Mentre saliamo verso i Sette Termini Franco Parini si lascia andare a qualche flash sulla sua vita passata, quella vissuta sulle due ruote come dilettante. Un grande momento per il falco di Bonera di Montegrino, vittorie conquistate ovunque, piazzamenti importanti, al punto che viene chiamato a rappresentare l’Italia nella cronometro a squadre, sfide alla pari con corridori che sarebbero diventati grandi campioni del panorama ciclistico internazionale, uno spazio in cui Franco era sicurissimo di essere chiamato e di poter fare grandi cose. Per tirargli fuori qualcosa bisogna insistere, perché è una persona molto perbene, non si mette mai in giudizi azzardati, ma non ci vuole molto a capire che quel settantacinquenne brillante che scollina insieme a te con l’orgoglio di un ragazzino, era perfettamente cosciente di poter dire la sua nell’olimpo della bici. E’ davvero terribile come in molti casi l’onestà e la buona fede invece di essere premiate diventino vittime del baratto umano, una sorta di bottega in cui la mistificazione prende il sopravvento e distrugge ogni speranza. Franco Parini è un uomo felice, un marito felice, un padre felice e un nonno felice, ma l’idea di essere stato messo da parte non gli va proprio giù. Nella sua onestissima condizione di uomo dabbene non riesce a elaborare il male, soprattutto quello che gli ha impedito di manifestare appieno la propria straordinaria combattività sportiva.
E’ incredibilmente brutto sapere di valere, di essere all’altezza, di poter fare tantissimo e dover renderti conto che quel mondo che hai davanti, al quale hai donato la parte migliore di te stesso, gode nel vederti messo da parte come se non valessi nulla. Invidia, egoismo, cattiveria, ignoranza hanno una ricaduta gravissima sul genere umano e purtroppo in molti casi hanno la meglio. Pedaliamo con l’idea che ogni pedalata sia il ricostituente migliore per la nostra vita e non solo, lo facciamo di proposito perché crediamo veramente nella forza terapeutica dello sport, nella sua capacità di lenire le sofferenze, di rigenerare e di rilanciare. E’ la prima volta che pedalo con una persona che non si esibisce, che non vuole dimostrarti che è più forte di te, che sa dosare con venerabile parsimonia la sua forza. Pedaliamo con la convinzione che stare bene si può e che in fondo basta poco, basta forse saper apprezzare una bellissima giornata di settembre e accettare di far un po’ di fatica, quella che non collassa, ma che aiuta il fisico e la mente a rigenerarsi e a ritrovarsi. Ogni tanto il Franco si gira e mi dice se va tutto bene. Come può non andare tutto bene con un ex campione del mondo che a settantacinque anni sale verso i Sette Termini senza esibire il benché minimo sforzo. Pedalare dietro di lui è un onore. In alcuni tratti il mio respiro diventa pesante e ho cinque anni di meno, lui invece è inossidabile, non lo senti, è silenzioso, sale regolare come sempre, compatto e immobile. Ha un occhio incredibile, non perde una virgola di tutto quello che gli gira intorno, è attento e ascolta, capisci che ha ancora la stoffa del campione. Ogni tanto lo provoco. “Come sarebbe andata nella cronometro, col Binda?”. Mi guarda e sorride, forse vorrebbe dirmi qualcosa, ma capisco che è meglio non continuare. Eppure sono convinto che il Franco, nelle gare a cronometro, le avrebbe suonate a chiunque, forse anche a quel Jaques Anquetil che aveva incontrato durante un allenamento in Francia. Passista, velocista, scalatore, cronomen, era un corridore perfetto sotto ogni punto di vista e in più con un carattere combattivo e generoso, capace di essere obbediente e aggressivo.
Le aveva tutte, ma chissà perché si è dovuto fermare passando tra gli amatori per vincere tre Campionati del Mondo e non so quante corse importanti. Nella valle e oltre lo conoscono tutti. Lo conoscono anche Motta e Gimondi, Venturelli e Passuello e i tanti compagni con i quali ha condiviso il dilettantismo, con i quali ha duettato, vinto e perduto, dimostrando di essere un gagliardo al servizio dello sport, quello vero, quello che si ciba di pane e latte, di emozioni e sensazioni, di fatica e di lotta, di vittorie e piazzamenti. Quando gli dico che anche un secondo posto può essere una vittoria, storce il naso, sorride e mi dice: “Non è la stessa cosa”. Lui, che di titoli e campionati ne ha vinti parecchi, continua a credere che nella vita bisogna puntare a vincere, perché è solo così che si riesce sempre a dare il massimo di sé, è così che si diventa grandi senza dover chiedere niente a nessuno.