Non è vero che la pesca collettiva non avrà futuro: anzi! Potrebbe essere determinante per l’eliminazione dei pesci siluro che “qualche genio della lampada ha pensato di immettere nelle acque del lago di Varese”, distruggendo le specie autoctone. Ieri, durante la cerimonia d’inaugurazione dell’ultima barca per la pesca collettiva, il rierùn restaurato e dello spazio che lo protegge a lato della casetta dei pescatori al porto di Cazzago, a fare gli onori di casa, c’erano il sindaco Emilio Magni e l’on. Giancarlo Giorgetti, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, non in veste di politico, come ha subito sottolineato, ma in rappresentanza della Cooperativa Pescatori Lago di Varese, di cui è stato presidente. Carica che ha dovuto lasciare perché incompatibile con l’attuale. L’essere lì in quel momento gli ha toccato le corde più profonde in un excursus di memoria soprattutto personale – come figlio di Natale, pescatore professionista- legato al presente e al futuro. E la proposta, suggeritagli da Paolo Giorgetti, cazzaghese, docente universitario in Svizzera che appare all’inizio di queste righe, l’ha sposata in pieno. Ad ascoltarlo una platea di sindaci con fasce tricolori (Luciano Puggioni, primo cittadino di Bardello, Fabrizio Montonati di Inarzo, Andrea Dell’Osto di Brunello, Angelo Bertagna di Galliate Lombardo, Giorgio Sassi, vice di Bodo Lomnago, Vignola Enzo, assessore di Azzate, Giuseppe Giorgetti, assessore di Biandronno). Presente l’on. Maria Chiara Gadda, il consigliere regionale Emanuele Monti e Luca Rinaldi, Soprintendente alle Belle Arti, all’Archeologia, al Paesaggio. “In questo universo del mondo dei pescatori che è il lungolago di Cazzago -ha spiegato- ora è ben visibile la bandiera della Cooperativa dei Pescatori che esce in circostanze ufficiali anche tristi”. E l’allusione era alle esequie del padre, quando seguendo la tradizione, è stata sventolata tre volte sulla bara prima che venisse inumata. “I pescatori sono figure strane, poi ve le presenterò -ha continuato- Sono l’amblema degli artigiani, dei lavoratori autonomi. Il pescatore è da solo a contatto con il lago e la natura, è sinonimo di autonomia di pensiero. Il lavoro collettivo trovava il suo compendio nel rierùn, quando poi il ricavato veniva preso e distribuito. Ho un ricordo molto vivo di quando i pescatori andavano sul fiume Bardello, soprattutto dopo piogge abbondanti, per pescare le anguille. Ricordo l’ultima volta che è successo, perché ero presente: era l’alba e 10 guardie attendevano i pescatori, per impedire loro la pesca, sequestrando gli attrezzi. Quindi niente più anguille”. Giorgetti era evidentemente orgoglioso di dare voce ai pescatori: orgoglioso di vedere la foto di suo padre giovane, che solleva la rete del rierùn, di suo padre in posa con la moglie vestita da sposa. “Diceva sempre che aveva portato mia mamma in viaggio di nozze sul rierùn”. La voce del sindaco Magni è stata all’insegna del valore della tradizione, quella dell’architetto Antonio Pedretti, progettista della struttura, dello svolgimento del lavoro, quella di Gianfranco Bianchi, dell’intervento di restauro della barca. E infine loro tre: tre dei quattro pescatori professionisti del lago: il presidente della Cooperativa Gianfranco Zanetti, Luigi Giorgetti detto “Negus”, e Daniele Bossi di Bodio, tutti portatori di una tradizione di pesca iscritta nel Dna.
Federica Lucchini
il restauro della barca
Ed ora vengono avanti gli irriducibili: coloro che hanno fermamente voluto il restauro della barca, ritrovata nel 2014, nella piena consapevolezza di tramandare ai posteri un documento unico, protagonista di un momento irripetibile della pesca sul lago. Ci hanno creduto al punto che loro stessi di sono messi all’opera per poterla salvare con la condivisione del sindaco Emilio Magni, dall’allora consigliere comunale Gianfranco Bianchi: fra loro il proprietario, Stefano Stadera, che l’aveva ritirata tanti anni fa dalla Cooperativa Pescatori, quindi l’ha donata alla comunità e lui stesso ha lavorato con grande passione perché ritornasse ai “fasti” originari, tre artisti del legno Luigi Zabattini, Giannantonio Perin, Antonio Chelo. Scrivere della loro competenza e del loro ingegno rende la penna felice: è un onore ricordare quei momenti, che avvenivano il sabato nello spazio riparato del portico delle scuole elementari. Dietro alla loro operosità c’era ottenta persone che hanno aiutato, finanziato e offerto il materiale.
Federica Lucchini
La denominazione “rierùn”
La denominazione “rierùn” dapprima è stata assegnata alle reti, poi attribuita alle barche. Oggi l’ultima rete originale, non più in cotone, ma in nylon si trova nella casetta dei pescatori sul lungolago, sede della Cooperativa Pescatori. E’ lunga 160 metri e alta 40. Scrive Luigi Stadera ne “Il breviario della tradizione”: “La facile deperibilità delle fibre naturali imponeva la “tència” (tintura) che si faceva nella “casa del lago” al porto di Cazzago, bollendo nell’acqua di un calderone di rame la buccia delle castagne (rusca), ricca di tannino; dopo il rierùn, i pescatori tingevano le reti individuali e sciamavano nelle osterie a carcare nel vino un’alternativa alla costrizione di vivere sull’acqua. La scomparsa delle reti collettive -aggiunge lo studioso- non ridusse la consistenza del pescato, ma incentivò l’individualismo della pesca, con una forte ricaduta su quella “cultura del lago” che proprio nella comunità dei pescatori trovava il suo alimento. L’impegno comune nella pesca e nelle attività collaterali (la riparazione delle reti, la “tència”, le pause nel lavoro) dava modo di richiamare e di ribadire la storia del gruppo, rinnovando e preservando una tradizione che ha caratteristiche di assoluta originalità”.
Federica Lucchini
Intervista Cesare Giorgetti
“Un lavoro duro. La rete era pesantissima, impregnata d’acqua. Dovevi avere le mani indurite, abituate a sollevare un simile peso, altrimenti ti si ferivano. Ed era soprattutto un lavoro di schiena con un piede sul bordo della barca, rivolti verso la rete che si sollevava fino al punto finale quando si era formata la sacca”. Cesare Giorgetti, 74 anni, cazzaghese, non ha potuto diventare pescatore professionista, essendo figlio secondogenito di un pescatore. Lo statuto della Società Cooperativa “Pescatori del lago di Varese” è chiaro: solo i figli primogeniti potevano diventare professionisti. Lui, comunque al seguito del papà Luigi, che aveva ereditato l’attività dal nonno detto Pinola, e del fratello “Cìcin” ha vissuto la pesca in prima linea, contemporaneamente alla sua attività presso la Ignis. Ed ha fissato nella mente tutta l’attività che si svolgeva sul lago. La pesca col “rierùn” avveniva con due barche e due reti durante l’autunno e la primavera. Necessitava di iscrizione. Solitamente su ogni barca un giovane stava ai remi mentre gli altri a turno avrebbero tirato le reti. Già, quelle reti di cotone (le ultime sono stati in nylon) costruite a pezzi (le cosiddette pezze) dalle donne della pesca e vendute a peso. Quando la rete si deteriorava veniva sostituita nella parte ammalorata da una di queste parti. L’area di pesca era delimitata dagli “scuasc”, segnali creati con i “caniroeu”, stuoie legate fra loro e ancorate con un sasso al fondo, per non distrurbare la pesca individuale. L’ultima settimana di maggio i pescatori conoscevano per esperienza i luoghi dove le tinche andavano in frega e avrebbero maturato le uova. Col “rierùn” si pescava invece al “salto”, cioé quando si vedeva una tinca emergere, era indice di un branco. L’attesa poteva essere anche molto lunga. Nel frattempo i pescatori lavoravano costruendo ad esempio a mano le reti dei persici delimitate dai sugheri detti “tavel”. L’indice dell’azione poteva essere anche un improvviso luccichio. Allora iniziava l’azione sinergica: improvvisamente silenziosi, ci si avvicinava dove erano state poste le reti. Una barca di fronte all’altra a distanza di 50 metri circa a formare due semicerchi. Poi con una mano si prendeva la corda di una rete, con l’altra la corda dell’altra. Era un momento dove emergeva la sapienza atavica e dove ogni pescatore era concentrato in un gesto che avrebbe portato al successo di una pesca che poteva essere eccezionale. Le reti strisciavano sul fondo e a mano a mano le corde tirate formavano la sacca finale. “Ricordo una pesca eccezionale, circa 55 anni fa – spiega- 1400 tinche per un peso di 17 quintali e 80 kg. C’era il rischio dell’affondo. Una volta -e penso sia stata l’unica- sono stati pescati 80 kg. di “badò”, come venivano chiamati in dialetto i persici grossi. Tutti erano stupiti e si chiedevano la ragione. Altre volte sono entrati dei lucci e qualche anguilla. I “navett”, le barche dei pescatori, li portavano nel vivaio alla sede della Cooperativa alla Schiranna, dove venivano tenute vive, noi intanto formavamo sacchi di un quintale per volta”. Fra le cause di interruzione di questa pesca, Giorgetti individua la richiesta delle tinche che a mano a mano si è annullata, essendo un pesce pieno di lische. A questo punto quell’antico modo di pescare non aveva più senso. E la pesca ha continuato ad essere individuale.
Federica Lucchini