“Sum chi tuta goeuba a furia de netà ‘l pess!”: “Sono qua tutta gobba a furia di pulire il pesce!”. Rita, moglie e mamma di pescatori del lago di Varese, è seduta ad un tavolo, nel cortile della sua casa del Pizzo di Bodio. Ha il sorriso saggio e nel contempo arguto di chi ha avuto una vita faticosa e ancora non disdegna di affrontare le difficoltà, nonostante gli acciacchi. Il “Carlìn”, suo marito, 85 anni (ho lavorato fino agli 80) non esce più sul lago, ma il figlio Daniele è pescatore professionista. Essendo il primogenito, secondo lo statuto della Cooperativa Pescatori del lago di Varese, ha diritto a proseguire un’attività atavica, intrapresa anche dal nonno “il Pìn dul Pizz” e dai suoi antenati. E’ uno dei quattro pescatori professionisti rimasti sul lago. La casa è a ridosso della riva: quella casa, comperata dalla famiglia del marito negli anni Venti del secolo scorso, e che lei abita dopo il matrimonio, da 54 anni. Ne è divenuta il “Genius Loci”: interpreta lo spirito della donna forte che in quelle stanze, anche se non vedeva arrivare il marito perché sulle acque si era sollevato un forte vento non aveva paura. Incoraggiava anche la suocera: “E’ il suo lavoro -le diceva- sa come fare!”. Non aveva creduto nemmeno ad un amico, che anni fa trafelato era giunto a dirle che suo marito era annegato: lui con il cannocchiale, mentre le onde erano alte, ormai non lo vedeva più. E i bambini erano piccoli. Dopo mezz’ora eccolo arrivare: “Tulchì”. “Eccolo, l’annegato!”, aveva detto: sapeva che avrebbe trovato una soluzione di fronte al lago in tempesta. E’ cresciuto sulle acque. Essere moglie di un pescatore per lei ha significato non solo quell’attività intensa di pulizia del pesce, ma anche, anni fa, la pulizia delle reti dai sassi e dalle erbe. E soprattutto i problemi che sorgevano quotidianamente. Qualche anno fa, il Carlìn, che era tutto il giorno sull’acqua, si congelò le mani, dopo aver rotto con i bastoni il ghiaccio per permettere alla barca di navigare. Fu lunga a guarire. “Anche a non prendere niente -interviene lui- si stava sul lago lo stesso”, spiegando così quel mestiere nel suo Dna. Lui e il padre partivano alle 22 “per prendere il posto e mettere giù le reti”. E per avere chiara la posizione, considerata l’oscurità, usavano un asse su cui ponevano una lanterna. E si addormentavano. Poi, quando si svegliavano, “e faven ul bott”: facevano rumore per richiamare i pesci. Rita ricorda anche i pesci ricoperti di neve. Immagine immortalata da fotografi mentre il Carlino rientrava. Fra le difficoltà iniziali della sua nuova vita, giunta novella sposa da Cazzago Brabbia, fu quella di trovare una buona pietra (“la preja”) su cui lavare in riva al lago. Lei era abituata a pietre grandi su cui stava in “crusciun”, in piedi piegata, oppure al lavatoio, dove bisognava arrivare presto la mattina per prendere un posto privilegiato, perché l’acqua fosse limpida e non arrivasse quella insaponata delle altre lavandaie. A Bodio, invece, era costretta a stare in “ginugiun”, in ginocchio. Fatica si aggiungeva a fatica. Ma lei non ha mai desistito.
Federica Lucchini