“Franza o Spagna/ basta che se magna!”
Nel Cinquecento arriva la dominazione spagnola e le cose peggiorano addirittura. Gli spagnoli, perennemente in guerra, avevano bisogno di forti capitali e pretendevano dalle nostre genti tutto il possibile ed anche l’impossibile. Vi erano tasse su qualunque cosa producesse reddito ed i nostri antenati ne pagavano oltre ogni immaginazione: dal legnatico per raccogliere la legna all’erbatico per pascolare il gregge.
La caccia, l’atavico mezzo di sopravvivenza dell’uomo, era tassato al punto che solo ricchi e potenti potevano usufruirne. Per fortuna rimaneva la possibilità del bracconaggio e, se è vero che la lepre in salmì era un piatto che faceva sognare i ricchi, certo non vi rinunciavano i poveri!
Non mancano ancora funesti passaggi di soldataglie come quella tristemente memorabile del luglio 1636 quando sui nostri paeselli si abbatté la furia devastatrice delle truppe francesi all’indomani della vittoriosa battaglia di Tornavento contro le armate spagnole; il villaggio di Torre fu quasi totalmente distrutto e Carnisio fu fortemente devastata.
Le nostre genti erano accusate di aver favorito le armate spagnole e furono punite. I Francesi furono terribili ed al loro confronto Goti e Vandali, predatori d’altri tempi, potevano essere considerati degli esuberanti monelli. Sono questi anche gli anni delle pestilenze e delle carestie. Si segnala una terribile epidemia di colera e Carnisio fu il luogo più colpito. Le grandi fosse comuni nelle quali si diede sepoltura alle vittime del contagio costituirono il primo nucleo di quello che diverrà, a partire dal 1781, il cimitero parrocchiale ora conosciuto come “Cimitero vecchio” di Carnisio.
Per via dell’epidemia, Carnisio e Cerro contano in questo periodo solo 313 anime.
Si ripetevano nel frattempo le dominazioni straniere: ognuna era portatrice di soprusi e di sventure e le condizioni di vita dipendevano ben poco dalla situazione storico-politica in atto; in altre parole un dominatore valeva l’altro, cambiavano i sonadoor, ma la musica era sempre quella. Una filosofia spicciola coniò un modo di dire che si adattava anche alle nostre realtà: “Franza o Spagna/ basta che se magna!”.
Si racconta inoltre che nel Seicento la nostra zona fosse infestata dai lupi i quali mietevano vittime anche fra le persone. Al calare delle tenebre gli abitanti si richiudevano nelle proprie case temendo le aggressioni delle feroci bestie. La strada che dal Cerro porta al Bivacco e poi ad Orino era chiamata strada del “luvet” perché era da lì che arrivavano le bestie.
L’abitato di Cerro aveva dei portoni e la sera venivano chiusi per proteggersi dall’attacco dei lupi; l’abitudine a rinchiudere alcune zone del paese si protrae fino al tardo Ottocento. Se mettiamo nel conto tutta questa serie di guai dobbiamo concludere che ai nostri predecessori toccò una vita davvero grama. Ma quanto più il ricorrente flagello delle pestilenze e delle carestie ricordava il doloroso limite umano tanto più ci si aggrappava alla fede, alla consolatrice speranza di un Al di là che ci avrebbe risarcito dei patimenti dell’ Al di qua.
Dobbiamo a questo periodo due belle chiese del nostro territorio, testimonianza congiunta di fede religiosa, orgoglio paesano, sacrificio e dedizione: la Chiesa di S.Anna. e la Chiesa di Cerro. La Chiesa di S.Anna venne costruita nel 1630 e fu dedicata anche a S.Rocco e S.Sebastiano. Sono gli anni delle grandi epidemie e, non a caso, viene dedicata a due Santi, S.Rocco e S.Sebastiano, protettori contro la peste e la carestia. La Chiesa di Cerro venne edificata nel 1689 sui resti della Cappella preesistente (già citata) e promotore dell’iniziativa fu il sacerdote Ruspini, nativo e residente nella frazione.
Sull’altare fu posta una tela raffigurante l’Annunciazione, S.Antonio abate e S.Bernardo che tiene incatenato “ur ciapin”.
(Successivamente, nel 1777, fu costruito il campanile).
La nostra popolazione, da sempre dedita alla semplice sopravvivenza, se da un lato traeva vantaggio da dominazioni più accondiscendenti (quella austriaca per esempio) dall’altro viveva le tappe più liete con la scoperta di alcuni alimenti fondamentali ed in grado di dare un po’ di sollievo alla fame ed alla miseria.
In quest’ottica, fondamentale si rivelerà la conoscenza di una nuova ricchezza della terra: il granoturco. Lo porta dall’America Cristoforo Colombo; arriva da noi solo verso la metà del sedicesimo secolo e con esso si farà la polenta.
Con l’arrivo di questo alimento la mensa dei nostri avi si arricchisce di un piatto in grado di dare finalmente soddisfazione anche agli stomaci più esigenti.
Sarà poi l’arrivo della patata a fornire un altro grosso contributo all’alimentazione dei nostri nonnetti. La chiamano pom de tèra e all’inizio viene accolta con scetticismo e diffidenza. Con il tempo, e siamo ormai nell’ 800, la diffidenza viene superata ed il risultato è provvidenziale: un sacco di povera gente trova finalmente, in questi due alimenti, l’atteso sollievo.
Anche perché patate e granoturco possedevano un requisito fondamentale: se ne poteva conservare scorte per i mesi d’inverno.
Non fu un fatto bellico a cambiare le sorti del nostro territorio, bensì queste due conquiste che ebbero un peso superiore a quello di una guerra vinta.
Il paese comincia a vivere una suggestiva ed importante condizione socioeconomica: è cioè in grado di produrre i beni ed i servizi essenziali di cui i suoi abitanti hanno bisogno.
Diventa una realtà autonoma: dai cereali agli ortaggi, dalla frutta al latte, dagli strumenti di lavoro ai vestiti è in grado di procurarsi quello che gli serve.
(Solo per pochissime cose – sale, tabacco e poco altro – è costretto a ricorrere fuori paese).
Naturalmente vi erano gli sfruttati e gli sfruttatori, le famiglie privilegiate e quelle povere. Ma lo straordinario intreccio di rapporti interni faceva vivere uno spirito di solidarietà e di mutuo aiuto estremamente vantaggioso.
Chiesa del Cerro
Cerro
Chiesa di Carnisio e Caldana
Piazza del Noce e sede Società Operaia di Caldana
Lago di Caldana
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