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Boeri “Via dalle città nei vecchi borghi c’è il nostro futuro” – Menta e Rosmarino apre un confronto sull’argomento

 25 Aprile 2020 |  Pippo | |

E’ possibile leggere gli articoli,  vedere un video e inviare commenti

“Riabitare i piccoli centri. Una strategia contro la dispersione post pandemica”, una prima riflessione coordinata da Stefano Boeri 

Video tratto da una diretta facebook

 

per vedere l’intero video trasmesso in diretta Facebook andare sul sito
www.facebook.com/stefanoboeri/videos/3074987569235401/

 

 

Il nostro direttore ci offre un commento all’articolo.

I nostri paesi e il coronavirus di Alberto Palazzi

 Anch’io sono d’accordo con l’architetto Stefano Boeri. Già da tempo, vado affermando, e con una certa convinzione, che per i nostri paesi martoriati dalla globalizzazione, si prospetta l’opportunità di un riscatto. (Vedi Menta e Rosmarino numero 40). La grave crisi in atto ha ulteriormente rafforzato questa mia opinione in quanto i nostri piccoli villaggi di campagna sono subito ritornati sulla breccia; è bastato un coronavirus per spostare di nuovo l’interesse verso di loro.

In altri momenti difficili della storia i paesi si sono rivelati preziosi e, con le prospettive che ormai si configurano all’orizzonte, potrebbero assumere di nuovo un ruolo rilevante.

Con i loro spazi rassicuranti, essi promettono di diventare un rifugio privilegiato, una risorsa in grado di traghettarci al meglio anche attraverso le difficoltà che si prospettano. La situazione venutasi a creare ci sta costringendo a riflettere sulle modalità del nostro vivere quotidiano, ne sta mettendo in luce alcune criticità.  

Quel vivere “strepitoso”, quel “modello città” in cui ci si poteva permettere piaceri anche effimeri e concedersi ai riti della società di massa, oggi sta cedendo il passo a un’altra esigenza: quella di auto-tutelarsi e proteggersi. Anche rintanarsi.

 (Il 27% degli abitanti di Milano sono già fuggiti dalla città, si sono già “rintanati”, fonte Istat).

Chi dispone di una seconda casa in campagna comincia a pensare di trasferirsi lì; ormai si sono comprese le potenzialità del lavoro da remoto e mai come ora la gente desidera avere un giardino, coltivare l’orto, fare una passeggiata nel bosco…

I paesi e la campagna racchiudono in sé il significato di sicurezza, rappresentano un riparo ancestrale per eccellenza. Vero che ormai non c’è più la “dimensione paese” serena nel suo isolamento, come la si rappresentava una volta. Nel mondo e nel tempo della complessità, come evidente, tutto si mescola, si confonde e si trasforma e i piccoli centri hanno la loro ambivalenza, le loro contraddizioni, una qualità della vita e un tessuto di solidarietà umana cui spesso fanno da contrappeso una certa angustia della mentalità e un forte controllo sociale sulla vita delle persone. Tuttavia la realtà dei piccoli borghi torna di attualità e rappresenta un’alternativa a quella vita “strepitosa” che forse non potremo più permetterci perché è ormai evidente che dovremo modificare le nostre abitudini. In questi tempi di coronavirus si respira un’atmosfera da fine del mondo, di un certo mondo voluto dall’uomo occidentale negli ultimi due secoli e che ha invaso ormai quasi l’intero pianeta. Sul nostro capo, infatti, come una spada di Damocle, non c’è solo il virus, ma a preoccupare sono anche i timori per l’economia. Le crescite all’infinito su cui essa si basa, e che gli uomini politici continuano stolidamente a cavalcare, esistono in matematica, non in natura. L’attuale modello di sviluppo sembra ormai palesemente in crisi e ogni possibile ripresa della crescita appare estremamente problematica. Anche per questo aspetto, come già accaduto in altri momenti difficili, il “paese” ha dimostrato di possedere le potenzialità per fungere da ammortizzatore ai problemi che potrebbero derivarne.  

Chissà? Staremo a vedere. Comunque, esagerando un po’, forse non aveva tutti i torti il Pepin quando tempo addietro mi diceva: “A chi sapp ch’i butà là in un cantun, un dì ghe rifarii ul manich!”.

Alberto Palazzi

 

Amerigo Giorgetti

Il mondo alla rovescia: dalla città si vuole tornare al paese. Vi si è costretti, per salvare la pellaccia, come quando c’erano i bombardamenti nell’ultima guerra. Ma gli attuali bombardamenti sono assai più infidi e pericolosi, non arrivano con fragore nelle fusoliere di aerei da caccia, ma girano invisibili, quando meno te l’aspetti negli starnuti e nella saliva di chiunque incontri per strada. La grande città diviene impraticabile in questo pericolo, mentre nei nostri desolati paesi non s’incontra anima viva o morta, soprattutto se c’è un lago da una parte e una palude dall’altra.

I milanesi dei boschi verticali, abbandonano le loro stupidate e si rifugiano in quelli orizzontali. Ma non si convincono ancora che la terra è bassa, e che essere nel paese significa piegare la schiena. Loro no. In paese vanno come andrebbero nella seconda casa della Valtellina o della Liguria, per godersi il sole e l’aria buona, possibilmente con una sdraia e l’ombrellone. Questo non è tornare al paese, è solo soggiornarci quel tanto per scamparla, aspettando tempi migliori.

Il ritorno al paese è un’altra cosa; è anzitutto sentirsi nuovamente comunità, dopo una interminabile separazione, in cui ci si è fatto credere che ciascuno deve pensare a se stesso, che un terreno agricolo non vale niente se non è edificabile, che l’economia si basa solo sui soldi.

Va detto infine che c’è milanese e milanese: alcuni di loro che abbiamo conosciuto nel passato amavano il nostro paese quasi più di tutti noi. Sono questi che aspettiamo oggi per vivere insieme e far rinascere i nostri luoghi che si davano ormai per estinti.

 

Felice Magnani

LA QUALITA’ DELLA VITA, UN TEMA FONDAMENTALE, CHE NON GUARDA IN FACCIA NESSUNO

In questi giorni di vera e propria aggressione giornalistica generale sui temi del coronavirus, ho letto con molta attenzione gli articoli del direttore del giornale, Menta e Rosmarino. Il professor Alberto Palazzi nutre una passione fortissima per la cultura, che non è abito o esibizione, ma riflessione profonda su quei temi di natura sociale che formano il tessuto connettivo di una personalità e di un paese. Il suo è un giornalismo d’introspezione, fortemente correlato al territorio di appartenenza e alle sue espressioni artistiche, pittoriche, architettoniche, sociali, etniche, morali, è un giornalismo che aspira a rianimare ciò che la storia tende a emarginare, quindi propositivo, autenticamente vero, utile e interessante, un giornalismo che diventa proposta, progetto, autenticazione, partecipazione, confronto, testimonianza ed eredità. Quando Alberto Palazzi si rivolge a una società in repentina trasformazione, lo fa cosciente che l’umanità ha un urgente bisogno di risposte, di prendere posizione rispetto a un mondo che cambia, che stravolge e confonde e che, in molti casi, non è più in grado di orientare positivamente la vocazione profonda dell’essere umano, soprattutto quella della tranquillità e della sicurezza sociale. Nel suo breve e acuto excursus sociologico, ma anche psicologico e pedagogico e forse anche economico, il direttore di Menta e Rosmarino respira insieme alla sua collettività l’affanno delle incongruenze, quelle che ormai schiave di certe forme di sopravvalutazione o di sottovalutazione, si trovano improvvisamente orfane di tutto ciò che avevano programmato, salvo ricordarsi di quel mondo, di quelle tradizioni e di quella storia che la “santità” dei vecchi aveva costruito mettendo davanti a tutto l’immagine del paese, la sua gente, la bellezza, l’ordine, la pulizia, la socialità, la reciprocità e il servizio, quel servizio di cui certa politica dovrebbe sempre ricordarsi quando si propone all’attenzione del bene pubblico. Il Covid 19 ha sconvolto tutto, ha messo a soqquadro piani prestabiliti, progetti illimitati, all’improvviso l’uomo si è sentito nudo, si è guardato attorno sconvolto, per cercare una via d’uscita, una ragione che potesse sollevarlo da un confronto diretto con l’idea della morte. Ha avvertito la mancanza di qualcuno o qualcosa che potesse aiutarlo e così ha rivolto il suo sguardo a quella natura con la quale in epoche remote aveva condiviso momenti storici della propria vita. E così Palazzi si addentra nel cuore del problema e si pone delle domande, lo fa amando, ma con la coscienza di chi è convinto che il mondo non sarà più lo stesso. I piccoli villaggi saranno ancora quelli di una volta? Quale il destino delle grandi città? Di che cosa ha realmente bisogno l’uomo quando sente crollare la terra sotto i piedi? I piccoli borghi saranno realmente la risposta più adatta a chi è ormai convinto che la città sia diventato un luogo invivibile? Viviamo un momento di grandi riflessioni, un momento in cui la condizione umana si gioca il pezzo più significativo della sua storia, di fronte alla quale ha doveri molto precisi, primo fra tutti la protezione della vita in tutte le sue forme. Gli articoli di Alberto Palazzi aprono un dibattito molto interessante, in particolare quando il direttore pone sul piatto, con una certa veemenza, quale sia l’impegno di una politica a cui stanno veramente a cuore i problemi dei suoi cittadini. Esiste ancora una politica capace di superare gl’interessi di parte? Capace di capire che la nazione abbia bisogni molto più importanti di quelli strettamente correlati al potere di parte? E’ possibile che in un momento di grossissima difficoltà, quando il buon senso richiede unione e il massimo della convergenza, ci si dimentichi di quanto sia importante salvaguardare l’interesse nazionale? E’ all’interno di queste domande rimaste senza risposte concrete che il mondo del giornalismo di Alberto Palazzi si colloca, non dimenticandosi mai della propria condizione e delle proprie aspirazioni. Certo il tema della condizione umana è quanto mai aperto e forse, come sostiene il direttore, varrebbe la pena riprendere in mano il libro della storia, rileggerlo con attenzione, riproporlo e rivisitarlo, magari criticandolo, ma cercando di mettere bene a fuoco quelle condizioni reali che aiutino l’umanità a ritrovare la sua strada, la sua identità, la sua voglia di essere diversa, più attenta e rispettosa di quel mondo che ha ricevuto in consegna e di cui deve rendere conto.  

Francesco Chiodelli

[..] L’idea dei “piccoli borghi” sembra nutrita da un romanticismo tipico di chi i piccoli comuni li ha vissuti solo da turista – e, probabilmente, solo per una minuscola frazione, costituita da meravigliosi centri storici in un paesaggio idilliaco.

Ma, purtroppo, non tutti i piccoli comuni italiani sono luoghi di questo tipo. Molti di questi ultimi sono paesini quasi inaccessibili, non necessariamente affascinanti dal punto di vista architettonico e spesso privi dei servizi pubblici essenziali – in cui, sovente, la connessione internet è decisamente zoppicante, con buona pace dello smart working.

Sono luoghi che si sono progressivamente depopolati non per un capriccio, ma perché qui la vita è dura: i servizi lontani, le opportunità lavorative quasi nulle, le relazioni sociali asfittiche. Per andare a scuola, all’ospedale o a prendere il treno devi farti un’ora di auto su strade tortuose – i difficilmente percorribili nella stagione invernale.

Chiariamoci, non sto mettendo in discussione la necessità di valorizzare e rilanciare i piccoli centri, ma il fatto che tale rilancio possa rappresentare un’alternativa praticabile alla vita urbana come l’abbiamo conosciuta fino a ora e debba trasformarsi in una delle principali politiche urbane nell’epoca della pandemia [..] .

Estratto di un articolo del prof. Francesco Chiodelli  pubblicato sul Manifesto in risposta all’articolo di Stefano Boeri: “Coronavirus: via dalle città, nei vecchi borghi c’è il nostro futuro!”.

 

Brevi riflessioni dell’on. Giancarlo Giorgetti

Come al tempo degli sfollati di guerra dalle città.

Sono assolutamente d’accordo.

Soprattutto ora che internet ci renderà più autonomi ma meno indipendenti.

E comunque è la tendenza del futuro.

 

Aurelio Alberto Pollicini

 

 

 

“Virus porta la corona,

  ma di certo non è un re,

                .   °°°

  È un tipaccio piccolino,

              °°°

  È un tipetto velenoso,

  ________  °°°  

“Una vita saggia e nuova”

  Roberto Piumini (15/3/20)

 

“Bravo Alberto,  – dico al Direttore della Rivista che colleziono sin dal suo numero zero –  voglio suonare l’Olifante al tuo articolo sulla situazione che stiamo vivendo!”

Lascio ad altri il compito di approfondire i problemi reali dell’attuale forzato isolamento sociale, perché non ne ho le competenze, ma soprattutto perché mi sono votato – come Piumini nella filastrocca della citazione – a non degnare di battesimo, quello che reputo il più perfido Innominato della Storia.

Però ho ugualmente qualcosa da dire, perché il mio olifante dispone di sensori più sofisticati dei sismografi e mi ha amplificato il fremito delle ossa di Cesare Pavese che si rigirava nella tomba!

Il suono, dolce alle sue orecchie, della musicalità aleggiante sulle sillabe «pic-co-li-bor-ghi» ne ha risvegliato lo spirito. Si è ricordato di “La luna e i falò” che contiene il suo testamento di amore per il Paese:

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

Questo amore sta ricominciando ad alimentare chi parla dei piccoli borghi. Ma non basta parlarne, bisogna avere dei modelli delle vere fondamenta di quella aggregazione che non passa di moda e quindi si innesta anche nella modernizzazione.

Butto là come esempio lo spirito del popolo Walser. Per quelle genti che si adattarono, senza vincoli di confini, a fecondare le matrigne zolle digradanti attorno alle vette del Monte Rosa, la fontana, il forno, il campanile rappresentavano il crocevia del nucleo di aggregazione per una comunità solidale. In vasti spazzi sorgevano molteplici isolate frazioni. In ognuna pulsava la vita, il lavoro, la collaborazione. Per i problemi di interesse generale, in una frazione prescelta – il capoluogo – convergevano per scambi e mercato, vi si riunivano i capi famiglia per questioni inerenti le proprietà e “con animo patriarcale, vi si somministrava la giustizia”, nonché, periodicamente vi si celebravano le feste che andavano a consolidare le loro tradizioni.

Va sottolineata la caratteristica essenziale nel loro spirito: il rispetto del piccolo. Già, piccolo è pure bello.

Mi si consenta di chiudere questo mio sproloquio, scivolando nel personale: la visione del piccolo da sempre mi accompagna. Lo era il villaggio di periferia sotto il mio cielo natio; trasferendomi via via in comuni di questa provincia, a Cocquio, mi sentivo di Sant’Andrea, a Gavirate ero nell’orbita di Voltorre e del suo Chiostro, ora in Varese  è datato Casbeno, ogni mio scritto.

 

Aurelio Alberto Pollicini

Casbeno, 24 aprile 2020

 

 

Marco Bussone

Ho letto con molto piacere la Sua analisi su Repubblica di oggi, che segue quella dell’architetto Fuksas pubblicata nei giorni scorsi. Mi ha particolarmente colpito il Suo virgolettato nel titolo che richiama quanto da Lei affermato nella risposta alla seconda domanda della giornalista Brunella Giovara. “Via dalle città. Nei borghi c’è il nostro futuro”. [..] Nei borghi da Lei richiamati non servono griffe, o tanti milioni di euro. Servono in primo luogo modelli e progetti, visione. Ascolto degli Enti locali, dei Sindaci, protagonismo delle comunità abitanti. Servono rilancio delle politiche per agricoltura e ripensamento dei modelli turistici. I borghi non sono luna park e non sono tutti disabitati. Tanti, moltissimi sono i ruderi. [..] Possiamo usare meglio e più fondi europei per la politica di coesione che dovremo avere proprio per rivitalizzare i nostri borghi alpini e appenninici. Per un Programma operativo nazionale dedicato alla Montagna e alle aree interne. Questa emergenza sanitaria lo impone. Aggiungo: il Suo “bosco verticale” non può non condurci in un patto per ridare valore e gestione attiva a 11 milioni di ettari di foreste che crescono troppo in Italia, invadendo il borgo, mettendo a rischio e in pericolo la vita dei montanari e la loro economia agricola, multifunzionale. Anche per costruire, smettiamo di importare da altrove il materiale che ci serve. Facciamo qui. Lavoriamo insieme, Professor Boeri, per rafforzare le reti dei servizi. 200 Comuni in Italia, tra quelli che lei enumera su Repubblica di oggi, non hanno più un negozio o un bar. È gravissimo. Altri 500 sono a rischio. Il digital divide distrugge i borghi più del tempo. Insieme a Lei, possiamo spingere sulle Istituzioni per l’accelerazione del Piano banda ultralarga e per nuovi ripetitori che consentano a 1200 Comuni italiani di non registrare più difficoltà a telefonare, mandare messaggi o vedere la tv. Lavoriamo insieme anche per un’azione che porti servizi scolastici, sociali e trasporti di qualità, affinché i territori, i borghi, le zone montane del Paese, non subiscano continui tagli quando i bilanci degli Enti regionali e dello Stato vengono sforbiciati.

Lavoriamo insieme sulla fiscalità differenziata e peculiare per queste aree montane, per chi vive oggi e per chi vuole vivere e fare impresa nei borghi. Un modello fiscale univoco, esistente oggi, non è egualitario, bensì sperequativo. Non va incontro a chi nelle aree montane conduce un negozio di prossimità, unico del paese e si trova a dover pagare le stesse imposte del caffè in piazza San Babila o della catena commerciale in piazza Vittorio Veneto. Dobbiamo agire in fretta su questo. L’emergenza sanitaria impone nuovi modelli economici che non chiedono “alle città e alle aree montane di adottare un borgo”, bensì di trovare soluzioni sussidiarie che evitino che i paesi siano solo più luogo dove rimane chi non sa dove andare o dove si faccia un po’ di turismo del week end, qualche gita, che lascia niente, manco la spesa per un panino.
Negli ultimi vent’anni, questa traiettoria fondata sull’assistenzialismo e sulla lamentazione un po’ si è invertita: tanti borghi, moltissimi paesi sono luoghi di sperimentazione, benessere, innovazione, non solo artistica, culturale, professionale. Nuovi modi di abitare. Nuovi modi di essere Comunità. Perché qui dimostriamo – o ci sforziamo di attuare, meglio – quanto ripete il Santo Padre: “Non ci si salva da soli”, “Senza una visione di insieme, non ci sarà futuro per nessuno”. Dunque non un’adozione ma un nuovo legame tra aree urbane e montane. Dove le prime riconoscono e valorizzano (anche monetariamente) quei servizi ecosistemici-ambientali che la montagna svolge, con le foreste che assorbono Co2 e con il governo dei versanti per la protezione del dissesto assicurando le fonti idriche, ad esempio.

 

Giambattista Aricocchi

Quanto esposto dal direttore Palazzi – nonché amico Alberto – sulla prospettiva o previsione fatta dall’architetto Stefano Boeri sul quotidiano «La Repubblica» per cui questa epidemia del Coronavirus faccia riscoprire il piacere e la voglia di fuggire dalle popolose, opprimenti o peggio ancora malsane città per trovare in un piccolo borgo bucolico la gioia di una nuova vita “a misura d’uomo”, immerso nella natura, a respirare aria buona mi porta a qualche considerazione in merito. La prima, è che mi trovo perfettamente d’accordo con quello che ho letto nel tuo articolo, Alberto; e cioè che i paesi torneranno a suscitare un interesse collettivo e che questa sciagura sanitaria potrà fare da volano per quel processo di riscoperta da parte di chi vorrà lasciare le grandi metropoli e il loro frenetico stile di vita. Devi però ammettere che la tua – come del resto la mia – visione di paese scaturisce dal fatto di esserne figli, romantici (forse), a tal punto da non accontentarsi di esserci nati ma, addirittura, con la speranza di venirci sepolti, senza che ci passi minimamente per la mente il pensiero o la voglia di vivere in qualche altro posto nel mondo che non sia Caldana o Caravate. Fortunati, ecco cosa siamo, fortunati di non aver dovuto aspettare il Coronavirus perché qualcuno ci dicesse che vivere in un paese è meglio che vivere in città! Ma ne siamo veramente sicuri? Non è altrettanto vero quello che vale per noi due – “paesani doc” – che valga per altrettanti due – “cittadini doc” – che sono nati e vivono, che so, a Milano piuttosto che a Firenze o Roma? Naturalmente sto parlando di chi vive in zone cittadine centrali o nei cosiddetti quartieri “bene” e che ha quindi una possibilità economica, un tenore di vita, diciamo, medio alto; non di certo per chi fatica a sbarcare il lunario e vive in quei palazzoni di periferia dove la città, purtroppo, a volte, da il peggio di sé. Detto ciò, ora – Alberto – vorrei riflettere su quello che ha scritto Boeri. E partirei proprio dal titolo dell’articolo-intervista: “Via dalle città. Nei vecchi borghi c’è il nostro futuro”. Ritengo che lui riassuma nelle due parole usate: “borghi” e “nostro”, la concezione che ha del paese, della città e della rivoluzione che prospetta. Mi spiego. Boeri è un architetto di fama e come tale parla di “borghi” e non di paesi. Il borgo, infatti, è la sublimazione del paese, è solitamente un luogo magico – dice lui – “…ti danno la casa in un centro storico a un euro…”. dimenticando di precisare che poi ci vogliono novantanovemilanovecentonovantanove euro (per fare centomila!) di lavori di ristrutturazione. E, detto questo, arriviamo alla seconda parola del titolo: “nostro” . Ma con quel “nostro” chi intende? Parla forse di chi vive in un appartamento nel suo Bosco Verticale e ha deciso di trasferirsi per trovarne uno orizzontale? (come dice anche Giorgetti). Allo stesso modo posso immaginare che chi potrà venire nei nostri, o in altri piccoli paesi, lo farà perché può permetterselo e… non lascia niente di così invivibile o insopportabile, fa solo una scelta di vita diversa e nuova che, spinta da qualche “influenzatore” di turno (anche se, visto il momento, non lo prenderei proprio come riferimento!), diventerà pure trendy! Quindi Boeri non dice cose sbagliate, parla solamente dal suo mondo e al suo mondo, parla di borghi, di case di villeggiatura, di auto elettriche, di negozi con dehors, parla di prossemica, app per prendere l’ascensore da soli. Tutto bellissimo, lui, d’altronde, vive tra Shangai e Milano in un palazzo in centro con “un merlo che va a becchettare sereno sul suo balcone”. Pertanto, caro Alberto, penso che per il paese sarà sicuramente un’occasione per tornare al centro di un’attenzione sociale ma, proprio per questo, dovrà essere seguita con attenzione perché questa nuova immigrazione non porti con sé le storture cittadine che voleva lasciare. Perché, lasciamelo dire, con tutto il rispetto per l’architetto Boeri, penso che per cambiare le cose dovremmo prendere spunto, più che dalle sue soluzioni, da quello che realizzò l’architetto Giovanni Broglio nell’edilizia popolare a Milano. Ecco, partendo da lì, da quelle periferie dove gli spazi non ci sono, il verde è poco o nulla, l’aria è pesante… e non solo per le polveri sottili, forse, da lì, possiamo cambiare qualcosa di importante per le città e per i paesi dove non ci si dovrà arrivare perché si scappa ma perché li si ama.

Sella  Giorgio

Non ho letto l’articolo di Boeri in merito al corona virus e sui paesi che dovrebbero offrire salute, e ricovero, specialmente ai cittadini i quali, al momento del bisogno calano come le cavallette nei villaggi che possono, specie  in questi tempi, offrire loro i benefici del piccolo. Del resto l’architetto Boeri sa fare bene il proprio mestiere e ha mostrato la sua ecletticità progettando i palazzi con i giardini sospesi in tal modo dimostrando che si possono portare in piena città le caratteristiche della campagna e viceversa, portare nei paesi i progetti della città. Meno male che ci sono voluti (solo!) 20.000 morti per far si che i borghi antichi tornassero al centro dell’ attenzione! Le sue riflessioni sui nuovi modi di vivere, di lavorare, di passare il tempo libero mi sembrano azzeccate, sempre che la mazzata economica, dovuta al virus, caduta fra capo e collo sulle piccole e medie imprese, sui commercianti, sulla classe media in genere, non lascino troppi cadaveri sulla via della ripresa. Del resto i paesi come il nostro hanno pagato un prezzo carissimo in termini di snaturamento dei rapporti interpersonali, in termini di chiusura dei bar, dei piccoli negozi, dei circoli cooperativa dove trenta-quaranta anni fa si  discuteva di idee  e di progetti,  di illusioni e di utopie … e dove si incominciava ad intravedere che il mondo non andava bene se continuava su quella strada a contatto con quella borghesia, sempre pronta a leccare le ossa al più ricco…  Del resto dopo 40 anni le due più grandi  aziende della provincia di Varese sono ancora  la  Whirpool e la  Agusta-Westland… due ditte monster… quello che non manca è il verde, meno male di quello ce ne e’ in abbondanza, si puo’ dividere equamente anche con altri…

 

Giorgio Roncari

 

Milan l’è un gran Milan, dice il proverbio, ma il paese è sempre il paese.

Lo scoprii in pieno quando, ventenne volli, fortissimamente volli andare a lavorare e vivere in città che per noi è Milano chiaro, mica Varese o Busto o Como. Mi pareva di entrare in un’altra dimensione, un mondo che mi immaginavo il migliore, di liberarmi finalmente da un retaggio arcaico che in quel momento mi stava stretto. Dopo pochi mesi mi resi conto che tutto questo mio entusiasmo giovanile era andato a farsi benedire stritolato com’ero dalla frenesia della città, dal rapporto umano praticamente inesistente, anche sul posto di lavoro e anche nel palazzo dove vivevo nel quale ci abitava metà della gente del mio paese, e dove, tra parentesi, vi erano ancora i gabinetti in fondo alla ringhiera.

Casermoni e grattacieli che ti nascondevano il cielo, traffico assurdo, smog che ti anneriva il fazzoletto, musi lunghi, nessuno che ti rivolgeva un saluto, code e assembramenti e barboni in tanti luoghi e in primis nelle stazioni di treni, metrò e tram. In città trovi lavoro, cultura, opere d’arte e tanto altro ma se questo ero lo scotto per viverci, era un gioco che non valeva la candela. Alla fine me ne tornai al paese, deluso ma ricco di un’esperienza che è servita a farmi riscoprire con altri occhi l’importanza del paese, della sua gente, della sua tradizione e della sua peculiarità così da ritornare a viverlo con entusiasmo in ogni sua sfaccettatura, sociale, economica, storica e politica.

Mezzo secolo fa il paese aveva un certo valore anche per chi viveva in città, ci veniva spesso e per lungi periodi. Nei mesi estivi ogni borgo si popolava a dismisura e paesani e cittadini convivevano con tutto quello che ne segue; si faceva comunella, nascevano amorazzi, e se pure gli sfottò dovuti alle differenti mentalità erano all’ordine del giorno, il paese era in ogni caso considerato luogo di rifugio. Poi si sono preferiti posti più esotici che il raggiunto benessere ha permesso di frequentare e prediligere, così il paese è diventato sinonimo di qualcosa di superato, vecchio, vuoto.

Ora in clima di coronavirus dove, come dice il direttore Palazzi, si respira un’atmosfera da fine del mondo – atmosfera a mio modesto parere esagerata da bollettini incalzanti da paura, scoop a sensazione strappa lacrime, a volte da caccia all’untore come ai tempi della peste di Renzo Tramaglino, per tacere degli inseguimenti con tanto di droni – ora, dicevo, che la gente farebbe carte false per poter scappare dalla città, dove per ragioni contingenti è meno possibile uscire da casa, e trovare riparo in un paese qualunque, ora leggo come le archistar, quelli che hanno costruito grattacieli e grandi opere ardite e spettacolari per rendere sempre più belle e prestigiose le metropoli, dicono che è giunto il momento di cambiare sistema. Si devono ridisegnare le città, renderle più vivibili, creare più spazi verdi, studiare più luoghi a misura di uomo, più negozi all’aria aperta, contenere le polveri sottili, ristudiare addirittura gli ascensori covo di eventuali futuri focolai epidemici.

Tanti bei proponimenti ma non mi stupirei che finita l’emergenza tutto ritorni come prima. E credo anche che pochi saranno quelli che prenderanno seriamente in considerazione la possibilità di andare a vivere davvero in un paese.

Da tempo mi sono reso conto di come viviamo nell’era dove tutto deve essere sempre un record da sbandierare con orgoglio, e sopra ogni cosa l’economia che pare debba crescere all’infinito, per la qual cosa ci vengono propinati continui e assillanti rapporti economici riguardanti lo spread o il pil o le variazioni di borsa. Ho i miei dubbi che finanzieri e politici, abbiano la capacità o la voglia di capire che tutto ciò è solo una mera alchimia astratta che ha perso di vista la realtà delle cose, del vivere quotidiano della gente comune, dei paesi che vengono lasciati in balia di sé stessi perché chi ha le leve del comando ritiene più conveniente che ogni cosa debba essere centralizzata, convogliata nei grandi agglomerati urbani.

Tanto poi confezioneranno degli emozionanti documentari sui paesi disabitati che vanno scomparendo e magari ti venderanno una casa per un euro.

 

Fulvio Fagiani

Da Milano al paesino, senza ritorno.

 Per poco più di metà della mia vita sono stato un cittadino, per poco meno della metà sono stato paesano (si dice ancora così?).

Prima cittadino nella splendida Genova, con il mare, il tempo mite, la tramontana, il confine nitido tra cielo azzurro e nuvole, poi Milano, con la sua internazionalità, l’innovazione, lo studio e il lavoro, la sensazione di sentirsi sempre al centro degli eventi fondamentali, la passione civile.

Sulla soglia dei trentacinque anni ho deciso di trasferirmi con la famiglia in un piccolo paese del varesotto, luogo d’origine di mia moglie.

Per la verità, per un anno dopo il trasferimento ho mantenuto l’appartamento di Milano che avevo in affitto. Così, mi dicevo, se faccio tardi al lavoro non devo sobbarcarmi il viaggio.

Invece non mi fermavo e tornavo, a qualunque ora, a casa. Perché? Ma perché al mattino aprivo la finestra e mi sorrideva il Monte Rosa e gli altri monti di contorno, non il muro della casa di fronte e, in lontananza, il Pirellone.

E’ così: anche quando vivevo a Genova, malgrado Capo Santa Chiara, Boccadasse, Corso Italia e la farinata, la torta pasqualina e la focaccia, sognavo di vivere in campagna.

Mi stupiva, quando passavo le vacanze in un minuscolo paese in Valle d’Aosta, che lì il verde fosse la norma, cemento e asfalto l’eccezione. A Genova era il contrario: il verde era in un quadratino d’aiola circondata da strade e palazzi.

Ancor prima di decidere di lasciare Milano leggevo a mio figlio un libretto che mostrava una casa, tipicamente americana, che lasciava intravedere il verde da ogni finestra, e sognavo di vivere una situazione simile.

I primi tempi ‘di campagna’ avvertivo potenti nuove sensazioni.

La mattina, appena svegliato, il canto degli uccelli. La sera, sul terrazzo di casa, la spianata dei prati invasi dalle cicale (o grilli? Non sono mai stato capace di distinguerli). E lo scorrere delle stagioni non era più il semplice passare dal freddo al caldo, ma le metamorfosi della vegetazione, dalla fioritura di marzo, alle nuove foglie di maggio e giugno, fino all’ingiallire dell’autunno. Non me ne ero mai accorto, capirete, per quei poveri alberi dei vialoni milanesi.

E la vita sociale? Mi ero trasferito in un posto in cui non conoscevo nessuno, a parte gli stretti parenti di mia moglie. Ma non mi assillava, avevo i figli piccoli, il tempo lo passavo con loro.

Certo, avevo il vantaggio che lavoravo a Milano, lì non mi mancava lo sguardo sul vasto mondo.

Così, giunto alla pensione, non ho pensato al ritorno alle origini, malgrado ‘Ma se ghe penso’ mi commuova sempre, ma ero ben certo delle mie nuove radici.

Avevo molti amici, molte reti sociali, conoscenze, attività, opportunità. Tutta la mia vita era ormai qui, compresa ‘Menta e Rosmarino’.

Né mi sono mai pentito, neanche una sola volta, della decisione di lasciare la città.

Come avrei vissuto oggi, in piena pandemia e auto-segregazione, nei sessanta metri quadri dell’appartamento di Milano, con il mio metro quadro di poggiolo costantemente bersagliato dai piccioni (vivevo all’ultimo piano)? A parte i miei vicini del piano, non conoscevo pressoché nessuno, era già tanto farsi rispondere al saluto.

Qui, godo del giardino, degli spazi ampissimi, delle parole scambiate con i vicini.

Ogni tanto ne parlo con amici di città, che mi decantano le virtù della vita cittadina: molto bene, mi dico, meglio così, altrimenti saremmo tutti qua e Milano sarebbe spopolata.

Beneficiamo anche di quella grande città virtuale che è la Rete, che ci fa vivere in ogni angolo del mondo. Che bisogno c’è, allora, di prendere il treno per Milano, se ho a mia disposizione dalla Svezia alla California, dalla Cina all’Australia?

Tutto bene allora? Se non mi manca nulla della città (a parte la vera focaccia genovese, appena sfornata), qualcosa di più si potrebbe avere. Ci chiudiamo un po’ troppo entro i nostri confini e ci diamo poche occasioni d’incontro non preordinato, manca quel ragionare assieme sulla nostra vita collettiva che possono dare solo i luoghi di frequentazione abituali, che scarseggiano sempre più.

Ma chissà, forse con Boeri…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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