E’ difficile scordarsi per chi l’ha vissuta l’esperienza della risaia. Rimane scolpita nella memoria: chi ha praticato la monda del riso è donna forte, abituata ad ogni durezza, costretta dalla necessità ad affrontare sacrifici per noi oggi impensabili. Sono rimaste poche le protagoniste che raccontano: Adelina Evatore, 92 anni, è una di queste. Di origine veneta, nella sua casa di Comerio, quotidianamente evoca particolari che la riguardano, curva nella campagna a Sozzago nel novarese con il “capo” che la controllava, assieme alle compagne. Nessun momento di riposo -tranne il pranzo molto frugale- lavorava dalla mattina alla sera. Per gli uomini la miniera, per le donne la risaia: la similitudine, famigliare decenni fa quando l’avvento dei diserbanti, che avrebbe annullato questa attività, era ancora lontano, dà la dimensione della fatica disumana che dovevano affrontare. C’è un immagine che racconta e colpisce, fra i tanti dettagli: “Eravamo tutte coperte: un cappello legato con un foulard perché non volasse via, un altro foulard in viso per evitare le punture di zanzare che, oltre essere dolorose, avrebbero rallentato il lavoro, pantaloncini rimboccati o gonne legate tra le gambe, calze che avvolgevano solo la gamba. Tutte coperte, tranne le braccia e i piedi. La calza non avrebbe dato stabilità”. Dunque i piedi immersi nel fango, tra bisce lunghe che guizzavano e che si potevano trovare in mano come niente, moscerini e zanzare e altri generi d’insetti, come “i cinque minuti”, venivano così definiti quelli il cui morso faceva soffrire per quel periodo di tempo. La sera le mani erano gonfie, la gambe incrostate dalle punture degli insetti. Certo, l’immagine delle mondine che cantano è reale: ma lo facevano per alleggerire il lavoro, come gli alpini quando salivano in montagna. Lei, in particolare, abitava in una casa di ringhiera, affacciata sulla corte padronale della grande fattoria, da cui dipendeva la risaia. Soprattutto quando pioveva e il lavoro nei campi era sospeso, il suo incarico era di raccogliere le piantine di riso nel vivaio, unirle in mazzi. Sarebbero state portate poi nella risaia, il cui terreno era stato preparato da un trattore con le ruote speciali. E allora si copriva tutta con una mantella, ma la pioggia non toglieva la presenza degli insetti. E soprattutto la fatica. “Nel paese era una festa quando arrivavano le mondine, che rimanevano cinquanta giorni fra giugno e luglio. Erano bresciane di Orzinuovi -ricorda Adelina- Soprattutto al bar del circolo gli uomini si preparavano per i balli serali, a cui avrebbero partecipato le più giovani”. Era uno sciamare di donne quello che avveniva all’ingresso dello stanzone che li avrebbe ospitate. Bisognava assicurarsi le brande e poi riempire i sacchi con la paglia pulita. Una gara tra donne accomunate dal bisogno e spesso abbruttite dalla miseria. Alle cinque del mattino venivano svegliate e via a piedi nudi verso la risaia che spesso non era vicina. Davanti al gruppo il responsabile, anche lui scalzo. Poi, sull’argine erano tutte pronte a sentire l’ordine: “Avanti!”. E tutte giù, in quell’acqua putrida e maleodorante. Le nuove di fronte a questa visione rabbrividivano. Chi stava ritto era solo, oltre il capo, la donna incaricata, durante il periodo del trapianto, di distribuire i mazzetti di riso e l’uomo che distribuiva l’acqua a chi aveva sete. “La sera -le più anziane con la schiena rotta- erano tutte piene di fango che si era essicato lungo la via del ritorno -spiega Adelina- Si dirigevano verso un canale di scolo a lavarsi”. A fatica riuscivano a ripararsi da sguardi indiscreti. Giungeva finalmente l’ultimo giorno, prima della partenza: cacciati alla rinfusa nelle valigie le lenzuola e tutto il resto, con il gruzzolo guadagnato ben nascosto, dopo la festa finale, via a casa. Il paese perdeva quell’animazione che l’aveva caratterizzato in quel periodo. Un aspetto sottolinea Adelina: i rapporti di amicizia che nascevano in quelle condizioni di gran fatica non si sarebbero più recisi. Sono ancora nella memoria.
Federica Lucchini