BREVE RACCONTO DI NATALE
di felice magnani
Nella ruota del Mulino si rincorrono voci, parole, musiche e poesie del passato, che riescono a emozionare il presente.
Professore, che bello incontrarsi dopo tanti anni.
“Si, Matteo, sono commosso. Mi sembra di essere ancora in mezzo a voi, a recitare versi. Mi piaceva tantissimo. Era un modo delicato di entrare nei vostri sentimenti per risvegliarli, per destare una natura diversa, meno fisica, più umana, più attenta ai bisogni spirituali”.
Non posso dimenticare la drammatizzazione del testo poetico, con lei che si alzava e ondeggiava con le braccia dritte verso l’alto e le mani giunte, in segno di diniego. Noi tutti insieme la seguivamo, eravamo i suoi cipressi. Le confesso che provavo una certa emozione. Anche quelli più scalmanati la seguivano senza fiatare. Crede ancora nella poesia?
“Perché non dovrei, la poesia è vita. Grazie alla poesia vedo il mondo nella sua vera dimensione, quella semplice e pura che scrutano i bambini quando scoprono una forma, un colore, un suono ed esultano alzando le braccia. Persino il pensiero della morte diventa più dolce”.
Quando arrivava a casa mia, con la sua bicicletta, provavo una gioia immensa. Mi sembrava che il mondo non fosse poi così brutto e il cuore mi batteva fortissimo. Ero felice professore, perché mi trasmetteva benessere. Un professore a casa mia… Si ricorda quella luce fioca, il gatto, il fiasco del vino? Che tempi professore, eppure le sue parole, i suoi continui incoraggiamenti, quel suo sorriso un po’ sornione che mi frustava e mi animava, mi hanno fatto crescere con una gran voglia di fare. Lei mi ha fatto capire molte cose, sa?
“Se lo dici tu. Pensa che facevo fatica a capire me stesso, non so come abbia potuto trasmettere così tante certezze. A volte ti sembra di essere un fallito e poi ti accorgi che hai fatto sorridere la tristezza, che hai trasformato la disperazione in speranza. Varrebbe la pena essere maghi. Quanti soldi avrei guadagnato, se avessi fatto il mago. Forse ho sbagliato tutto: tante prediche, frasi, parole, quando ne sarebbe bastata una sola, quella magica, per cambiare il destino delle persone. Mi stai facendo venire dei dubbi”.
No professore, lei è nato per essere quello che è. Anche quando si arrabbiava lo faceva per il nostro bene. Si appassionava e ci appassionava. Quando si arrabbiava per quella scuola scalcinata la capivo sa, capivo che avrebbe voluto farci vivere in un ambiente più accogliente, anche quella professore era poesia, poesia della dignità. Lei si preoccupava un po’ per tutto e credo che in qualche caso abbia anche sofferto. Noi giovani siamo terribili, ma ci accorgiamo di tutto, persino delle nostre carognate. Quello che non capivo allora lo capisco molto bene ora, se non ci fosse stato lei, non so come sarebbe finita. E’ difficile vivere per anni in un luogo distante sette chilometri dalla scuola, senza acqua e con i servizi all’aperto. Si ricorda quei momenti? Sognavo. Sognavo una vita normale, una famiglia, un lavoro, dei figli, sognavo quello che lei ci raccontava in quelle bellissime giornate d’autunno, quando il racconto diventava progetto e le sue parole avevano il sapore della speranza. In quei momenti non mi interessavano l’italiano, la matematica e la storia, mi interessava ascoltare qualcuno che credeva in un futuro migliore per quelli come me. Lei mi ha insegnato che la scuola aiuta ad amare la vita, a sviluppare quello che portiamo dentro. Mi ha comunicato il rispetto e la stima, l’amore e l’affetto, quello di cui avevo più bisogno in quel momento. La sera, prima di addormentarmi, guardavo il cielo e contavo le stelle. Mi tuffavo nel grande cuore rotondo della luna e proiettavo le mie frustrazioni nella speranza delle sue parole, così mi sembrava tutto realizzabile. Mi sarebbe piaciuto diventare un buon padre, un nonno pieno di premure. Avrei voluto trasferirmi in un centro più grande e lavorare. Ricordo che lei diceva sempre che il lavoro era l’ancora di salvezza, il primo passo verso l’affermazione di sé, in un mondo spietato. Lei è stato molto importante per quelli come me. Noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci riconcili con la realtà, che ci faccia sentire uomini, persone in grado di costruirsi un futuro senza piangersi addosso, lottando contro tutte le sfortune, con volontà, determinazione e coraggio.
“Matteo, ora sono io lo scolaro che ascolta il suo giovane maestro è una parte che accetto volentieri, mi fa sentire di nuovo protagonista. Dimmi quello che il cuore ti suggerisce. E’ bello ascoltare la voce del cuore, ha tante cose da raccontare, tante emozioni da comunicare”.
Matteo avrebbe voluto accarezzarlo. In quel momento non era più il professore, era una persona cara, che aveva fatto parte della sua vita, era l’amico a cui ci si rivolge per ricominciare a credere.
Professore, ricorda la storia delle mollette? Era quasi Natale e tutti i miei compagni usavano un lucido speciale per rendere più gradevole la costruzione da regalare ai genitori. Tutti lo avevano, io no. Io non potevo permettermi un briciolo di spesa in più e questo mi faceva soffrire, perché avrei voluto dare il massimo, dimostrare a mio padre che ero bravo come i miei compagni. Lei mi passò accanto e mi disse: “Non ti preoccupare, domattina avrai anche tu il tuo lucido”. La osservai con un pizzico di sospetto, ma il tono della sua voce non tradiva alcuna menzogna. Fu così che nacque la mia stima nei suoi confronti. Era destino che dovessi diventare suo alunno, infatti mi bocciarono e la bocciatura fu la mia fortuna, perché arrivai nella sua classe. All’inizio avevo un po’ di timore, perché dicevano tutti che era severo, anzi, molto severo. Vorrei che tutte le persone avessero un po’ della sua severità, credo che il mondo sarebbe diverso. La sua severità era affetto vero, era il desiderio di trattarci non come alunni, ma come persone.
Il professore fissò Matteo.
Avrebbe voluto abbracciarlo, avrebbe voluto ringraziarlo, l’emozione era troppo grande, ma si trattenne. Matteo si accorse, sorrise e una lacrima gli scivolò via sulla guancia.
Professore, deve essere stata dura la gavetta?
“Ebbene sì, l’università, l’esame di concorso, il corso abilitante e infine dover attendere che qualche collega si ammalasse per poterlo sostituire. Capisco che non sia entusiasmante attendere le malattie degli altri. Se tutto andava per il meglio si poteva iniziare subito, altrimenti bisognava accontentarsi di un po’ di giorni da una parte e dall’altra. Come sempre accade, c’erano i fortunati e i meno fortunati. La gavetta è stata dura, ma straordinariamente bella nella sua durezza. Nella difficoltà ho imparato a conoscermi e a stimare quella parte di me che giaceva addormentata in uno spazio solitario dell’io”.
E’ stato fortunato?
“Sono nato come educatore, infatti le mie prime esperienze le ho vissute con i giovani di un collegio. Niente giacche blu, niente gerarchie, niente affetti: solitudini, abbandoni, caratterialità diffuse, orfani, questi sono stati i miei primi compagni di viaggio. Con loro ho vissuto momenti educativi di grandissimo spessore umano, con loro ho imparato a capire l’umanità sofferente, quella che non ha mai conosciuto padre e madre, in alcuni casi figlia delle prostituzioni, dell’alcol, degli abbandoni volontari, assetata di tante cose, soprattutto di affetto. Passavo le mie domeniche con loro. Santa Messa in Duomo, partita a calcio, il pomeriggio in giro per la provincia e la sera a casa. Il collegio era una struttura concepita secondo gli stili architettonici dei vecchi ospedali, con cameroni e camerette, bagni singoli e comuni, un misto di collettività e di individualismo, di furbizia e di arretratezza culturale. Per loro ero tutto: educatore, insegnante, un po’ padre, un po’ madre, amico, confidente e, qualche volta, una sorta di fra’ diavolo, nel senso che non tolleravo le soverchierie e la mancanza di rispetto, da qualunque parte arrivassero. Avevo stabilito un ottimo rapporto comunicativo, anche se ogni tanto dovevo mettere qualcuno sull’attenti. Come calciatore mi facevo rispettare, a ping-pong tutti volevano sfidarmi, insomma ero un osso duro e a loro piacevo così, buon segno, mi consideravano, erano attratti dalla mia personalità, una bella sfida insomma. Ho trascorso interi pomeriggi a parlare di paternità e di maternità, ma senza esagerare. Per arredare i loro cameroni freddi, nudi e disadorni, spendevo quasi tutti i soldi che guadagnavo. Compravo poster da appendere ai muri, li portavo in giro in macchina, compravo loro il gelato, avevo sempre la mano nel portafogli, ero contento. E’ stata un’esperienza bellissima. Ricordo un tizio che, subito dopo la cena, prendeva i piatti e li faceva volare, seminando il terrore tra i compagni e gli educatori, che le avevano provate tutte, senza esito. Una sera gli parlai con le buone maniere, ma fece finta di niente, cercava la sfida. La sera successiva gliela concessi. Usai la fermezza e lui capì. Era una fermezza che andava dritta al cuore, ma senza sconti. Era il tipo di umanità che adoravo. I ragazzi avevano imparato a volermi bene, per loro ero uno di cui si potevano fidare.
Professore, perché non ha continuato?
“La scuola, caro Matteo, lo stipendio sicuro. Ho iniziato a frequentare le scuole forte dell’esperienza che avevo vissuto in collegio. I ragazzini delle scuole medie erano molto più viziati, diffidenti, estremamente critici. Preferivo i “pazzerelli dell’Ospizio”, carichi di un’ umanità infinita. Non si lamentavano mai, mentre i figli della fertile civiltà contadina , della ricca borghesia commerciale e della feudalità terriera manifestavano un discreto livello di pettegolezzo salottiero, quello che rende tutto più difficile”.
Professore, sa che Pietro occupa un posto di rilievo in una grande fabbrica? Se lo ricorda vero?
“Come faccio a non ricordarlo. Quando la preside mi chiamò per dirmi se volevo un diavolo fresco di bocciatura, per me fu una gioia incredibile. Finalmente avevo un osso duro, uno in più con cui misurarmi. All’inizio dell’anno ci studiavamo. Mi accorsi subito che aveva affetto da vendere e da ricevere. Aveva solo bisogno di un diavolo come lui che gli tirasse fuori quello che aveva dentro. Vedi Matteo, non esistono alunni cattivi. Ci sono quelli che vogliono fare i furbi e ti mettono alla prova perché vogliono conoscerti, vogliono scoprire chi sei, come ti comporti, vogliono capire le tue reazioni. Lo fanno talmente bene e in modo naturale, che vorresti scappare dall’aula e cambiare lavoro. Ma è solo un problema di cuore. Tocca il loro cuore e te li troverai davanti con un sorriso largo come una falce. Sono lì che pendono dalle tue labbra, aspettano un bravo, quel bravo che nessuno ha mai detto loro, neppure i genitori. Pietro aveva solo bisogno di uno che lo facesse crescere. La Storia, la Matematica, la Geografia a volte servono a volte no, è solo un problema di intuizione, di capire le necessità del momento. Ho incontrato colleghi che conoscevano tre lingue, tutte le date degli avvenimenti storici, erano dei veri e propri maghi del sapere e se ne vantavano. Entravano in classe ed era come se non esistessero. I ragazzi parlavano di calcio, di cotte, di belle ragazze, di partite al pallone, se ne fregavano insomma, perché non “sentivano” l’insegnante, non lo percepivano neppure come presenza fisica e sai perché? E’ semplice: avrebbero potuto sostituirlo tranquillamente con il libro di testo, con il vantaggio che lo avrebbero fatto in un luogo meno opprimente”. E’ vero professore, spesso stare troppo in classe immobilizza il cervello. Mi ricordo quando ci accompagnava a fare quelle bellissime passeggiate attraverso le vie del paese e nei dintorni, raccontandoci fatti e misfatti di ville, palazzi, giardini. A noi bastava pochissimo: respirare un po’ di ossigeno, fare una corsa in mezzo a un prato, nasconderci tra gli anfratti della valle. Torrenti, ruscelli, alberi, rocce, paesaggi, avevamo la geografia davanti a noi, illuminata da una luce solare che ci riconciliava con la scuola e con noi stessi. Mi ricordo che un pomeriggio si lasciò scappare una frase che mi fece riflettere:
“Se dipendesse da me, farei esattamente come il vecchio Socrate, che portava a spasso i giovani della città, alla ricerca della verità”.
“Riuscivo a farmi capire?”.
Lei condivideva le nostre stesse aspirazioni, vivere in una scuola più aperta al mondo, alla realtà, un tipo di scuola che non fosse prigioniera di quattro muri.
“L’ambiente ha sempre esercitato su di me un fascino particolare”.
Professore, non si può negare il passato, far finta di niente. Se lei oggi è così, è perché ha vissuto il tempo della mietitura e quello della vendemmia. La invidio, avrei voluto vivere anch’io in quell’epoca senza rumori, senza veleni, animata dall’allegria della gente, felice di poter respirare la dolce brezza della pace, della collaborazione e della concordia. Avrei voluto salire su un carretto trainato da un cavallo o da un asino e lasciarmi trasportare nella valle dei sogni. Di questo la ringrazio professore, di averci raccontato tante cose belle, mentre intorno a noi la droga distruggeva molte speranze.
“Non credere che fossero tutte rose e fiori, anche la campagna aveva i suoi difetti, le sue incrostazioni. I bravi e i cattivi ci sono sempre stati.
Professore, c’era più poesia ai suoi tempi?
“Poesia, forse sì e forse no, credo che tutto possa diventare poesia, dipende da come osserviamo la realtà, dai nostri sentimenti, da come ascoltiamo, parliamo, viviamo. Vedi Matteo, la poesia non nasce dal nulla e non esiste a priori, nasce e cresce con noi, è una finestra che spesso teniamo chiusa per paura di perdere il contatto con la realtà. La poesia vive nel nostro cuore, nella nostra mente e a volte non ha neppure bisogno di regole e misure per manifestarsi, basta lasciarle un po’ di spazio e prestarle un po’ di attenzione. La poesia è più di una semplice articolazione rimata, di una sillabazione controllata, di un perfetto orologio svizzero, è lo stato d’animo con cui osserviamo le cose che ci circondano, le emozioni, la capacità di capire che il sole non riscalda solo un corpo infreddolito, ma anche alcune zone d’ombra della nostra mente e del nostro cuore”.
Ricordo che lei, in classe, sedeva sempre dove poteva incontrare il sole e si arrabbiava moltissimo quando noi alunni le chiedevamo di abbassare le tapparelle.
“Come si fa a rifiutare un raggio di sole, bisogna essere matti a stare con le luci al neon. Ricordo benissimo quelle sfuriate, avevi ragione, forse non tenevo conto del fatto che a qualcuno potesse dare fastidio, ma per me era assurdo, capisci, assurdo che si dovesse rifiutare la luce solare, così radiosa, così piena di allegria e di felicità. Che egoista, volevo il sole tutto per me”.
A proposito professore, come sono i rapporti con i ragazzi?
“Ai miei tempi un buon insegnante sapeva sempre capire i propri alunni, con le dovute eccezioni, s’intende. Ho dei ricordi terribili legati a un’insegnante che si è presentata il primo giorno di scuola, così: “In quanti siete, vediamo un po’… trentatré. Sappiate che solo una quindicina di voi avranno il privilegio di frequentare la classe successiva. Una parte verrà bocciata e l’altra si ritirerà. Fate bene i conti dunque e auguri”. Ci guardammo in faccia spaventati. Non era ancora iniziata la scuola e già entravano in funzione la tachicardia e la paura del collegio. Un giorno mi scrutò e mi disse: “Non guardarmi con quegli occhi, tanto lo so che mi odi, portami il diario”. Mi sentii scoppiare il cervello. Consegnai il diario e mi chiusi in un silenzio di tomba. Ecco Matteo, quell’insegnante avrebbe avuto bisogno di un bravo psicologo che la guidasse in un chiarificante percorso introspettivo. Come vedi, anche ai miei tempi la realtà non era sempre poesia”.
Lei ha sempre avuto un debole per Giuseppe Ungaretti. Mi sono chiesto come mai potesse amare contemporaneamente due autori così diversi, tecnicamente e caratterialmente diversi come Carducci e Ungaretti. Da una parte i cipressi, i ricordi dell’infanzia, una poesia musicale al punto da poter essere cantata, dall’altra la sintesi ridotta a parola, la nuda essenza di un suono trasformato in immagine della quotidianità. Il racconto poetico carducciano e le monadi ungarettiane, impregnate di volti e corpi massacrati, di brandelli di muri. Da una parte il dilemma esistenziale, la dialettica dell’essere o dell’avere, dall’altra la sconcertante realtà della guerra, la sua assurdità, l’assurdità dell’uomo che uccide in nome dell’ideale.
“In entrambi esulta la vocazione alla italianità, vissuta nelle sue forme umane e culturali, poi tutto converge e si eleva nella poesia, la forma espressiva più alta e sublime, capace di regalare emozioni uniche, irripetibili. Ho amato entrambi e li amo ancora, perché mi hanno insegnato ad amare la musica, la campagna, l’arte, la buona tavola, la patria, mi hanno fatto scoprire quel mondo delle emozioni che cambia la vita, che fa sentire parte di un mondo fantastico e meraviglioso”.
Cosa pensa della tragedia americana: New York, le due Torri, il Pentagono, il terrorismo, la guerra in Afghanistan, Hamas, la guerra tra la Russia e l’Ucraina
“Caro Matteo, alla mia età si vede tutto in una luce diversa, molto spesso, il particolare diventa universale e l’aspirazione alla saggezza porta a fare considerazioni che potrebbero avere dell’incredibile nella temporaneità dell’evento. Di una cosa sono più che certo, il terrorismo, la violenza e la guerra devono essere combattuti, da qualunque parte arrivino. La punizione è necessaria per chi si è macchiato di gravi atrocità. Il mondo è grande, ci deve essere posto per tutti, soprattutto per i più deboli, i più poveri, i sofferenti, i perseguitati, coloro la cui unica colpa è stata quella di essere nati dove la miseria regna sovrana e dove le malattie mietono milioni di vittime. Il mondo non può stare a guardare, deve operare perché la pace si fondi su una vita dignitosa, perché l’uomo non viva di elemosine, ma di conquiste sociali e morali. Per fare questo occorre mettere da parte gli egoismi e rispettare la libertà di tutti, aiutare tutti a trovare il filo della propria identità.
Professore, quando vivevo nella roulotte, senz’acqua e senza il necessario, stavo malissimo, posso capire chi vive l’abbandono, posso capire il desiderio di migliorare, di rendere più dignitosa la propria esistenza, sono aspirazioni più che legittime.
“Matteo, l’odio non nasce all’improvviso, molto spesso si accumula nel corso del tempo e può determinare situazioni d’inaudita violenza. Chi ha subito per troppo tempo la miseria e la violenza, reclama una giusta misericordia, urla il proprio dolore, i bisogni più impellenti. Gli uomini devono manifestare la volontà di costruire un mondo più giusto, fondato sull’amore e non sull’odio. Fino a quando tutto verrà delegato alla forza, all’interesse e alla ricchezza, sarà difficile vivere in pace. E’ facile parlare, più difficile è aiutare concretamente chi ha bisogno. E’ tempo di smetterla di spettacolarizzare la fame, la malattia, la morte, la guerra, è tempo di distribuire equamente le risorse, di invitare al banchetto tutti coloro che non hanno voce perché hanno la pancia vuota”.
Professore, crede ancora nella politica?
“Ho dei bellissimi ricordi di gioventù, quando iscriversi al partito significava prolungare un’esperienza di fede nei valori della civiltà. Per noi giovani la politica era cultura, dibattito, discussione su temi e problemi che ci coinvolgevano, era condivisione di modelli ampiamente sperimentati e vissuti nelle nostre esperienze famigliari. La vivevamo senza tensioni, senza pensare a chi dovesse fare il presidente o il segretario, con la curiosità di chi si sentiva crescere, maturare. Ecco Matteo, la politica ci faceva sentire più grandi e ci aiutava a capire un pochino di più la realtà. Perché la DC? Perché la identificavamo nelle persone che frequentavamo, quelle in cui riponevamo tutta la nostra fiducia. I nostri avversari non erano gli altri partiti, come sarebbe successo in seguito, erano i problemi irrisolti, quelli dei più deboli, dei portatori di handicap, dei giovani e degli anziani, delle persone sole e ammalate. Allora ero membro della San Vincenzo, un’associazione che si occupava dei poveri della parrocchia. Anche quello era un modo di far politica, nel senso più trasparente e letterale del termine. Pensiero e azione si coniugavano meravigliosamente bene, grazie all’insegnamento di bravissimi educatori”.
Professore, quali erano i valori fondamentali della sua vita?
“L’importante era fare bene quello che dovevo fare, con impegno, serietà e convinzione. Credevo negl’ideali che s’ incarnavano in valori come l’onestà, il rispetto, la coerenza, insomma, mi bastava sapere di aver fatto fino in fondo il mio dovere. Ho sempre pensato che un partito con una forte connotazione cattolica avesse in sé lo Spirito Santo, la capacità di purificarsi, di confessare le proprie colpe e seguire la retta via, ma le mie convinzioni si sono rivelate inutili. Per la mia coerenza non ho mai fatto carriera, ma ho visto molti amici e conoscenti finire stroncati da un’inquisizione impietosa. Devo confessarti che mi sono sentito crollare il mondo addosso e credo che la mia stessa sensazione sia stata provata da coloro che credevano nei valori veri della politica, quelle persone che anteponevano i bisogni e le necessità del popolo a quelli personali”.
Se non ci fosse stato lei forse oggi non sarei qui, felice di poter realizzare quegli obiettivi che erano il sale della sua educazione. Vede professore, lei ha fatto molto per noi ragazzi; quello che lei ha detto e ha fatto lo porteremo avanti, non si preoccupi.
Il professore ascoltava Matteo e nelle sue parole coglieva quello che lui aveva sempre sognato, un mondo migliore, dove libertà e democrazia avessero un valore sacrosanto anche per la gente umile, quella che aveva vissuto credendo nella pari dignità, nel diritto e nel dovere, nei meriti e nelle capacità.
Professore, avrebbe mai immaginato un’Italia così multietnica, una scuola così ricca di culture, razze, lingue, tradizioni. Cosa pensa professore di queste novità?
“I flussi migratori sono sempre stati fenomeni che hanno attraversato in lungo e in largo la storia di molti paesi. Pensa a tutti quei nostri compatrioti che sono partiti per le Americhe con quattro stracci e un mare di speranze. Quante privazioni, abbandoni, tristezze, quante sofferenze in nome di un lavoro e un po’ di benessere. Molti ce l’hanno fatta, hanno lavorato con grande coraggio, raggiungendo posizioni di prestigio nei vari campi dell’economia, della politica, della cultura, della finanza. Qualcuno ha anche intrapreso le vie del vizio e della delinquenza organizzata, mettendo in evidenza l’altra faccia della verità. In molti casi la volontà positiva ha prevalso su quella negativa e molte opere importanti, nel mondo, portano la firma della nostra gente. Gente nostrana, legata alla famiglia, al paese lontano, gente che si è fatta benvolere un po’ dappertutto. Oggi siamo noi a dover accogliere. Esiste il problema dei clandestini, uomini senza identità che navigano tra stazioni e giardini pubblici, tra paesini di montagna e città, preda molto spesso della malavita. L’Italia deve essere accogliente nei confronti di tutti coloro che intendono rispettare le sue regole e che dimostrano di volersi integrare, abbiamo il compito di aiutare chi è venuto da noi per realizzare una speranza.
Non crede, professore, che le religioni dovrebbero aiutare gli uomini a vivere in pace? Non crede che un po’ più di onestà e un po’ meno ipocrisia potrebbero migliorare le condizioni di vita di milioni di uomini?
“Ogni religione contiene valori e orientamenti costruttivi, ma un pizzico di sano realismo e un po’ di razionalità non fanno certamente male. L’Aldilà appartiene a Dio e solo Lui conosce i destini dell’umanità. Dio non è un simbolo nelle mani di qualcuno, non è neppure un sussurratore di omicidi e di stragi. Dio ha creato l’uomo perché potesse apprezzare l’intensità dell’amore. Dio è amore e l’uomo è responsabile delle sue azioni”.
Professore, ho l’impressione che nel mondo ci siano troppi ricchi e troppi poveri, che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
“Stai dicendo delle cose molto giuste. Il Comunismo ha creato l’illusione dei poveri che avrebbero annientato i ricchi e che avrebbero finalmente incontrato il paradiso terreno. Il Capitalismo ha quadruplicato le ricchezze dei paesi già ricchi, creando il mito della forza e della invincibilità, lasciando i poveri dell’altra parte del mondo nella fame e nella povertà. E così siamo sull’orlo di una guerra planetaria, disorientati e stanchi, confusi in un materialismo senza speranza. Sentiamo parlare di antrace, carbonchio, vaiolo, nucleare, bombe, missili, siamo a un passo dal salto nel vuoto, eppure continuiamo a scannarci a vicenda, a demolire le ultime certezze. Ci sono uomini che hanno subito processi ingiusti, immolando la loro purezza sull’altare di una giustizia a volte ingannevole”.
E della libertà, hai qualche ricordo?
Come potrei, professore, dimenticare l’entusiasmo e la passione delle sue interpretazioni, arrivavano direttamente al cuore. Mi piaceva tantissimo lo spirito patriottico di Alessandro Manzoni, il suo desiderio di libertà, di unità, la sua voglia di vivere in un paese liberato finalmente dall’ombra persecutoria dello straniero. Ricordo le sue disquisizioni sul concetto di libertà e in particolare mi aveva colpito un aneddoto, tratto da un film di cui non ricordo il titolo, che lei ci raccontava per farci capire meglio il significato della parola libertà. Diceva così…:“Al termine della guerra tra Nord e Sud, negli Stati Uniti d’America, fu abolita la schiavitù. Il padrone chiamò accanto a sé gli schiavi e indicò loro il grande cancello affermando: “Potete andare, siete liberi. Raccogliete tutte le vostre cose, la schiavitù è finita. Gli Stati del Nord hanno vinto la guerra, questo è il vostro giorno. Gli schiavi si guardarono meravigliati, osservarono bene il padrone per essere sicuri delle sue parole e poi s’incamminarono verso l’uscita, salutando con cenni di riconoscenza. Camminarono, camminarono e, mentre camminavano, si guardavano attorno, respirando a pieni polmoni, ma giunse la sera. Faceva freddo e non avevano coperte per riscaldarsi, avevano fame e non avevano nulla da mangiare, avevano sonno e non sapevano dove andare a dormire. Si guardarono in viso, rivolsero lo sguardo verso la villa del padrone e decisero di tornare a essere schiavi, per lo meno avrebbero evitato di morire di stenti. Arrivarono al cancello e suonarono. Il padrone si affacciò al balcone meravigliato e affermò: “ Ma siete liberi, cosa volete da me?”. “Un posto per dormire, padrone e un piatto di minestra, per mangiare”. “Padrone, noi non sappiamo che cosa sia la libertà. Vogliamo rimanere qui con lei, la preghiamo di volerci accogliere, faremo tutto quello che vorrà”. Il padrone sorrise, sapeva benissimo che la libertà non era un’improvvisazione, ma una faticosa costruzione educativa. La libertà non s’inventa e Alessandro Manzoni ce lo ha insegnato, con tutto l’amore possibile, nel suo romanzo, quei Promessi Sposi che sono stati il motivo conduttore della nostra storia scolastica.
“Sei bravissimo Matteo, ti ricordi proprio tutto, persino la storiella sulla libertà”.
Professore, grazie alla sua storiella io ho costruito la mia libertà e oggi mi sento un uomo felice e realizzato. Lei mi ha fatto capire che la libertà è una conquista quotidiana e che bisogna difenderla e potenziarla ogni giorno, non a danno di altri, come fa qualcuno. Sono un po’ retorico, professore?
“Meglio essere un po’ retorici che menefreghisti. Vedi Matteo, molti uomini pensano che essere liberi significhi fare tutto quello che si vuole, vedono nella libertà la proiezione del proprio egoismo e così ne combinano di tutti i colori. Rubano, oltraggiano, offendono, aggrediscono e poi si nascondono dietro l’albero dell’omertà, protetti in molti casi da una legge che si presta a cento interpretazioni diverse. Vuoi un consiglio? Fai sempre il tuo dovere, fai valere i tuoi diritti, rispetta tutti, ma fatti rispettare, è così che deve fare un uomo. L’altruismo, in qualche caso, viene scambiato per debolezza, l’umiltà per ignoranza, l’accoglienza per dovere, la riservatezza per incapacità. Se vali e sai fare bene il tuo lavoro faranno di tutto per evitarti, faranno finta di non conoscerti, ma tu non devi mollare, perché il tempo è un giudice implacabile, condanna le sopraffazioni e restituisce la dignità”.
Professore, certo che viviamo in un mondo che lascia poco spazio alla poesia e la prosa è quasi sempre drammatica, intrecciata di cronaca nera, di persone che ammazzano, rubano, rapinano. Viviamo in una società che alimenta troppo la concorrenza. La ricchezza, quando diventa modello, costume, spettacolo, alimenta l’odio, spinge l’uomo comune a ricercarla seguendo strade sbagliate, scorciatoie di morte fisica e morale. Credo che gli uomini dovrebbero abbandonare per un attimo la corsa al successo, per dedicarsi alla lettura di opere antiche, di grandissima attualità. Spesso ci lasciamo condurre da una pubblicistica priva di contenuti propositivi, ci lasciamo sopraffare dalla strumentalizzazione di libri che accendono aspirazioni negative e svuotano la vita dei suoi contenuti più veri e naturali, tutto per una questione di emulazione, di pianificazione informativa. Mi mancano tantissimo I PROMESSI SPOSI. Si ricorda professore come ascoltavamo quelle letture cariche di umanità? A volte sognavo di strappare la mia “Lucia” dalle mani di un birbante con la stessa tenace passionalità di Renzo, sognavo di conquistare il suo cuore dimostrandole la mia serietà di uomo, il mio impegno di lavoratore. Mi piaceva tantissimo la figura dell’Innominato, la sua conversione, l’incontro con quel sant’uomo del cardinale Federico Borromeo. A volte mi domando se in tempi come questi, battuti dal vento della ricchezza, del potere e del successo, non ci sia ancora un po’ di spazio per la santità, ci sarà ancora qualcuno mosso dallo spirito santo a far del bene alla povera gente, a sopportare il peso delle nequizie del mondo per la redenzione dell’umanità, come il Papa, ad esempio. Mi piace questo papa, è una presenza universale che attraversa tutti i cuori della storia, lasciando gli animi nell’atto di una profonda riflessione sul senso della vita e sui suoi valori.
“I santi sono tra noi, caro Matteo, forse in una dimensione più umana e il loro operare è silenzioso, ma estremamente efficace. Ogni vita salvata è un miracolo, ogni essere umano restituito alla sua dignità è un miracolo. A volte mi arrabbio quando penso a tutte le difficoltà che incontrano le persone buone. Forse i miracoli sono più immediati, vivono nello spirito e nella sua volontà di attualizzarsi, di rendersi servizio, sofferenza, carità, amore. I miracoli vivono attorno a noi e magari ne siamo testimoni ogni giorno, ma non abbiamo né il tempo né la voglia di accorgercene, perché il benessere copre tutto, getta ombre sulla luminosità della vita umana. Vedi Matteo, invecchiando si tende a criticare, ma una cosa è certa, la fede deve ritrovare la via dell’umiltà, dell’operosità e dell’esempio, la via dell’interiorità. Abbiamo bisogno di rileggere la vita di Francesco d’Assisi, il Cantico delle Creature, i fioretti, l’Imitazione di Cristo, per capire quanto sia bello ciò che stiamo distruggendo. Ben vengano associazioni, movimenti, partiti, ma le regole sono già state tracciate molti secoli fa e propongono l’unica via della salvezza, l’amore. Chi non ama non potrà mai capire il significato vero di parole come famiglia, fratellanza, bene, ecologia, rispetto, solidarietà.
Professore, più si cerca di educare e più l’uomo tende a sfuggire i principi elementari dell’educazione.
“L’uomo crede di comprare il mondo con i soldi. Crede tante cose, ma alla fine si distrugge con le proprie mani, diventa vittima della propria furbizia. Per il denaro ci sono stati che producono la follia dell’onnipotenza. C’è gente che muore di fame e di malattie, ma i loro stati spendono i soldi per comprare armi, per costruire la bomba atomica. Miliardi e miliardi che potrebbero salvare tante vite umane. L’uomo si è dimenticato del suo prossimo, non conosce più la dolcezza di un sentimento, non ha più tempo per ripercorrere la sua storia, per riconoscersi, per dialogare in modo disteso, con la realtà che lo circonda, in molti casi è ancora vittima della guerra, non riesce a perdonare.
Professore, la storia non è cambiata. Lei ci parlava di colonizzazioni, di guerre, conquiste e di prevaricazioni. Mi ricordo il suo amore per gl’indiani d’America, per l’orgoglio e la fierezza con cui avevano saputo sfidare i sistemi di un mondo poco incline al diritto, tutto teso all’affermazione di una civiltà onnipotente, dominata dal ferro, dalle armi, dalla voglia di negare la diversità. Ricordo il rispetto che manifestava per gl’indios della foresta amazzonica, quasi completamente sterminati dall’inciviltà dell’egoismo, dalla violenza di persone senza scrupoli, mosse unicamente dal desiderio di accumulare ricchezze e denaro. C’è ancora troppa gente che muore per mancanza di cibo e che vive forme di sottomissione e di schiavitù ben più pesanti di quelle determinate dall’incubo delle armi.
“Il mondo vive ancora la schiavitù della guerra, del terrorismo, della violenza in generale, non ha capito la lezione, si rifugia nel sogno, pensando di svegliarsi un mattino e di veder cancellate tutte le iniquità. Bandiere di ogni colore si appropriano di un affetto, di un sentimento, di una visione miracolistica della realtà, sventolano tra purezze e iniquità, tra realismo e utopia, mettendo a nudo l’impotenza umana. Non è con la violenza che si costruisce il bene, ma con un’equa distribuzione delle risorse. Non è possibile che una parte del mondo sia in paradiso e una viva all’inferno. Se ciò esiste è perché c’è qualcosa che non va nel rapporto tra i popoli”.
“Professore, ma allora la poesia è utopia?”.
“Vedi Matteo, è un po’ come dire non credo più e non vado più in chiesa perché quel prete si è comportato male. La fede è fede, o ce l’hai o non ce l’hai, però puoi sempre metterti in una condizione di accoglienza, di disponibilità. Se ami la poesia, puoi continuare ad amarla anche se il mondo va improvvisamente con le gambe per aria. E’ un problema tuo e di nessun altro. Ci sono uomini e donne, giovani e anziani che hanno trovato nella poesia uno strumento di redenzione, un modo per esprimere se stessi, i propri sentimenti, i propri valori. Non è necessario essere dei Leopardi o dei Montale, a tutti è riservata la possibilità di uscire allo scoperto, di dare libero sfogo a ciò che portano nel cuore. Poetare significa conoscersi sempre un pochino di più, scavare nel proprio io, alla ricerca di quella ricchezza interiore che ognuno di noi ha, ma che lasciamo in soffitta, permettendo al tempo di coprirla di polvere e di ragnatele. Sono convinto che la poesia aiuti a riproporci in modo nuovo rispetto alla realtà. Anche i pompieri di New York hanno scritto pagine di poesia: immagini, sguardi, atti e parole che rimarranno nella memoria storica di tutti quei cittadini che amano la pace e la democrazia”.
Professore, non è cambiato. Mi può spiegare un segreto? Come mai ha fatto scrivere migliaia di poesie ai suoi allievi e lei ne ha scritte pochissime?
“Ti sembrerà strano, ma ho tentato più volte, nella mia solitudine, di scrivere versi, di chiudere l’immagine o un pensiero in una parola, ma la poesia mi piaceva scoprirla soprattutto negli altri, nelle persone che mi passavano accanto e mi regalavano un pizzico del loro affetto, della loro stima. Mia moglie e mia figlia sono state la mia poesia quotidiana. Da loro ho imparato l’armonia del verso, la sua unità sintattica, l’intensità di una pausa, la felicità di una scoperta. Grazie a loro ho comunicato stati d’animo ed emozioni a giovani nei quali ho creduto, anche se da qualcuno sono stato tradito. I giovani tradiscono, caro Matteo e in molti casi dimenticano che tu sei stato una parte importante della loro vita, soffrendo le loro stesse sofferenze. Per fortuna non sono tutti uguali, ci sono ancora ragazzi che conoscono il significato dell’impegno, il sacrificio, l’altruismo, la generosità. Dipende molto dalla famiglia. Ci sono famiglie che amano e seguono i propri figli, altre che si disinteressano dell’educazione. In molti casi la famiglia non aiuta la scuola, la colpevolizza o la carica di tutte le responsabilità immaginabili, per ripulire la propria coscienza. I figli vivono sempre meno con i genitori, parlano pochissimo e quel poco dialogo rimasto si consuma tra una forchettata e l’altra. In alcuni casi le famiglie non esistono proprio, sono completamente assorbite dal lavoro quotidiano”.
Professore, deve essere bellissimo stare con i propri figli, parlare, giocare, sentirli vicini. Io farò di tutto per non disattendere le loro curiosità, le loro giuste aspirazioni. Vedrà che sarò una bravo padre, severo se sarà necessario ed estremamente attento ai loro bisogni e alle loro necessità.
“Non ne dubito, credo che la vita ti abbia insegnato molte cose, ma credo soprattutto alla tua serietà. I figli hanno bisogno della famiglia e ricordati che non esistono famiglie perfette. I figli lo imparano presto, ma se ben educati sanno valutare ciò che conta. Cerca di conoscere tuo figlio, di essergli amico, ma soprattutto padre. Sii autentico nel bene e nel male, nella vita di tutti i giorni. Non aver paura di mostrare i tuoi difetti, tutti gli uomini ne hanno, anche quelli che vengono giudicati perfetti. Proteggilo il giusto, ma non essere complice delle sue marachelle, hanno un prezzo. Ci sono genitori che per aver protetto figli mascalzoni, pensando di fare il loro bene, si sono ritrovati figli disadattati, incapaci di affrontare le difficoltà della società: lavoro, rapporti interpersonali, matrimonio. Alla fine si sono pentiti, ma ormai era troppo tardi. Difendendoli sempre hanno creato esseri fragili, incapaci di prendere decisioni, di affrontare le difficoltà. Vedi Matteo, le vere sberle della vita sono i fallimenti e di fallimenti, oggi, ne vediamo parecchi”.
Professore, si ricorda quando ci raccontò la sua prima esperienza? Per noi ragazzi fu una scoperta bellissima, perché fu proprio allora che imparammo ad apprezzarla sia come persona, sia come insegnante.
“E’ stata un’esperienza indimenticabile, difficile, ma stupenda. Quando il vecchio preside mi chiamò per la supplenza annuale, confesso che provai una certa emozione. Mi fissava con quei suoi due occhietti penetranti e, nel frattempo, cercava le parole e le frasi più adatte per rendere meno traumatica la presentazione delle due classi nelle quali avrei dovuto insegnare. “Deve sapere, caro professore, che se vuole guadagnarsi la pagnotta per tutto l’anno, dovrà vedersela con alunni un po’ particolari. Non le dico di più, veda lei. Qualcuno prima di lei ha tentato, ma se n’è andato via quasi subito, non ha retto l’urto”. Quando entrai nella terza A, gli alunni erano seduti sui davanzali delle finestre. Li salutai e li invitai a sedersi nei banchi, ma nessuno fece una piega, rimasero dov’erano. Cercai di capire, ma fu difficile. La mia voce si perdeva tra le vecchie pareti dello stanzone e non sortiva alcun effetto. Loro si guardavano in viso, certi di poter imporre le loro condizioni. Avevano fatto male i conti, perché non ero tipo da rinuncia. Gli alunni di prima A erano anche peggio. Giravano per i banchi, correvano in girotondo, urlavano ed era come se l’insegnante non esistesse. I miei colleghi più anziani facevano lezione sulla porta d’ingresso o stavano spesso a casa per esaurimento nervoso. Dovevo inventare una strategia. I primi giorni furono i più terribili, parole, frasi, sguardi, occhiate furtive, sorrisi beffardi, tentativi. In certi casi l’Italiano, la Matematica, la Storia e la Geografia non contano nulla, occorre scavare dentro e cercare il filo dell’interazione. Un buon insegnante deve essere un buon educatore e un buon educatore deve saper trovare soluzioni adeguate. Chi cerca trova ed io trovai la soluzione. Nel quartiere dove abitavano i miei alunni avevo un amico, un vecchio e caro compagno di scuola. Lo andai a trovare e insieme decidemmo di giocare una partita a calcio con i ragazzi. La mattina seguente ne parlai in classe e proposi una sfida sul campetto oratoriale del quartiere dove abitavano. Punti sul vivo, accettarono con grande entusiasmo e quei primi giorni furono di preparazione all’incontro. Formazioni, schemi di gioco, magliette, colori, ruoli, fu una vera e propria lezione di calcio. Più che un insegnante di lettere mi sembrava di essere diventato un allenatore. Il nuovo ruolo non mi dispiaceva affatto, anzi, mi attirava un sacco di simpatie. Erano ragazzi abituati a frequentare bar di prostitute, ambienti di politica attiva. Del latino e di Manzoni niente. Il pomeriggio della partita mi presentai sul campo, impeccabile: calzettoni bianchi, scarpe che profumavano di pelle, calzoncini bianchi, una maglietta brasiliana, verde – dorata. I ragazzi mi guardavano come se tra loro fosse arrivato un campione d’oltreoceano. Non mi toglievano gli occhi di dosso. L’età ancora abbastanza giovane e l’esperienza, mi permisero di cimentarmi in quelle evoluzione per le quali ero diventato piuttosto noto nelle partite parrocchiali: dribbling, tunnel, scatti. Da quel momento diventai il loro idolo, uno di loro, il migliore. Il calcio mi apriva le porte dell’insegnamento. Il giorno dopo, a scuola, fu un trionfo. I ragazzi si sedettero ai loro posti e tra un commento e l’altro, parlammo anche di Carducci, di Manzoni e dei Ragazzi della via Pal. Il preside seguiva incredulo la nostra comunicazione, non riusciva a capire come mai una classe di disperati e di ribelli, improvvisamente si fosse trasformata in una classe modello. Con la prima fu un successo, ma cambiò la strategia. Attenzione verso i più deboli, visite a domicilio, fiducia e dialogo aperto e chiaro. Le due classi peggiori della VI° scuola media si trasformarono in unità operative e sollecite ai comandi di due insegnanti un po’ particolari, che avevano avuto il coraggio di mettersi in gioco. Il mio compagno era uno che aveva capito tutto della riforma. E’ stata un’esperienza straordinaria, unica, perché mi ha insegnato a cercare e scoprire tutto ciò che è necessario per stabilire un buon rapporto con i ragazzi. Quale il procedimento? Scavare dentro, riassumere e rivedere le esperienze passate, fare un lavoro di verifica e di ripulitura, scendere dalla cattedra e dialogare su qualsiasi tipo di argomento potesse servire a creare incontro, aggregazione. Fu davvero una grande vittoria. Ottenuta la fiducia degli alunni, persi quella dei colleghi che, invidiosi come non mai, cominciarono a far finta di non vedermi”.
Ma lei professore è sempre stato abituato a lavorare tra le incomprensioni, è vero?
Hai ragione Matteo, ho sentito spesso il soffio pesante di chi, incapace di svolgere il proprio mestiere, cercava rivalse su altri fronti, scendendo a clamorosi compromessi. Ne ho viste di tutti i colori”.
Che tempi professore, lei era considerato il più severo, eppure tutti i genitori volevano mandare i loro figli da lei, questo me lo ricordo benissimo.
“Vedi Matteo, la severità non è un metodo, è solo uno strumento che va dosato, misurato e distribuito con saggezza. Chi volesse impostare il proprio stile sulla severità fallirebbe nel modo più clamoroso, perché i ragazzini non la sopportano e la sanno combattere con una astuzia e una cattiveria degne dei maghi delle fiabe. I ragazzi bisogna prima conoscerli”.
Professore, che differenza c’è tra i ragazzi di una volta e quelli di oggi? Trova che ci siano stati dei grandi cambiamenti?
“E’ la società che è cambiata, caro Matteo e quando parlo di società mi riferisco allo stile di vita, al costume, ai comportamenti, all’educazione. L’evoluzione tecnologica ha mutato radicalmente orientamenti e interessi, con effetti in parte negativi e in parte positivi. Da un lato mette i giovani in una condizione di poter avere una conoscenza più ampia e diretta del mondo, dall’altra ha creato una sorta di male di vivere. Ai miei tempi i ragazzi si divertivano con giochi inventati, l’immaginazione aveva un ruolo determinante e sfociava in una creatività positiva. Si viveva molto all’aria aperta, si praticavano attività sportive sia ricreative sia agonistiche. Oggi il video costringe all’immobilismo fisico. Il movimento è calcolato, fa parte di una programmazione organizzativa. Le nostre droghe erano le figurine dei calciatori, quelle dei ciclisti, le gite in bicicletta, le nuotate nel fiume, le partite di calcio, di pallavolo, di ping pong, i fumetti. I genitori regalavano con parsimonia, non gettavano soldi in cose inutili. Uscivano da una guerra e sapevano molto bene che cosa volessero dire povertà, fame, distruzione, malattie. Avevano imparato a risparmiare, a spendere secondo ordini e finalità ben precisi. Nessuno di noi è morto per non aver avuto quello che avrebbe desiderato. Ci hanno insegnato l’arte del saper attendere. Oggi, invece, prevale la logica del tutto e subito. I ragazzi non sono cambiati, è il mondo attorno a loro che è radicalmente mutato e che fa sentire, in modo penetrante, e pesante i suoi effetti. Ai miei tempi non avrei mai potuto offendere un adulto, perché le avrei prese di santa ragione. La persona adulta doveva essere rispettata. Viviamo in una società malata, per cui occorrono medici e medicine adeguati.
Professore, chissà perché i giovani non ascoltano più i racconti degli anziani, era così bello sentire tutte quelle storie di vita.
“Nella famiglia patriarcale i giovani vivevano con i genitori, con i nonni, i bisnonni, zii, vivevano una dimensione molto allargata della famiglia e avevano tanti interlocutori con cui confrontarsi e stabilire un dialogo. Oggi, in molti casi, i giovani vivono tutta la giornata da soli, davanti alla televisione e al computer, perché i genitori sono al lavoro e non hanno tempo per seguirli, per aiutarli nell’esecuzione dei compiti, per far loro compagnia o condividere l’attimo di un gioco. I giovani sono molto soli e la solitudine è una cattiva consigliera, spiana l’animo e la mente alla depressione, alla ricerca di rimedi artificiali, a compensazioni chimiche, a tentativi di trasgressione. La società telematica ha reso afona una popolazione abituata a parlare la lingua di Dante, Petrarca, Manzoni, a scolpire e a dipingere, a scrivere e a cantare le melodie dei grandi maestri del canto italiano. Quando io ero ragazzino provavo una gioia immensa, mi sedevo sulle ginocchia del nonno ad ascoltare storie di guerra e storie di vita quotidiana. Osservavo con stupore quei grandi baffi curati e quella bocca che esprimeva tutto il grande fermento di un’esistenza vissuta all’insegna del senso del dovere e dello spirito di sacrificio. Oggi molti nonni vivono all’ospizio, perché i giovani vogliono essere liberi di fare quello che vogliono”.
Professore, mi parli del suo rapporto con i genitori.
“Hanno trascorso insieme cinquant’anni di matrimonio, una vita piena, intensa, fatta di volontà, di rinunce, di gioie e di dolori. Avevano due caratteri e due personalità molto diversi. Estremamente determinato e deciso mio padre, temporeggiatrice e sempre un poco incerta sulle decisioni da prendere, mia madre. Alla fine era comunque lei a dire l’ultima parola e mio padre, volente o nolente, accettava. Le famiglie di una volta avevano i loro difetti, le loro difficoltà, ma erano, nella maggior parte dei casi, un nido accogliente e sicuro per i figli. Noi sapevamo di poter contare sempre su un affetto sincero, che non era mai, però, complicità o protezionismo esacerbato. Le punizioni sanzionavano le nostre piccole o grandi marachelle e soprattutto avevano un senso, perché nella nostra società esistevano delle regole molto precise. Esistevano, in particolare, il senso del pudore, il rispetto nei confronti delle persone adulte, l’attenzione verso gli anziani. Gl’insegnamenti della famiglia erano un vero e proprio codice di comportamento, che non si faceva fatica ad adottare, perché faceva parte del nostro vivere quotidiano. Nessuno è mai morto per un ceffone, tutto contribuiva a farci capire che non bisognava andare oltre una certa misura”.
Mi ricordo, professore quando la chiamavano per risolvere i casi difficilii.
“E’ stato così per molto tempo. Mi snobbavano come tradizionalista, ma alla fine mi chiamavano negli angoli silenziosi e riservati della presidenza perché risolvessi le situazioni che potevano mettere in cattiva luce l’immagine della scuola”
Mi dica professore, cosa dobbiamo fare noi giovani?
“Le risorse sono molte, ma possono anche avere una fine, così come hanno avuto un principio. Bisogna saperle usare con equità e ponderazione, senza cadere nella logica degli sprechi, anche l’informatica stancherà. I ragazzini sentiranno ancora forte il bisogno di salire sul sellino di una bicicletta per scalare i pendii di una montagna, per assaporare il sudore di una fatica e per sentire quella fine brezza primaverile che restituisce la gioia del benessere”.
Sono un po’ scettico, professore, non credo che gli uomini saranno disposti ad abbandonare la comodità di una sedia o di una poltrona per ritornare al passato, magari recitando le poesie di Giacomo Leopardi.
“Gli uomini hanno bisogno di ritrovare se stessi. Devono pensare che un giorno tutto finirà e che la vita ha un valore molto più importante di quanto il consumismo sia riuscito a reclamizzare. Parole come silenzio, meditazione, preghiera, famiglia, dialogo, educazione, rispetto, dovranno riconquistare la tavola rotonda e riconsegnare all’umanità il suo destino. Il pensiero dell’Aldilà dovrà far riflettere le coscienze, perché non sarà sempre possibile vivere nel caos. L’uomo riscoprirà il gusto della lettura, l’amore per l’arte, vorrà riprendere a essere protagonista della storia, anche nelle piccole cose della vita di tutti i giorni”.
Professore, mi può recitare alcuni versi di Davanti San Guido, la prego, vorrei riprovare la stessa emozione.
“Pretendi un po’ troppo Matteo, ormai sono vecchio e il tono della voce non è più quello di una volta. Il respiro e la mente vanno un po’ da tutte le parti, ma di una poesia c’è sempre qualcosa che rimane , qualcosa che ci appartiene, perché fa parte della nostra stessa essenza, della nostra umanità. “… Alta, solenne, vestita di nero, parvemi riveder nonna Lucia…” Vedi Matteo, quando si diventa vecchi il pensiero del passato ci avvolge nello scenario di una fiaba, i personaggi assumono le sembianze di creature dolcissime, che rasserenano l’animo con la leggerezza di un ricordo. Il male scompare come per incanto e rimane il bene, le belle cose che hai vissuto. E’ davvero significativo questo passaggio, perché prepara l’animo a una gioia incontaminata, a un mondo dove la giustizia è un canto delicatissimo e armonioso, che avvolge tutte le creature e dove la regia di fratello sole illumina la visione e colora d’immagini ogni cosa. Le ombre scompaiono, l’inverno non fa morire di freddo i clochard sdraiati sulle panchine di un parco o di una stazione, la follia scompare per far posto a una gioia senza confini. La sofferenza si trasforma in giubilo e ad ognuno è riservato un posto in prima fila. Niente più biglietti di prima classe, di seconda classe, distinti, popolari, ministri e operai, minatori e dottori. Le diversità saranno bandite e gli uomini si sentiranno tutti, indistintamente, parte di una immensa felicità”.
Professore, non si lasci trasportare troppo dal suo idealismo, è proprio sicuro che tutto si concluderà in modo così ottimistico?
“Caro Matteo, tu sai benissimo che le mie lezioni avevano sempre un punto di partenza e uno d’arrivo: l’uomo, le sue difficoltà, le sue speranze, il suo bisogno di solidarietà. L’Italiano era soltanto una provocazione. Abbiamo volato tanto insieme. Abbiamo visitato l’Africa, l’Asia, le Americhe, abbiamo cercato dentro di noi il segreto della vita in una poesia, in un brano, in un romanzo, in una passeggiata tra i castagneti del nostro stupendo paesaggio, abbiamo cercato di capirci e di capire, di comprenderci e di aiutarci. Le curve mozzafiato della strada per Vararo erano un’ascesa verso la gioia, un modo per spiegare l’educazione ambientale, per riscoprire il giusto rapporto tra l’uomo e la vita, sul palcoscenico ideale di una natura a tratti conservatrice e selvaggia come la nostra voglia di libertà. Se ripenso a quella volta in cui siamo entrati con le scarpe nel torrente San Giulio, per rinfrescarci dalla calura estiva… Ti rendi conto, il professore d’italiano, con le scarpe da ginnastica inzuppate d’acqua, che sguazzava felice come una trota fra le pietre levigate del torrente. Non era pazzia, era la gioia di una condivisione, una complicità di emozioni e sentimenti che restituivano il senso di una piccola felicità. Quante partite di calcio su quel campetto. Due ore a piedi per arrivare e poi altre due a rincorrere la palla per segnare un gol. Bisognava essere matti, eppure è stato bellissimo. Vararo è stata la nostra seconda scuola. Siamo riusciti a far giocare il Vittorio, un personaggio di grandissimo spessore umano. Lì, in quel piccolo cimitero, con le lucertole che prendevano il sole tra i marmi delle tombe, incontravo l’immagine di Diego e la mia felicità diventava tristezza, ricordo. Lo rivedevo libero con i suoi animali, con la sua chioma fluente e il corpo abbronzato, mentre ci aspettava per condividere i giochi di un pomeriggio. Vedi Matteo, la scuola è anche ricordo di chi non c’è più. Avrei voluto che quelle passeggiate non finissero mai, perché mi sentivo come un pastore alla guida di un gregge. Sentivo il vento caldo della comprensione, della gioia di vivere, sentivo che in quei momenti gli uomini si incontravano nella nuda purezza dei sentimenti e delle emozioni. Che bei tempi. Eppure c’era chi non capiva, chi faceva finta di niente, chi prendeva le distanze, chi pensava che una grammatica potesse risolvere i problemi di un’umanità alla ricerca di sé. Crediamo di essere dei padri eterni, crediamo che i ragazzi siano vuoti e superficiali, in realtà hanno già tutto dentro e attendono solo che qualcuno permetta loro di potersi manifestare. I ragazzi sanno molto di più di quanto possiamo immaginare e hanno fantasia e creatività da vendere. Spesso sono i professori ad avere problemi. Sai perché a volte riuscivo a tenere viva la vostra attenzione per quattro ore consecutive? Perché mi piaceva discutere con voi, mi arrabbiavo e sorridevo, vi prendevo in giro e usavo la storia e la geografia solo per una questione di opportunismo esistenziale”.
Professore, perché amava così tanto i Promessi Sposi?
“Perché Manzoni ha avuto il coraggio di fare un’analisi spietata del nostro paese, in un momento di profonda crisi politica, culturale, sociale, economica e geografica. Ha messo a nudo la schiavitù, l’ipocrisia, le ingiustizie, le prevaricazioni dei potenti, in qualche caso facendo nomi e cognomi. Ha scosso il torpore italiano, richiamandolo alla reazione nei confronti di un nemico subdolo, arrogante, denigratorio delle nostre migliori virtù. E’ un po’ come adesso, Matteo. Se ti guardi attorno con attenzione ti rendi conto che in molti casi la libertà è solo un’illusione coltivata da esperti, per perpetuare la loro sete di potere e di sopraffazione. La stessa crisi della gerarchia ecclesiastica, la politicizzazione della giustizia, la delinquenza organizzata, sono tutti fenomeni che Don Lisander ha ampiamente “denaturalizzato” nel suo romanzo storico. E poi c’è quell’amore vero, genuino, a prova di bomba, di Renzo e Lucia, l’amore che supera ogni ostacolo, perché è orientato alla perpetuazione del valore della vita. Spiriti semplici, quei due contadini lecchesi, ma dotati di una forza straordinaria, di fronte alla quale il male cede il passo. Vedi Matteo, Manzoni porta nella sua opera quel senso profetico della vita, che apre le porte della speranza, per cui anche una disgrazia viene vista e considerata come una prova che precede la felicità. Ti fa capire che la giustizia divina sovrintende quella umana e che la forza del riscatto è presente a ogni passo. Manzoni è uno che crede nel futuro del suo paese e sprona gl’italiani ad amare la lingua, la storia, le tradizioni, soprattutto la libertà. Manzoni crede nella libertà di pensiero, nella forza dell’uomo, nella provvidenzialità della storia e lascia in ognuno di noi lo spazio di un’attesa, il filo di una speranza, l’orgoglio di una riscossa.
E’ così che si deve vivere, “amandosi come compagni di viaggio, sapendo che un giorno dovremo lasciarci, ma che ci incontreremo di nuovo per non lasciarci più”.
Professore, non è cambiato, la famiglia è il suo mondo, la sua forza, la sua musa ispiratrice.
“Ogni volta che guardo negli occhi mia moglie e mia figlia capisco il valore della vita, mi rendo conto di essere un uomo ricco, sono felice e le piccole contrarietà della vita scompaiono. Se molti giovani avessero una famiglia unita, attenta ai problemi della loro crescita, se avessero un padre e una madre che li ascoltassero nelle loro preoccupazioni quotidiane e condividessero con loro le gioie di un cammino, se la cucina fosse ancora il tepore di una conversazione, la fiamma di un affetto infinito che ci accompagna, forse potremmo ancora sperare in un futuro migliore, in un allegro girotondo di affetti sinceri, di gioie e passioni. Ma la fragilità umana è terribile, consuma le energie”.
Professore, la mafia è quella che ha ucciso i giudici Falcone e Borsellino, ha contorni e contenuti molto ben precisi, cosa ne pensa?
“Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati i miei due eroi preferiti. Entrambi erano convinti che la scuola e la cultura dovessero svolgere una funzione determinante nella lotta contro la criminalità organizzata. Avevano capito che non bastavano bravi magistrati, occorreva modificare stili e comportamenti, creare una mentalità nuova, aperta e collaborativa, contraria alle collusioni e agl’intrighi. Sapevano che i giovani avrebbero potuto cambiare il mondo. Ricorda Matteo, non arrenderti mai, combatti contro la prepotenza, l’arroganza, la stupidità degli altri con le armi del tuo coraggio, della tua forza morale e della tua fede. Alla fine il bene trionfa sempre, la verità restituisce la dignità e l’uomo vive la gioia della chiarezza e della trasparenza. Il tempo rende sempre giustizia, non abbandona chi ha subito i torti dell’arroganza e della prepotenza. Possono anche metterti in grossa difficoltà, possono farti piangere e soffrire, possono persino consegnarti nelle mani di un Pilato qualsiasi, possono tradirti, possono comunicarti un sorriso beffardo facendolo passare per un segno di gratitudine, ma la Provvidenza non abbandona mai i suoi figli, quelli che hanno fatto della correttezza e della serietà una condizione di vita. Vai per la tua strada, lotta con tutte le tue forze e vedrai che troverai soddisfazioni insperate, momenti di immensa felicità. Accetta anche il male, ma cerca sempre il modo di allontanarlo dalla tua vita. Sai qual è uno dei nostri più grandi difetti? E’ quello di aver dimenticato un po’ di quella grammatica nostrana che ci faceva riflettere sui punti e sulle virgole. Dobbiamo imparare a decifrare il nostro vissuto, anche quello apparentemente più inutile, più sfuggente. Vedi Matteo, la nostra vita è una somma incredibile di tanti piccoli miracoli, di fili che si legano, di verità che si possono scoprire solo se sappiamo andare oltre la siepe della razionalità, aprendoci a un dialogo più profondo. I miracoli sono quotidiani o arrivano quando meno ce lo aspettiamo, ma bisogna essere preparati e i passaggi non sono facili, richiedono impegno, umiltà, lealtà, correttezza di comportamento e un pizzico di spiritualità. La vita è stupenda, è un grande libro aperto a tutti coloro che vogliono capire. Ci sono giorni in cui ci rammarichiamo di un torto subito, di un’aspettativa irrealizzata, pensiamo di essere stati dimenticati da tutti e ci sentiamo esclusi. Dio non ci abbandona mai e quando meno ce l’aspettiamo ci fa sentire la sua presenza, la sua voglia di stare con noi, di ascoltare le nostre lagnanze e le nostre sofferenze”.
Professore, c’è una cosa che non riesco a capire, che non sono mai riuscito a capire. Perché Dio che è così buono, permette a dei kamikaze di uccidere la speranza di migliaia di persone, di tollerare la fame nel mondo e tutte le prevaricazioni che gli uomini sono costretti a subire?
“Non sono né un prete né un teologo. Dio è immensamente buono, ma ci ha dimostrato che il passaggio dalla morte alla risurrezione comporta la forza di un sacrificio e che dobbiamo avere fiducia nella sua parola, anche quando il presente sembra privo di speranza. Nella difficoltà riscopriamo la fede, nella morte la rinascita”.
Professore, lei è vissuto tra la fine della civiltà contadina e l’inizio di quella industriale, mi può raccontare qualche episodio legato a questo passaggio?
“Da ragazzo uscivo di casa e attorno a me, pur abitando in una città, incontravo distese di campi colorati di papaveri, di trifoglio, di viole. Poco distante dalla mia casa correva rapido come un centometrista un ruscello, uno dei punti preferiti delle mie giocate pomeridiane. La campagna era sconfinata e le nostre serate estive erano rallegrate da concerti di grilli, rane e cinguettii che si prolungavano sul gelso più grande fino alle prime ombre della sera. Le zanzare creavano inquietudine e noi facevamo di tutto per mandarle lontano, in molti casi con scarso successo. Cavalli e carretti dominavano l’asfalto delle strade e l’aria era percorsa dalle imprecazioni dei carrettieri, sempre in guerra con la lentezza dei loro animali. Il supermercato era una lambretta furgoncino carica da far paura di damigiane strapiene di candeggina e di soda caustica. Si intravvedevano i primi detersivi in polvere: OLA’, OMO. Chi vendeva portava un camice di color marrone chiazzato di bianco, l’inconfondibile marchio della candeggina. Gli porgevi una bottiglia di vetro e lui travasava il liquido con una gomma, aspirandolo. Noi ragazzi lo guardavamo esterrefatti, perché eravamo convinti che prima o poi la candeggina gli sarebbe finita nello stomaco. Ci sbagliavamo, era un fenomeno. Via lui, arrivava il pescivendolo. Una bicicletta trasformata in motorino, due cassette, una dietro e una davanti, coperte da due sacchi impregnati d’acqua. Lo aspettavamo perché eravamo affascinati dal pesce ancora vivo, in particolare dal pesce gatto, nero come la pece, con due baffi lunghissimi e un muso grintoso, simile a quello di un gatto selvatico. Eravamo degli esperti pescatori di rane e molti dei nostri pomeriggi li passavamo facendo a gara a chi ne prendeva di più. Davanti a noi ragazzi c’erano distese infinite di prati e campi coltivati, canali e rogge, vecchi ponti in mattone rosso sui quali compivamo le nostre imprese quotidiane. Le macchine si potevano contare sul palmo di una mano. Passavano ogni tanto e potevamo persino permetterci di giocare a pallone in mezzo alla strada principale. Le mie prime partite di calcio le ho giocate col Giancarlo. Due porte, una palla, due ragazzi della stessa età che si affrontavano in dribbling pomeridiani che duravano ore, fino a quando le voci dei genitori non ci chiamavano ai doveri scolastici e familiari. Ci si divertiva con poco e tutto ci sembrava bellissimo. Gli adulti attendevano la stagione della caccia. Partivano con i cani verso le quattro di mattina e tornavano la sera con le moto e le macchine cariche di trofei. La caccia era un momento di aggregazione, di socializzazione, di condivisione. Ricordo il colore nero della terra appena dissodata, lo sguardo fiero del contadino che guidava il trattore. Durante le sere d’estate ci si sedeva fuori, nella via e si ascoltavano le storie dei nostri padri e dei nonni, storie di lavori pesanti, di incertezze relative al raccolto, di discussioni con il padrone. In campagna, poi, la situazione era ancora più precaria. L’acqua del pozzo, coppie di buoi ciondolanti che trainavano carri carichi di fieno, spettacoli circensi consumati nella corte di una delle tante fattorie. Clown, mangiafuoco, saltimbanchi strappavano risate per una manciata di monetine o per un cena a base di ceci. Nel frattempo, però, la laboriosità della gente, la voglia di benessere cominciavano a modificare il costume, i comportamenti, i mezzi di trasporto e la situazione urbanistica delle città e delle campagne. Le prime fabbriche richiamavano l’attenzione del mondo contadino, alla ricerca di guadagno sicuro e orari più umani. Iniziavano i flussi migratori dalle campagne verso le città, dove si concentravano le prime aziende industriali. Incremento demografico, negozi sempre più ricchi di prodotti, circolazione della moneta, costruzione di nuovi quartieri popolari e residenziali, le moto prendevano il posto delle biciclette e le macchine cominciavano a prendere possesso delle vie, delle strade e delle piazze. Iniziava il cosiddetto “Boom economico”. In molti casi l’uomo viveva la dicotomia carducciana: correre verso il progresso, verso l’affermazione personale o continuare a condurre una vita normale in campagna, tra attese e speranze? Rimanere nei luoghi natii o intraprendere nuove attività più confortevoli nelle città?. Nella maggior parte dei casi l’industria ha prevalso sulla campagna, richiamando accanto alla catena di montaggio uomini e macchine. E’ entrato in funzione l’obbligo scolastico e l’istruzione è diventata obbligatoria per tutti”.
Professore, com’era la scuola di una volta?
“Impegnativa, molto più impegnativa di quella di oggi, se non studiavi “perdevi l’autobus” e addio sogni di gloria. Bocciavano con molta facilità. La selezione era durissima, spietata. Chi aveva voglia di studiare si iscriveva alla scuola media, chi voleva intraprendere un’attività lavorativa frequentava le scuole commerciali. La scuola media era pesante. Si studiavano tantissime poesie a memoria, si facevano le traduzioni di latino, si studiava letteratura italiana, si studiava la grammatica francese e il professore di matematica non faceva sconti. L’educazione fisica era importantissima e il voto di religione faceva la differenza. C’erano molti più freni di oggi, i ragazzi e le famiglie dovevano continuamente fare i conti con la realtà. Un sette in condotta significava andare a ottobre con tutte le materie e l’eventualità della bocciatura. Chi finiva l’anno con delle insufficienze veniva rimandato a settembre e si rovinava l’estate, perché doveva continuare a studiare, col pericolo di non riuscire a farcela. Guai mancare di rispetto a un insegnante o al preside. Le sanzioni influivano sull’andamento generale dell’anno scolastico e se venivi sospeso, oltre al famoso sette in condotta venivi duramente redarguito dalla famiglia, che non sopportava, d’accordo con la scuola e con la società civile, la mancanza di correttezza nei confronti delle persone, soprattutto degli adulti. Se prendevi un ceffone tornavi a casa e non lo dicevi, perché ne avresti preso un altro ancora più pesante. La disciplina era disciplina, non si poteva sgarrare. Oggi, invece, siamo all’opposto. Gli alunni e i genitori comandano e i docenti non devono sgarrare, altrimenti corrono rischi davvero seri. Un tempo erano gli alunni ad avere timore, oggi il timore l’hanno i docenti. Vivere nella scuola, in queste condizioni, è pazzesco. Caro Matteo, il benessere ha creato un mare di malessere, c’è molta gente che se ne infischia delle leggi, perché tanto sa che esiste sempre una via d’uscita. Vivere nella scuola, oggi, significa essere vittime di una burocrazia senza precedenti”.
Professore, si ricorda quel pomeriggio di primavera, seduti a gambe incrociate nel giardino del vecchio “Culin”, ad ascoltare storie di vita, storie d’altri tempi. Era bellissimo. Due stupende figure di anziani novantenni, seduti l’una accanto all’altra, rispondevano con un rarissimo senso dell’umorismo alle nostre domande. Sembrava di vivere in un altro mondo. Sotto di noi correva singhiozzando il torrente e davanti si apriva il sentiero delle Cascate. Il vecchio Ercole ce la metteva tutta per rendere vivace la conversazione e ogni tanto ci fissava con quei suoi occhi furbi e penetranti, per vedere se ascoltavamo con attenzione. Guardava verso il bosco, come se attendesse un’apparizione. Quel bosco è stato la sua vita. I suoni, i colori, i funghi, la legna da tagliare.
“Hai proprio ragione Matteo, quel pomeriggio è stato indimenticabile, una scuola di vita, un contatto diretto e concreto con il passato e con la storia, resa più umana dalla loquace comunicazione di un grande vecchio. Abbiamo vissuto per qualche ora l’altra faccia della verità. In quel pomeriggio la cultura ha espresso tutta la sua umanità, la sua forza, il suo coraggio, nelle sequenze comunicative del vecchio “Culin”. Abbiamo imparato ad amare un pochino di più i vecchi, a sentirli vicino a noi, ricchi della loro caldissima lealtà. Mi ha colpito il suo legame profondo con le maestre, di cui ricordava ogni minimo particolare, ma soprattutto il rispetto e l’educazione. Se qualcuno ci avesse visto seduti per terra forse si sarebbe scandalizzato, in realtà i nostri cuori respiravano l’ansia del sapere, la voglia di scoprire un mondo che in altri momenti poteva apparire lontano, ma che, in realtà ci incuriosiva e ci affascinava. E’ sì Matteo, abbiamo fatto anche questo. Ecco, se fossi un poeta, un vero poeta, metterei in versi ogni attimo di quell’incontro, lasciando via libera all’emozione. Ma devo accontentare di quei bellissimi ricordi”.
Professore, perché non proviamo a scrivere una poesia, forse questo è il momento più adatto: il clima, il ricordo, le parole, i pensieri. Eppure il suo modo di insegnarci le poesie mi piaceva tantissimo, perché nasceva dal cuore. Quello che lei recitava sembrava tutto vero.
“Per me la poesia è stata una via di salvezza, un miracolo d’amore quotidiano che mi riconciliava con la vita, quando questa, per motivi esistenziali, diventava ostile. Recitare Leopardi, Carducci, Pascoli, Ungaretti, mi restituiva amore, felicità, convinzione, voglia di fare, di inventare. Ci sono parole che da sole valgono una vita. Ci sono versi che ti fanno sognare, altri che ti invitano a vivere con intensità anche le cose più semplici. Nella poesia ho colto la passione del cuore, il desiderio di non spegnere lo spazio dello spirito che avevo dentro. Ma la vita non è sempre poesia, è realtà, lotta, battaglia, confronto. Improvvisamente ti dimentichi tutto e la bestia prende il sopravvento. Così il cielo non “s’illumina più d’immenso”, ma si copre di nuvole grigie, pesanti e minacciose. Peccato che il verso sia così breve e il viaggio troppo lungo. Lavora Matteo, hai tutti gli elementi per verseggiare, ma non lasciarti irretire dalle emozioni, oggi la vita vuole persone dure, preparate, che conoscano le lingue e che sappiano navigare in Internet. Navigare… Ti ricordi quando parlavo di Ulisse e del suo vagabondare con quel pizzico di invidia che me lo rendeva ancora più caro. Quella era la navigazione che percorreva in lungo e in largo il mio cuore. Anch’io avrei voluto viaggiare per mari lontani, conoscere nuove popolazioni, ascoltare profezie e racconti, incontrare principesse e maghe, indovini e re. Quello, inconsciamente, era ciò che mi faceva amare l’Odissea”.
Ma lei, professore, amava anche l’Iliade, l’Eneide. Ci ha fatto vivere il duello di Ettore e Achille, il saluto di Ettore ad Andromaca e al figlioletto, prima della “battaglia”, l’episodio di Eurialo e Niso, l’astuzia di Ulisse. Le sue parole erano immagini , racconto, film. Era talmente convincente che alla fine ognuno di noi vestiva i panni di uno degli eroi omerici e virgiliani. Ci sentivamo fieri come Achille, forti e responsabili come Ettore, generosi come Eurialo, furbi e legati alla nostra terra come Ulisse. Quanta educazione c’era in quei canti, quanta attualità nel pensiero greco e in quello romano. Peccato, professore, che la cultura di oggi si rivolga ad altro. Tutti curvi sul computer, inchiodati per ore e ore con le gambe che si irrigidiscono e gli occhi che strabuzzano dalla stanchezza. Il suo eroe preferito era Ettore, vero professore?
“Verissimo, Matteo e sai perché? Perché aveva un senso profondo dello stato, inteso non come entità astratta, ma come unione di uomini, donne e bambini. Lui li rappresentava, era il loro simbolo, la loro guida, doveva difenderli sempre, contro chiunque attentasse la loro libertà. Per difendere il suo popolo avrebbe sfidato chiunque, perché questa era la parte che gli era stata affidata e che lui aveva coscientemente accolto. Ha sfidato Achille, pur sapendo che sarebbe stato ucciso proprio da lui, ma il problema era quello di dimostrare che non bisognava avere paura di difendere la giustizia e la libertà e che il suo atto sarebbe diventato un simbolo per il suo popolo e per suo figlio. Dolcezza, razionalità e rispetto delle leggi erano i principi che governavano il suo immenso amore per la moglie e il figlioletto. La sua eredità doveva essere il coraggio della rivincita, il valore della lungimiranza contro la limitatezza di un’azione. Ettore sapeva guardare lontano, oltre l’egoismo personale. Sì, caro Matteo, non ho mai amato i figli degli “dei”, ho sempre letto nei loro sguardi l’indifferenza e la prepotenza, l’avidità e l’arroganza, ma non mi sono mai lasciato trascinare dagli stupidi e dagli ignoranti, perché sarei finito nell’appiattimento mentale. Ho vissuto per quei valori che ho ereditato da una famiglia che ha celebrato cinquant’anni di matrimonio. Nella mia lunga vita ho incontrato falsi, malfattori, arrivisti, prevaricatori, prepotenti, ricchi, poveri, onorevoli, gente semplice e gente importante, ma non mi sono mai lasciato condizionare, ho sempre agito secondo i dettami della mia coscienza. Non ho rimpianti, sono contento così”.
Professore, certo che essere bravi è quasi una condanna, credo che tutto sommato sia meglio usare la tecnica del buon Macchiavelli, il fine giustifica i mezzi.
“Ti confesso che la tua incertezza è stata sempre anche la mia. Alla fine ho optato per la coscienza, come eredità testamentaria. C’è un sacerdote che ha lasciato un segno profondo nella mia identità, don Tarcisio. Di lui ho apprezzato i valori portanti del Vangelo. C’era gente che arrivava al Convitto con le pezze sul sedere e ne usciva con abiti decenti, a volte persino firmati. Mi chiamava sempre, quando si trattava di dare lezione agli studenti africani, quelli che non potevano pagare. Era un prete eccezionale, aveva un difetto, quello di fidarsi troppo. Ho scritto una pubblicazione sulla sua persona, che è piaciuta a pochi intimi, ma l’opinione pubblica ha pensato bene di restringere l’evento in uno spazio ristretto. A volte penso che se non avessi incontrato Francesco sulla via di Damasco, sarei stato un altro cristiano”.
Professore, lei ha sempre avuto un debole per il santo di Assisi, mi può finalmente spiegare il perché?
“Perché è stato coerente. Per questo è stato creduto e milioni di uomini e donne lo hanno seguito. Potrei anche banalizzare affermando che amava la natura, la bellezza, l’allegria, la sua terra, fratello sole e sorella luna… Il suo amore per la le creature mi affascinava. Assisi è una delle capitali del mondo. Nelle sue vie, nelle sue chiese, nelle sue piazze si respira il fuoco della passione cristiana”.
Al vecchio professore piaceva tantissimo parlare, raccontare, era il suo modo per continuare a insegnare, per continuare a stare al passo col mondo. Quell’incontro con Matteo fu straordinario, perché scatenò in lui un mosaico di ricordi, di commenti e di vissuti.
Crede che il bene possa sopravvivere alle intriganti interferenze del male?
“Il bene prevale sempre sul male, non occorre essere né profeti né angeli per capire questo, è una legge naturale. I nostri vecchi, meno dotati sul piano della malizia linguistica e molto più legati alla concreta semplicità dell’esperienza affermavano che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi, prima o poi gl’inganni e le frodi escono allo scoperto. Matteo non ti crucciare, non essere come quel birbante di Caronte. Ti ricordi che meraviglia di versi, di allegorie e d’invenzioni era la Divina Commedia. Dante ci ha voluto lasciare un testamento di grande spessore umano, lui che di problemi se ne intendeva. Due erano le vie tracciate dal sommo poeta per uscire dal tunnel: la ragione e la fede, intatte nella loro eccezionale attualità. Ma se allora l’uomo aveva un po’ di timor di Dio, oggi lo ha perduto. Tende a pensare sempre di meno e a lasciarsi sommergere dalle immagini. In quanto alla fede, non parliamone, ognuno la vive secondo in modo molto personale.
Professore, cosa pensa dei malesseri che attraversano la nostra vita?
“Penso che il mondo degli adulti debba fare un profondo esame di coscienza, perché ha grosse responsabilità nei confronti dei giovani. Se i cittadini non sapranno porre rimedio alle iniquità, vivremo nel caos, ciascuno farà quello che vorrà e quindi addio democrazia, addio libertà, addio a tutte quelle belle leggi scritte da chi è morto combattendo in nome di sacre idealità. Il cittadino deve riappropriarsi delle sue responsabilità, a tutti i livelli”.
Professore, lei crede nell’Europa unita?
“Credo nell’Unione europea, ma la sua realizzazione è ancora molto lontana. Ogni stato è un mondo a sé, mancano volontà e collaborazione, c’è ancora troppo individualismo”.
Lei ha sempre affermato che l’uomo senza verità è un essere perduto, che la verità è il sale dell’esistenza.
“Io parlavo di ricerca della verità, di un cammino lungo e faticoso, reso più piacevole e confortevole dalla conoscenza. Quante volte abbiamo sottolineato l’importanza del sapere nella conquista di una parziale verità. Quante volte abbiamo tirato in ballo l’eroe omerico, l’astuto Ulisse, per stimolare l’interesse e la curiosità degli alunni sul tema della formazione. Ulisse e Omero ci hanno insegnato che la vera scuola è la vita e che l’una e l’altra si compenetrano e si completano attraverso un confronto dialettico che abbraccia la conoscenza universale”.
Professore, lei era un gran sentimentale, mi ricordo le lettere dei suoi alunni.
“Ogni tanto le rileggo e mi domando se siano vere”.
Ecco il regalo più bello per un professore, essere ricordato, non essere stato messo in soffitta immerso nella polvere e consumato dalle tarme. C’è una lettera che ti voglio leggere, perché mi è rimasta nel cuore. La conservo tra i pezzi di carta ingialliti che riempiono i miei cassetti della memoria. Era una ragazzina con tanti problemi in famiglia, eppure manteneva sentimenti purissimi, ascolta le sue parole.
“Io ammiro il professore perché è una persona molto gentile e comprensiva nei confronti di tutti noi, è simpatico e scherzoso, aiuta il prossimo e insegna l’educazione. Quando è necessario è anche severo, non lo fa perché è cattivo, ma perché ci vuole bene. Io, come alunna, gli voglio bene, perché mi ha sempre aiutato. Lo ammiro perché è un bravo professore, spero di poterlo sempre aiutare quando avrà bisogno di me. Il professore è una persona ammirevole, gli piacciono molto i bambini, li rispetta, come noi rispettiamo lui. Io lo ammiro perché ha tutte queste buone qualità. Ammiro anche la sua famiglia. Lo immagino come fosse il mio papà. Ecco perché stimo questo bravo insegnante”.
Mi parli delle 150 ore
“Quando me le proposero, valutai attentamente tutto quanto e decisi di fare il passo, anche perché dovevo lavorare. 80 alunni, dai sedici ai cinquanta e oltre. Le materie d’insegnamento, Storia ed Educazione Civica. Immagina cosa poteva significare insegnare a interi consigli di fabbrica la Costituzione Italiana e lo Statuto dei Lavoratori. Significava confrontarsi con realtà molto consolidate sia politicamente, sia sotto il profilo umano. Avevo carabinieri, poliziotti, guardie di finanza, sindacalisti, operai, capifabbrica, ragazzini più volte bocciati nella scuola dell’obbligo e qualcuno che mi proponeva di andare a compiere un corso di studi in Unione Sovietica, forse aveva scoperto in me una vocazione all’indottrinamento, ma ero abbastanza smaliziato per schivare le provocazioni. E’ stata una bellissima esperienza, faticosa e impegnativa, a tratti snervante, ma piena di stimolazioni positive. Pensa che in una delle due classi avevo, come alunna, una brigatista rossa. Erano i tempi dell’uccisione di Aldo Moro. Trovavo la stella a cinque punte disegnata un po’ da tutte le parti, ma quella ragazza non mi ha mai fatto mancare un sorriso. Tempi duri, rischiosi, ma estremamente positivi per la mia maturazione. Ho trascorso un anno di dialoghi, conversazioni, discussioni e alla fine, prima della cena di fine anno, un’alunna mi ha letto queste parole, che conservo con un amore infinito. “Aggiunga alla sua storia, questa nostra disavventura, con sperabile buon esito. Noi faremo del Suo Insegnamento tesoro per un miglior comportamento sociale”. Straordinario, Matteo. Ottanta persone facevano tesoro del mio insegnamento. Mi sono commosso e ho pianto di gioia. Sapevano che ero iscritto alla Democrazia Cristiana, ma l’obiettività di giudizio, l’amore per il lavoro e l’umanità che mettevo in quei discorsi, a volte quasi disperati, comunicavano la mia voglia di vivere meglio la realtà, in un clima di stabile collaborazione con tutte le persone di buona volontà. Era il 26 maggio del 1978, un anno triste per il destino della nostra Repubblica, avviata a sopportare l’uccisione di Moro e dei cinque uomini di scorta, quella di numerosi magistrati, giornalisti, un’epoca insomma di grandi instabilità politiche, che creavano disorientamento e sconcerto nell’opinione pubblica italiana e mondiale. In quel periodo di grandi incertezze e di minacce brigatiste, avevo condotto in porto una “nave” carica di ottanta marinai, salpati con la speranza di approdare a un diploma di scuola media”.
Quante parole ha speso, professore, per farci capire che cosa significasse essere cittadini e con quale passione.
“Lo rifarei, Matteo. Lo rifarei perché credo che se una persona capisse, potrebbe cambiare il mondo. Essere cittadini è un incarico umano, morale, civile e culturale. Il cittadino costruisce la famiglia, la società, lo stato. E’ lui, con le sue qualità, i suoi valori e la sua rappresentatività a essere il protagonista della storia, basta solo che si convinca di questo e che non dica come fanno molti: “Lascia perdere, tanto le cose vanno sempre così”. Il cittadino partecipa alla vita della comunità, porta la sua personalità, i suoi consigli, le sue ricchezze, la sua onestà, il suo modo corretto di interpretare il bene comune. Il cittadino collabora perché la società migliori. Quando vediamo giovani che commettono trasgressioni e malefatte dovremmo fare un profondo esame di coscienza e domandarci se abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare per evitare il peggio. Un giovane non nasce maleducato, molto spesso lo diventa, perché nessuno lo ha avviato a sentirsi responsabile, nessuno lo ha educato a esercitare il suo ruolo nella comunità.
Professore, so che lei era molto amico di monsignore, un’amicizia discreta e riservata, basata soprattutto su una particolarissima sensibilità spirituale. Mi ricordo che parlava spesso di lui, dei suoi ragazzi dell’Africa, con i quali lei ha collaborato per sviluppare lo studio della geografia alle scuole medie.
“L’ho conosciuto nel 1977. Il primo incontro è stato dolcissimo. Potevo rimanere al Convitto quanto volevo. Era il mese di giugno, avevo appena terminato la scuola, decisi di trasferirmi al De Filippi per un periodo di ambientamento, prima del matrimonio. Da giugno a settembre le mie mattinate varesine erano occupate dalle lezioni. Davo lezione d’Italiano ai ragazzi delle Medie e del Liceo, poi ero al servizio di Don Tarcisio. Con lui ho conosciuto ricchi e poveri, sbandati e raccomandati, credo di aver visto tutti o quasi i componenti dell’umanità. C’era chi arrivava in mercedes e chi a piedi con le scarpe rotte, ma tutti venivano trattati con una delicatezza incredibile e se ne andavano con una speranza. Monsignore era il sacerdote di tutti, non faceva differenze. Queste sue qualità me lo hanno fatto amare fin dall’inizio, perché leggevo in lui il dono prezioso della carità, la voglia di essere al servizio del prossimo. Applicava il Vangelo con una semplicità disarmante. Era in parte con l’uomo e in parte col Cielo. Quando arrivò il momento di essere pagato, per i due mesi e mezzo di lezioni, lo avvicinai e gli dissi: “Monsignore, i soldi delle lezioni li tenga per il Convitto”. Lui rimase senza parole, mi fissò attentamente con quel suo sguardo investigativo e mi ringraziò. Celebrò il mio matrimonio con una passione incredibile, era come se ci fossimo conosciuti da sempre. La sua morte è stata una grande mancanza, ma lo sento quotidianamente vicino, è come se mi invitasse a continuare sulla via della speranza. L’articolo sulla Prealpina, il libro dell’Associazione…, il libro sullo sport, forse ha voluto dimostrarmi che non mi aveva dimenticato. Il Convitto era solo una parte della sua vita, minima rispetto a quella che aveva donato a persone di tutto il mondo. Non è mai stato sua proprietà, solo il momento della riflessione terrena, in preparazione all’incontro con quella religiosità alla quale confidava le sue fragilità terrene e dalla quale implorava il perdono”.
Professore, nella sua attività giornalistica ha conosciuto diversi personaggi, chi l’ha incuriosita in modo particolare?
“Ho conosciuto tantissimi personaggi, uomini e donne dai volti famosi, campioni dello sport, cantanti, politici di razza. Mi ha colpito Bruno Lauzi. Di lui ricordo il garbo, l’amabilità comunicativa, il senso dell’ironia, una personalità forte e unica, il sarcasmo con cui ha giocato con la sua malattia, mi piacevano tantissimo i suoi testi, soprattutto quelli da cui usciva il suo amore per la Liguria, per la sua lingua, per la sua filosofia, per il suo pensiero. Bruno è stato un grande, uno che non si è mai piegato alla stupidità umana. E’ stato uno straordinario esempio di artista. Incontrando tanti personaggi ho capito che la felicità, quella vera, sta nelle piccole cose, nel piacere di una camminata con un amico, nella purezza di un’alba, nella luce rosata di un tramonto, nell’aroma dolce di una brezza primaverile, nel sorriso di una persona che ti vuol bene. Ho imparato a fermarmi a contemplare un ragno che costruisce la sua tela, ad ascoltare il cinguettio dei passeri prima dell’arrivo della sera. Credo che la natura riesca a riconsegnarci tutto quello che la società ci sottrae. Forse dobbiamo imparare a fermarci, a frenare la nostra corsa, per ritrovare il mondo con le sue creature, i suoi colori, i suoi paesaggi, la neve. Ho una gran voglia di veder nevicare. L’attendo con la gioia di un bambino. Desidero fissare il volteggio dei fiocchi che s’intrecciano tra le luci dei lampioni, osservare i rami dei pini che si gonfiano fino all’inverosimile, rovesciati verso il terreno. Amo il silenzio suggestivo e romantico della neve. Che magnifico, il silenzio. Eppure ci sono persone che non sanno apprezzarlo, non sanno viverlo. Forse è un dono riservato ai poeti. Ci sono dei momenti in cui vorrei avere la leggerezza di un fiocco, la sua capacità di danzare, la sua follia creativa, la sua espressività contagiosa, l’allegria che comunica, il suo senso del mistero. E’ bello tornare a sognare. Vedi, Matteo, a volte ho l’impressione che gli uomini non sognino più. Ci sono momenti in cui, se chiudi gli occhi e ti lasci condurre, ritrovi attimi bellissimi e hai l’impressione che il tempo si sia fermato. Rivedi le persone a cui hai voluto bene e che ci hanno lasciato. Le vedi sorridere nei momenti di felicità, rivivi con loro il tempo della vita, ma devi fare in fretta, perché tutto vola via all’improvviso, come se un vento contrario volesse condannarci a una eterna illusione”.
Professore, credo di conoscere quel vento di cui mi sta parlando, è forse il maestrale?
“Carducci, uno dei miei poeti preferiti. “E sotto il maestrale urla e biancheggia il mar”. L’autunno è sempre stato la mia bestia nera. Stanchezza, raffreddori, un senso di indefinito, la nebbia, l’umidità, le giornate che si accorciano. Ma poi arriva lui, quel toscano brioso che trasforma l’autunno in poesia della gioia di vivere. Parla di vendemmia, di aromi, di gente che fischia contenta, di uccelli neri che se ne vanno lontano, cacciati come fossero cattivi pensieri. La musicalità dei versi è un élisir di lunga vita, rompe il grigiore e restituisce l’allegria. Carducci aveva una forza profetica, capace di consegnarti la bellezza della sua terra, il carattere della sua gente, la passionalità di una poesia dolce e sensuale, capace di risvegliare l’emozionante bellezza dei sentimenti”.
Professore, è destino che gl’incontri abbiano il dolce sapore della poesia.
“Forse è come dici tu, ci sono amori che non si cancellano e che ti aiutano a superare momenti difficili, la poesia è uno di questi. Leggere ricrea l’armonia della vita. E’ bello poter riscoprire la fantasia, guai se non ci fosse: pensa che tristezza non potersi gustare Fedro, Esopo, Gianni Rodari, Calvino. Ti ricordi quel tipo strano di Marcovaldo e sua moglie Domitilla? Calvino mi ha fatto amare la natura, la campagna, mi ha riconciliato con la mia giovinezza, trascorsa tra le colline pavesi, insieme ai nonni. Quanti ricordi. Le colline erano l’orizzonte inesplorato dei miei sogni. Gli alberi rappresentavano la magia, un grande senso di protezione e d’avventura. Quante arrampicate. Per arrivare a cogliere un frutto sfidavo terribili cadute. Avevo una strana predilezione per i salici, per la loro capacità di flettersi ai nostri desideri. Frecce, archi, nidi, frutta, l’albero era il mondo, uno dei tanti mondi che ci rendevano felici. C’era anche chi tornava a casa con le ginocchia sbucciate e si beccava sgridate da far paura, ma per i nostri giochi sacrificavamo tutto. Il contatto con la natura ci procurava un’insolita tranquillità, ci trasmetteva gioia di vivere e anche le cose più semplici erano motivo di condivisione. Oggi tutto è cambiato: discoteche, musiche assordanti, video, moto e macchine, l’ambiente è soffocante, eppure l’uomo non vuol capire, continua a distruggere la vita, pensando di essere diventato l’arbitro dell’universo. I soldi rafforzano le discriminazioni, le prevaricazioni, la violenza, la delinquenza. Più le città sono ricche e più diventano terreno fertile per ogni tipo di trasgressione. Viviamo nella democrazia della paura. Diffidenza, pregiudizio e razzismo salgono di nuovo alla ribalta”.
Professore, lei si è battuto contro l’aggressione ambientale. I suoi batti e ribatti sono rimasti memorabili.
“L’amministratore è un educatore del costume, una sorta di tribuno che lotta per affermare i diritti dei più deboli, quelli che non hanno voce e che combattono quotidianamente contro la sopraffazione. Il politico deve essere una testimonianza di impegno e di fedeltà alla vita sociale e politica del proprio stato, non deve lasciarsi trascinare dall’egoismo del potere. Ho conosciuto giovani che hanno bruciato le tappe e che si sono bruciati per sempre. Ho conosciuto anziani che non erano mai sazi di onori e di gloria e che hanno speso tutte le loro risorse a rincorrere un posto al sole, rubandolo a giovani preparati. Anche a scuola, l’appartenenza ideologica ha creato steccati. L’uomo ha vissuto per troppo tempo schiavo di categorie, di dottrine assunte come verità, si è lasciato spesso convincere da uomini che hanno strumentalizzato la storia, adattandola alle proprie esigenze”.
Cosa pensa professore dei gravi fatti di costume che hanno caratterizzato la vita del nostro paese?
“Siamo passati da un tipo di cultura strettamente clericale, dominata dai freni inibitori della coscienza religiosa, dove i dogmi erano vincoli assoluti, a una società dove tutto è permesso, dove un esacerbato garantismo assolve sempre tutto. Non esiste più l’autorità, ma tante autorità che s’intrecciano, creando pericolosi vuoti. La mancanza di senso di responsabilità all’interno delle famiglie si traduce spesso in mancanza di senso di responsabilità nel mondo giovanile. I genitori devono seguire più vicino i propri figli, si devono interessare a quello che fanno, alla loro voglia di comunicare. Tu sei stato un ragazzo davvero eccezionale, hai saputo cogliere quelle ricchezze che pochissimi sanno apprezzare, hai saputo trasformare il sogno in realtà. Avrei voluto avere tanti alunni come te, la vita scolastica sarebbe stata molto meno monotona”.
Grazie professore per la sua umanità. Si ricorda della dedica di Pietro, che soddisfazione, professore.
“Certo che me la ricordo, diceva press’a poco così: “Lei tra tutti i professori è stato quello che mi ha fatto capire il vero spirito della scuola e io la considero più come amico, che come professore, grazie dalla terza B”. Era il 27 aprile del 1989. Ti confesso che provo una gran nostalgia. La scuola mi ha insegnato l’amore, ma mi ha fatto anche soffrire. Mi ricordo di una preside che mentre scendevo le scale della scuola un giorno mi disse con arroganza: “Lei cosa intende per educazione?”. Era un modo per dimostrarmi il suo pregiudizio ideologico. Le risposi semplicemente: “Insegnare ai giovani quello che i miei genitori hanno insegnato a me, rispetto, senso di responsabilità e serietà nell’affrontare le difficoltà della vita”. Mi guardò come se avessi bestemmiato, lei non simpatizzava con i docenti severi. I genitori sapevano che amavo l’educazione, in un momento in cui era ridotta ai margini. Mi ricordo di un formatore che si esibiva con le sue fantasie comunicative, accucciato sulla sedia, con i piedi sotto il sedere. A qualcuno che gli chiedeva il perché di quella strana posizione, rispondeva:“Gli uomini devono sentirsi liberi, non schiavi delle convenzioni!”.
Professore, crede ancora nell’amicizia?
“Sull’amicizia si potrebbe scrivere un bellissimo trattato. Chi trova un amico trova un tesoro, dicevano convinti i nostri vecchi. L’amicizia, quella vera, è però abbastanza rara. Ci sono volte in cui credi di aver trovato un amico, poi magari la realtà è un’altra. E’ forse più saggio coltivare il dialogo, la conversazione, il confronto, approfondire una conoscenza, frequentare le persone e imparare a conoscerle.
Professore, lei è sempre stato un gandhiano convinto, mi ricordo le tesine e il film, ma soprattutto l’amore con cui ne parlava.
“Gandhi ha rappresentato e rappresenta la forza di una fede costante e coerente nella lotta contro chi vorrebbe possedere l’altro, privandolo della sua dignità, della sua libertà fisica, mentale, morale. Pensavo spesso a lui quando, in alcuni momenti della mia vita avevo deciso di non collaborare con chi strumentalizzava la democrazia per fini personali. Gandhi è stato grande perché non ha mai accettato il compromesso. Prima di diventare guida spirituale e politica della sua gente, ha voluto conoscerla, ha voluto capire fino in fondo i suoi problemi, le sue risorse, le sue ricchezze e le sue povertà. Nella sua azione hanno sempre prevalso l’amore per il suo paese e per i suoi abitanti. Gandhi ha sconfitto il male senza l’uso della violenza, con la sola forza di una fede vera e profonda nella sua gente e nella sua terra”.
Grazie professore per la passione con cui ha acceso il fuoco della conoscenza.
“Matteo, sono io che ti ringrazio, perché mi hai offerto l’occasione di pensare, aprendo di nuovo le mie finestre sul mondo. Mi hai fatto venire una gran voglia di scrivere, di scarabocchiare qualche verso, di ritrovare la bellezza della poesia, di riconciliarmi con la vita. Forse serve ancora a qualcosa. I giovani possono essere terribili, ma sono anche meravigliosi quando sanno tirar fuori il meglio di sé, quel meglio che non ti aspetteresti mai, ma che diventa sale di vita per tutti. I giovani sono portavoci di una generosità immensa, hanno voglia di imparare e di fare, ma hanno bisogno di educatori che li sappiano capire, spronare e valorizzare. Valorizzare, motivare, accompagnare, stimolare, dialogare, sono parole che valgono oro, occorre saper entrare in punta di piedi nell’animo umano, aiutandolo a sviluppare il senso di una identità, la capacità di credere, di capire, di volere, di amare, con tutta la disponibilità possibile. Grazie ancora per avermi permesso di ricordare e di pensare, di avere riaperto il mio cuore alle cose belle della vita.