Lo scrittore e il falegname: storia di due persone che si ammiravano e stavano bene assieme. Cinquant’anni fa nella notte tra il 30 e il 31 luglio 1973 Guido Morselli troncò volontariamente la sua vita. Per ricordarlo in questo anniversario così significativo e arricchire la conoscenza degli episodi che narrano della sua personalità complessa, amante della solitudine e allergica al consorzio civile, ma in realtà con una coscienza della comunione umana rara, è stata una sorpresa scoprire dalla testimonianza di Antonio Paganoni, falegname restauratore di Comerio, l’intenso rapporto di stima che aveva con il padre Giuseppe. Il suo laboratorio di falegnameria, in via San Rocco a Comerio, per l’autore di libri ora conosciuti a livello internazionale, era un luogo confacente alla sua anima. Sì, al pari del “laghetto verde” di fronte alla sua casetta rosa a Gavirate nel parco che oggi porta il suo nome. Breve era la distanza tra i due luoghi e spesso Morselli, soprattutto di domenica mattina, giungeva a casa di Giuseppe sulla sua cavalla “Zeffirino” per chiedergli di svolgere lavori. E Giuseppe provava sempre quel piacere procurato dal risolvere un problema a una persona che non era solo un cliente, fosse una finestra che non chiudeva bene, una sedia da sistemare o lavori più di fino. Per lui, non era Morselli, ma il signor Morselli con quell’aurea di uomo proveniente da un mondo diverso, ricco di stimoli da cui la sua intelligenza vivace e osservativa poteva attingere. C’è da immaginare quei due durante il viaggio a Varese sull’auto di Morselli per sistemare una porta nella villa di via Limido. Non c’era altra da fare che parlare e nel ricordo del figlio Antonio allora bambino, si instaurava quel dialogo costruttivo in cui lo scrittore chiedeva consigli e il falegname, avvezzo a svolgere lavori perfetti, li elargiva attento a soddisfarlo non solo per motivi economici. Morselli, d’altra parte, lo ammirava: entrava nel suo laboratorio e amava mettersi in un angolo ad osservarlo lavorare per comprendere le varie fasi di lavoro: “L’uomo colto non è chi sa, ma chi apprende”, aveva scritto nel Diario. Morselli. “Una volta -ricorda il figlio- con la sua discrezione chiese scusa e se ne andò, consapevole che la sua presenza poteva procurare mancanza di libertà per Giuseppe”. Molto frequenti erano i loro rapporti: Antonio conserva religiosamente il pezzo di compensato su cui un giorno (manca la data) lo scrittore passando dal laboratorio non trovò il falegname e si scrisse: “L’aspetto al più presto, possibilmente oggi stesso per un lavoro nella stalla dove già lavorano i muratori. Passi dalla casa colonica”. Firmato: Morselli. Gli interventi di Giuseppe riguardavano anche la potatura delle viti, la raccolta del fieno nel parco. Il rapporto stretto si manifestava anche con i figli: “Ricordo la ciotola di caramelle che ci offriva -spiega Antonio- le ciliegie che ci faceva raccogliere e che ci donava. Solo quando giocavamo a pallone nel campo adiacente la sua proprietà, si avvicinava e ci chiedeva se non ci desse fastidio calpestare l’erba”. La notizia della morte sconvolse Giuseppe: “Non se lo sarebbe mai aspettato -continua Antonio- Secondo lui, non c’erano le condizioni. Qualche giorno prima lo scrittore gli aveva chiesto di poter parlare, quindi Giuseppe lo attendeva”. Fu la fine di un rapporto che il falegname mai dimenticò. Che Morselli avesse già pubblicato due libri a sue spese –i saggi “Proust o del sentimento” nel 1943 presso Garzanti e “Realismo e fantasia” nel 1947 da F.lli Bocca- se ne era reso conto il gaviratese Lino Casiraghi. Frequentava la casa dello scrittore per conto del suocero, l’idraulico Tommaso Biasoli, e ricordava quella fila di libri negli scaffali della libreria. Ma non osò chiedere niente. Così il mistero continuò ad avvolgere quella figura allora inesplorata.
Federica Lucchini
Giuseppe Paganoni