delle brigate rosse e di tutti coloro che hanno tentato, con ogni mezzo, di orientarla verso orizzonti giusti e legali. Non era ancora nata l’inclinazione al martirio di eroi che non accettavano il compromesso e che, nell’ermetismo blindato della vita quotidiana, disegnavano e sognavano una società libera e giusta, democratica e rispettosa delle regole del vivere comune. Il loro senso dello Stato e della giustizia ha prevalso sempre e il loro messaggio vive tra le persone oneste che lottano quotidianamente contro la criminalità comune e organizzata, contro ogni forma di prevaricazione delle regole democratiche. Forse, grazie alla Provvidenza manzoniana è successo anche questo, che qualcuno si opponesse ad una giustizia venduta al richiamo della partigianeria politica e finanziaria. Manzoni sapeva che la giustizia umana avrebbe comunque dovuto fare i conti con quella Divina, molto più aperta ad una visione del mondo giusta e obiettiva. Don Lisander ha avuto il merito di aver espresso l’universalità dell’errore umano, l’intensità vichiana di una storia che ripete le sue ingiustizie e le sue prevaricazioni. Anche oggi, come ai tempi di Manzoni, il potere orienta, definisce, determina, distrugge e poi si lava le mani, proprio come Ponzio Pilato, lasciando cadere l’uomo in un mare di emarginazione e di indifferenza, avvolgendo nella sua tentacolare protervia coloro che combattono la sopraffazione e la trasgressione. Sono cambiate le condizioni storiche, ma le intuizioni psicologiche del grande scrittore milanese accompagnano le speranze dell’uomo leale, che crede nella Giustizia e che lotta quotidianamente contro le iniquità e contro una società corrotta e spietata nell’affermazione della sua arroganza. In molti casi la Giustizia si è trasformata in una lunga e irrefrenabile burocrazia, in un mare di scartoffie, processi e contro processi.
L’educazione dei giovani è sempre un problema della famiglia, della società e dello Stato?
Le massime istituzioni hanno sicuramente una responsabilità molto elevata, ma occorre precisare che i giovani devono crescere con la convinzione che siano loro i veri protagonisti della loro storia e che la loro storia, per quanto possa dipendere da condizioni esterne, sia pur sempre il frutto di una volontà soggettiva che si mette in gioco. Ho conosciuto giovani che non avevano famiglie alle spalle e che hanno costruito un’esistenza esemplare, mentre ne ho conosciuti altri che avevano tutto e che si sono persi per strada. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, senza demandare ad altri diritti e doveri. Da che mondo è mondo le società non sono mai state tenere, non hanno mai spalancato le porte a nessuno, ma il bello è quando riesci con le tue forze a raggiungere un traguardo. Se poi il traguardo è quello che ti sei prefissato è ancora meglio, perché vuol dire che hai messo in campo tutto quello che era giusto. A molti giovani manca la voglia di combattere e di lottare per qualcosa di utile e costruttivo. Quando le idealità si trasformano in ideologie violente non costruiscono niente di buono anzi, distruggono la forza e la bellezza della vita. La società, la famiglia e lo stato devono sicuramente svolgere fino in fondo la loro mission educativa, creando condizioni favorevoli sul piano dell’interazione e della comunicazione, ma non devono diventare l’alibi per non fare niente o peggio ancora per fare danni. Mi diceva, durante un’intervista, un giovane campione sportivo nazionale, che i giovani non devono sempre piangersi addosso e cercare dei comodi paraventi dietro i quali nascondersi, ma devono rimboccarsi le maniche e darsi da fare per modificare in meglio quel mondo in cui hanno avuto la fortuna di nascere e di crescere.
Ma allora come mai tanto disagio nel mondo giovanile?
Non dobbiamo generalizzare, anche se è vero che il disagio alligna ovunque, in tutte le fasce d’età del mondo dei giovani. Una delle cause è senz’altro da ricercarsi nella mancanza di esempi da parte del mondo adulto, tutto preso dal suo egoismo. Un eccesso di protezionismo genera profili falsi e omertosi, personalità fragili e insofferenti a qualsiasi forma di vita comunitaria. I giovani vanno guidati, indirizzati, aiutati, sostenuti con coraggio e fermezza, soprattutto quando sbagliano. Assolvere sempre e dare incondizionatamente la colpa al mondo adulto non aiuta a far capire il senso vero e profondo dell’educazione.
Professore, lei ha insegnato per tanti anni, è stato educatore dentro e fuori la scuola, cosa potrebbe suggerire alle famiglie, alla società civile e allo stato, per migliorare la condizione educativa dei giovani e del mondo adulto in generale?
E’ una domanda difficile. Come educavo io? Trattando i miei interlocutori con onestà e fermezza. Chi educa deve essere un esempio. I valori che insegna li deve prima dimostrare sul campo lui stesso, in modo tale che chi vede e ascolta sappia con chi ha a che fare. Se mi arrabbio con una alunno che arriva in ritardo e lo punisco severamente, quando io stesso, che sono l’insegnante, arrivo quasi sempre in ritardo, non sono un esempio credibile, quindi non posso pretendere la coerenza. Nella mia lunga carriera sono stato testimone di inadempienze molto gravi esibite quotidianamente da responsabili che, poi, pretendevano rispetto, collaborazione e coerenza da parte degli alunni. Il rispetto deve essere reciproco, l’alunno o l’adolescente devono sapere con chi hanno a che fare. Ho notato spesso che i giovani rispettano e stimano quegli educatori che sanno farsi valere, che non temono il confronto, perché sono coerenti e fermi nella loro linea educativa. Il rapporto deve essere fermo, fondato sul rispetto reciproco, ma chiaro e confortante, senza sottintesi, senza veli o strategie omertose. Ho visto insegnanti che per accattivarsi le simpatie dei loro alunni si facevano dare del tu, stavano seduti col sedere sul banco e con i piedi sulle seggiole. Dunque il primo passo è quello di rilanciare il ruolo docente, chiamandolo fuori dalla situazione confusionale nella quale è stato imprigionato. La società civile e lo stato devono contribuire a rafforzare il ruolo docente, collaborando in modo costruttivo con la scuola e i suoi insegnanti, ma senza interferire nelle dinamiche educative e metodologiche. La scuola ha assolutamente bisogno di autorità che, tanto per essere chiari, non si costruisce soltanto con la bocciatura a tutti i costi o sulla base di selezioni precostituite, come succedeva in passato, quando su trenta ragazzi che frequentavano la quarta ginnasio ne arrivavano in quinta solo quattordici o quindici, perché nel disegno divino di qualche insegnante, quello era lo statuto della scuola, al di fuori del quale non esistevano altre verità. L’autorità si fonda soprattutto sul carisma del docente, sulla sua capacità di relazionarsi, ottenendo stima e rispetto. Alla base di un insegnamento proficuo c’è sempre un buon rapporto umano con la classe.
Professore, si può essere romantici in un mondo come il nostro, dominato dalle tecnologie?
Non solo si può, ma si deve, altrimenti la vita sarebbe una fredda dinamica serie di automazioni. Il romanticismo non è altro che la vita dei sentimenti, quel bisogno fisico e spirituale allo stesso tempo, di cui la vita ha bisogno per regalare agli esseri umani la capacità di emozionarsi, di lasciar parlare la voce del cuore, di dare il via libera all’effetto poesia e cioè alla capacità di trasformare la realtà in immagine, seguendo un generoso percorso individuale di suoni e di tonalità. L’essere umano ha un estremo bisogno di liberare la parte nobile dell’esistenza, quella che si lega indissolubilmente alla natura e alla cultura, allo spirito e al pensiero. Solo così le creature si riconoscono, provano, sentono, avvertono il richiamo dolce dei sensi”.
Professore, parliamo un attimo dell’autorità. Com’era e com’è, oggi?
L’autorità è la capacità di sviluppare forme di comportamento che siano conformi ad un sistema di regole dettate in parte dalla coscienza e in parte dalla volontà collettiva. Si può esprimere in modo personale o secondo un codice scritto, ma la finalità è unica, cioè creare le condizioni di una vita di relazione improntata al rispetto di norme uguali per tutti. Purtroppo non tutti le rispettano, perché? Perché la natura umana tende naturalmente a trasgredire, a prevaricare, a orientarsi secondo un sistema del tutto individualista e personale. Basti vedere gli scandali di questi giorni nel campo della sanità, proprio quello dove l’autorità dovrebbe delinearsi nel modo più naturale e lineare possibile. L’uomo, per sua natura, rifiuta l’autorità, la sente come un condizionamento allo strapotere del proprio egoismo, una limitazione alla propria libertà personale. Non è facile capire il senso dell’autorità e proprio per questo molti uomini rappresentativi del pubblico potere ne combinano di tutti i colori. L’autorità comporta un grande esercizio morale, etico, una straordinaria cultura dei sentimenti, la capacità di sperimentarla prima su se stessi che sugli altri. Un uomo privo di autorità non può esercitarla, perché non ne è capace e, soprattutto, non è credibile. Esercitare l’autorità significa prima di tutto esserne degli esempi e cioè fare in modo che gli altri possano vedere, osservare e capire.
Cosa pensa della società in cui viviamo?
Penso che sia una grande invenzione, ma chi l’ha creata, forse, avrebbe voluto vederla un tantino diversa, magari più umana, generosa, attenta ai problemi delle persone, meno arrogante, invidiosa, egoista, cattiva. Viviamo un’epoca di profonda crisi morale, dove ognuno agisce secondo le proprie convenienze e i propri interessi, privando l’altro di un sorriso che potrebbe risolvere un mare di problemi. E’ caduto il più grande freno inibitore della storia, la paura dell’aldilà, quella paura coltivata per secoli dalla chiesa cattolica, incarnata nel peccato mortale e nelle sue conseguenze. Un tempo le creature si preoccupavano dell’ignoto, riconoscevano la propria impotenza, l’incapacità umana di dare delle risposte razionali e si affidavano al potere taumaturgico della fede. Oggi non è più così. Le mutate condizioni economiche, la rincorsa al benessere individuale e collettivo, l’ansia del piacere come panacea alle frustrazioni della vita, l’ansia di scimmiottare il prossimo nelle sue forme deteriori hanno aperto la via ad una sorta di onnipotenza collettiva. Gli uomini si sono lanciati in un egoismo senza freni e l’ignoranza, esibita come emancipazione, domina la scena, creando vuoti di umanità, terribili. Le fiamme dell’inferno sono passate di moda, il peccato mortale ha incontrato fior di avvocati pronti a dimezzarne l’impatto, il cielo è una meta troppo lontana e dispersiva per poter condizionare l’esistenza, le regole sono diventati impedimenti inutili e una sorta di irrequieto fatalismo si è impossessato della natura umana, tutta protesa alla divinazione di se stessa. Viviamo in una società che ha perso i contatti con i grandi interrogativi della vita, quelli che un tempo ancoravano le creature alla ricerca di un equilibrio interiore. Le agenzie educative educano poco e male, accettano tutto, pur di resistere all’usura del tempo. Il progresso ha distrutto l’anima, la coscienza, la facoltà di pensare e meditare, la ragione e la fede, i principi del diritto e del dovere, l’ambiente in cui viviamo, tutto è devoluto all’istinto, ad un coacervo di pulsioni che scatenano le parti basse della natura umana, quelle che sfuggono all’esame critico, ad una qualsiasi valutazione. L’uomo di oggi è un essere in fuga, braccato da una coscienza che non riesce più a farlo riflettere, a condurlo sulla via di una resurrezione personale, è una creatura che non riesce a ridare un volto alla virtù, che non ama mettersi in gioco, chinare la fronte per dimostrare a se stesso i propri limiti, le proprie fragilità, la propria umana incapacità di far fronte alla complessità della natura umana.
Esiste ancora l’interiorità?
Per chi è cresciuto nell’ambito della filosofia del trascendente, riesce sempre più difficile conciliare l’interiorità con l’esteriorità, il bisogno di spiritualità, con una radicale tendenza al materialismo. Malgrado tutto, c’è ancora chi cerca l’interiorità in tutte le sue variabili fisiologiche, filosofiche, religiose e cognitive in generale. Sembra che il mondo non si riconosca più, che faccia fatica a rispolverare la propria natura, quell’io che abbiamo insabbiato per renderlo inoffensivo di fronte alla nostra voglia di potere, fama, prestigio, ricchezza. Spesso sentiamo parlare di libertà in senso legislativo e costituzionale, come regola ferrea di un codice di comportamento sociale, in realtà l’essere umano trova la vera libertà dentro di sé, nel proprio cuore, nella propria mente, nell’anima, nell’intelligenza, nei suoi affetti. E’ come se si domandasse di nuovo chi è, che senso ha la sua vita, se l’esistenza ha un termine materiale o se prosegue in una corrispondenza ideale con l’Aldilà. Ed ecco che scopre il desiderio della comunicazione verbale e scritta, la voglia di raccontarsi, di relazionarsi, un rinnovato desiderio di purezza interiore. Molte persone, trovandosi di fronte alla propria interiorità, rimangono mute e intolleranti. L’interiorità è una parte straordinaria della natura umana, talmente straordinaria che è persino capace di compiere miracoli. E’ la nostra essenza, uno spazio riservato nel quale troviamo noi stessi, il nostro bisogno di pensare e ragionare, di recuperare l’autenticità del nostro essere creature. L’interiorità è ciò che ci contraddistingue, è ricerca e, proprio per questo, ha bisogno di qualcuno che funga da ponte tra lei e il mondo esterno. Non tutti sono consapevoli di possederla e quanto sia importante nella rigenerazione materiale e spirituale dell’essere umano. Occorre educare al riconoscimento della propria interiorità, come punto di partenza per una riconsiderazione in chiave antropologica della natura umana. L’interiorità non è una fuga verso l’interno, ma il bisogno di ricreare, riaffermare, riformare un meccanismo che, col passare del tempo e degli eventi, ha perso via via la coscienza di sé e del mondo esterno. Quanto sia importante, nella società di oggi, riflettere e meditare, prima di agire, lo dimostra la grande attenzione che l’uomo ripone nelle discipline rigenerative del corpo e della mente. Viviamo un periodo di profonda crisi d’interiorità e d’identità. Credo che anche la politica abbia un estremo bisogno di interiorità, di riscoperta e di riappropriazione. Conviene un po’ a tutti compiere un viaggio a ritroso, accompagnati dalla forza della ragione umana e dal coraggio della fede cristiana, per capire dove abbiamo sbagliato e per ritrovare di nuovo la forza di ricostruire un mondo a misura d’uomo, fondato sulla giustizia e sulla legalità.