Per tutta la vita gli era rimasto scolpito nell’animo il senso della fuga. Quella fuga disperata e continua per salvarsi dai turchi che lo avrebbero ucciso.
In questi giorni in cui è attuale la memoria del genocidio degli armeni, in seguito alla visita del Papa in Armenia, è significativo ricordare una figura vissuta per anni a Gavirate e che la strage l’aveva vissuta sulla sua pelle. “Al punto di non ricordarsi nemmeno più il suo cognome, al punto di mettere tutte le sera un mobile robusto davanti alla porta di casa, ripetendo il gesto dei suoi genitori terrorizzati dalle razzie, anche se ormai ciò non aveva più senso”, ricorda la figlia Carla.
Nella memoria di Giacomo Nagiarian, netturbino di Gavirate, non si era mai cancellato il ricordo dei genitori, che abitavano a Diarbekir e che un giorno costrinsero i tre figli a fuggire nei boschi per salvarsi. In quei boschi aveva vissuto esperienze che sarebbero state terribili anche per un adulto: per poco tempo i piccoli riuscirono a sopravvivere nutrendosi di radici, poi fu proprio lui, a cinque anni, che assistette alla morte di stenti del fratellino e della sorellina.
Fu lui a seppellirli. E questo ricordo non si cancellò mai e costituì una cesura nella sua memoria, al punto che dimenticò addirittura il suo cognome. Poi la continua fuga, finché un giorno incontrò un uomo con una gerla, che servì per nasconderlo. La sua presenza fu provvidenziale perché costituì l’inizio del viaggio che l’avrebbe portato in Italia.
“Assieme ad altri bambini – spiega la figlia Lina – in nave raggiunse l’isola degli armeni a Venezia nel 1914, ma la paura, l’abitudine a scappare furono compagne costanti, anche negli atteggiamenti quotidiani. “Come ti chiami? Quando sei nato?”.
Domande troppo difficili per una mente sconvolta. E così, osservandolo nel fisico, gli fu assegnata come data di nascita il 1908 e come cognome quello che si portò per tutto il resto della vita, ma che gli impedì di poter poi avere notizie dei suoi genitori, di cui non seppe mai più nulla. L’Italia rappresentò la salvezza e l’inizio della vita in un collegio dove gli fu difficile accettare le regole. La vita a Gavirate, raggiunta in seguito alla conoscenza di un piccolo industriale di calze, fu caratterizzata dalla formazione di una bella famiglia, di tre figlie a cui insegnare i primi rudimenti dell’armeno, quella lingua che era iscritta in lui, e con cui parlava con i suoi connazionali sparsi per la nostra terra. Giacomo Nagiarian ha vissuto a fondo il mondo degli affetti, ha sentito sempre il bisogno di frequentare la comunità armena di Milano.
“Dentro di lui – ricordano le figli – c’era il desiderio struggente di poter rivedere la sua casa, ma anche se avesse potuto sarebbe stata quella? La memoria non l’aiutava certo: provvedeva, però, a fargli rivivere tutte le notti la fuga disperata nel bosco e quel gesto di estrema pietà nei confronti del fratellino e della sorellina”.
Federica Lucchini