“Questa mattina siamo stati tutti Antonia Pozzi”. Felice l’espressione del professor Fabio Minazzi, ordinario di Filosofia teoretica, il 16 ottobre 2015 nell’Aula Magna dell’Insubria, al termine dello spettacolo “L’infinita speranza di un ritorno. Vita e poesia di Antonia Pozzi (1912 – 1938)” allestito nell’ambito del Progetto dei Giovani Pensatori. Per un’ora e venti minuti, in due turni separati, gli oltre 450 studenti di scuola superiore con i loro docenti, grazie all’ordito sapiente del testo, scaturito da un rimando continuo tra poesie e lettere di Antonia, hanno vissuto il suo percorso interiore in un silenzio che sapeva di grande partecipazione, catturati dall’interpretazione di Elisabetta Vergani – magistrale nel calarsi nell’animo della poetessa, di fronte ad una scenografia composta da elementi essenziali e significativi – dalla musica di Filippo Fanò al piano – in sinergia con gli stati d’animo di Antonia – e dalla accattivante regia di Maurizio Schmidt. Elemento rilevante per lo svolgersi della narrazione è stata la presenza di uno schermo su cui sono scorse immagini di Antonia e alcune delle 5000 foto scattate da lei sulla pianura padana in una ricerca dell’anima avita. “Questo è il meglio per me. Mi è mancato un affetto che mi riempisse la vita. I miei bambini non mi bastano più. Non piangete perché io sono in pace” scrisse il 2 dicembre 1938, prima di suicidarsi nel prato antistante l’abbazia di Chiaravalle. La narrazione è partita dall’anno del suo decesso; anno in cui vennero promulgate le leggi razziali che videro vittima l’amico Paolo Treves: “Forse non ci vediamo più, noi – anime diverse, ma profondamente unite – rimasti con questi vuoti che ci si fanno attorno”. Poi, un salto temporale, nel 1928 in cui Antonia appare gioiosa con il professore Antonio Maria Cervi, trasferito poi da Milano a Roma. La disperazione: “Ho imparato cosa è il dolore. Lei mi ha dato uno scopo e una fede. Cervi caro, è terribile essere una donna di 17 anni. Dentro, non si ha che un pazzo desiderio di donarsi”. La narrazione dell’excursus esistenziale di “questo strambo Tugnin scombinato” – come si è definita Antonia stessa – con passaggi di sensibilità raffinatissima (“Vivo di poesia come le vene vivono del sangue”; “la poesia è raccogliere negli occhi l’anima delle cose”), ha riguardato l’incontro con il mondo accademico (“Vito caro – scriverà a Vittorio Sereni – è terribile adattarmi alla vita pratica. Finirò per perdere la parte più vera di me”) e i suoi adorati bambini – alunni. Nel “tempio” degli studi su Antonia, quale è il Centro Internazionale Insubrico di via Dunant, dove ha sede tutta la sua biblioteca e il suo archivio straordinario, non poteva mancare la presenza della loro curatrice, suor Onorina Dino che con grande umiltà e profonda conoscenza ha commentato la lirica “Roccia”, piena di immagini simboliche che conducono alla poesia come ancora di salvezza. L’incontro è terminato con l’intervento di Stefania Isella sul valore dell’archivio e della ricercatrice Giulia Santi che ha chiuso con versi di Antonia: “La poesia, esile scia di silenzio tra le voci, come il bianco in mezzo all’azzurro”.
Federica Lucchini
– “Scesa dal monte, la chiesa/ stupì – quando vide/ il lago – e bianca/ si fermò qui./ Ora sorregge/ con la sua porta chiusa le mie spalle/ stanche: s’aduna/ nei miei occhi la pace/ del suo gran volto/ per guardare la sera”. E’ la chiesa degli affetti per la poetessa Antonia Pozzi quella di santa Maria di Laveno, che si incontra entrando nell’abitato. Le aveva dedicato la lirica “Sera sul sagrato”, datata 3 novembre 1933. Era il luogo del silenzio, della meditazione e delle radici: vi trovava le tombe dei suoi nonni paterni, Rosa Pastori, insegnante lavenese, e Angelo Pozzi, docente di Intra. Accanto, la tomba delle zie Ida ed Emma, figure che era solita frequentare. Nella biografia della poetessa, c’è molto della nostra terra. Soprattutto le vacanze serene con i familiari. A Laveno e Carnisio, località di Cocquio Trevisago presso la villa dei Morlin Visconti – proprietà dello zio Oscar – circondata da un grande parco che domina la vallata sottostante. Soggiorno abitudinario il suo e molto gioioso. In una lettera scritta nel luglio del 1929 alla madre (riportata in A. Pozzi “L’età delle parole è finita, Lettere 1923 – 1938” a cura di A. Cenni e O. Dino, edizioni Archinto 2002) la residenza la definisce “Grand Hotel Morlin” dove “si sta d’incanto e soprattutto si mangia da re. Questione di clima, questione di pietanze, vorrei che fossi qui a vedere che spanciate faccio: non diresti più che vivo d’aria e di poesia. I miei gentilissimi ospiti m’incaricano di dirti che non sono soverchiamente ingombrante. Li tengo allegri e,a furia di risate, sono riuscita a far mangiare anche “el scior dottor”. Mi sono cimentata in mirabolanti “exploits” fotografici. Prima di pranzo, facciamo sempre una trottatina e andiamo a prendere il vermouth a Orino. Io ho ritrovato perfettamente il mio bel sonno da ghiro”. Pochi giorni dopo questa lettera a Pasturo, ai piedi delle Grigne, dove è ora sepolta, scrisse al professor Anton Maria Cervi: “A Carnisio ho tanto studiato: con calma, senza affanno. Sono contenta. Sono anche abbastanza buona. E’ terribile essere una donna, ed avere diciassette anni!”.
Osserva Silvio Raffo: “Il paesaggio nella poesia di Antonia non è mai oleografico, ma sempre proiezione di stati d’animo, viva e pulsante personificazione del divino o comunque spunto per riflessioni interiori e stimolo ascetico”. Come in questa poesia che ha come tema il lago che si ammira da Laveno e intitolata “Altura”: La glicini sfiorì/ lentamente/ su noi/ E l’ultimo battello/ attraversava il lago in fondo ai monti/ petali viola/ mi raccoglievi in grembo/ a sera:/ quando batté il cancello/ e fu oscura/ la via del ritorno”.
Alcuni studiosi hanno dedicato la loro attenzione alla figura della Pozzi, ospite nelle nostre terre: da Giuseppe Musumeci a Luciano Paoli sul periodico lavenese “Cunta su” e Gianni Pozzi, Aurelio Pollicini sul semestrale “Menta e Rosmarino”.
Federica Lucchini
Sera sul sagrato
Scesa dal monte, la chiesa
stupì – quando vide
il lago – e bianca
si fermò qui.
Ora sorregge
con la sua porta chiusa le mie spalle
stanche: s’aduna
nei miei occhi la pace
del suo gran volto
per guardare la sera.
Io guardo i cipressi vicini,
il villaggio, le sponde,
l’isola lunga, fasciata
di luci e di onde:
nell’isola,
nel profondo del bosco,
una casa, la casa del sogno –
Io sento le tombe vicine –
che pure non scorgo – tremare
in ogni erba che sgorga
ai miei piedi.
Io penso che ormai possa il cuore
sostare
se per lui laggiù battono
i grandi cuori invisibili
dei campanili –
se un unico cielo
arde lento e confonde
in una luce estrema
i sogni, gli assenti –
e i dolenti
desideri dei vivi
placa – facendoli veri
ed eterni.
3 novembre 1933
ALTURA
Il glicine sfiorì
lentamente
su noi.
E l’ultimo battello
attraversava i laghi in fondo ai monti.
Petali viola
mi raccoglievi in grembo
a saera:
quando battè il cancello
e fu oscura
la via del ritorno.
11 maggio 1935