Il mondo dell’arte è in lutto: la scomparsa, avvenuta sabato sera (27 gennaio) del critico Luigi Piatti, 89 anni, autore di innumerevoli libri e cataloghi chiude una grande pagina di operosità, acume, simpatia, e apre quella altrettanto grande della riconoscenza: se non ci fosse stato il Ginetto – così era conosciuto – il mondo dell’arte varesino non avrebbe avuto la consapevolezza di un panorama artistico articolato e ampio che sarebbe sepolto o sparso nelle cronache dei giornali. Ecco perché le esequie che si terranno oggi (29 gennaio) alle ore 14,30 nella chiesa di Barasso vedranno la presenza di molte persone. E’ stato lui, fine tessitore, che per una vita, ha unito i fili più disparati di avvenimenti significativi e di altri che sarebbero finiti nell’oblio, consegnandoci una tela – contraria a quella di Penelope, giacché si allunga sempre di più, grazie al suo instancabile lavoro – dalla trama consistente in cui si fondono cultura, sapienza, verve frizzante. Nella sua ricerca suddivisa in tante opere, strettissimo è stato il legame con il nostro quotidiano: l’ha sfogliato a partire dal 1° gennaio 1900 ed ha continuato a sfogliarlo in modo certosino – ufficialmente fino al 2016, anno in cui produsse “Arte e artisti in Varese e Provincia dal 1961 al 1970” – ma in realtà è andato oltre, come aveva spiegato durante la presentazione del libro in biblioteca a Laveno Mombello: “Il boom delle mostre c’è stato nel dopoguerra. Temo che non potrò coprire dieci anni in un volume solo: sono arrivato all’agosto del 1972 e ho già scritto 90 pagine!”. C’è l’anima del Ginetto nella sua scrittura agile, chiara: non è fredda cronaca la sua, ma vita all’insegna del bello. Con un corredo di note che è una miniera di conoscenze. La sua arguzia si manifestava in quelle “nicche” raffinate e spassose che hanno il sapore delle “cronache, commenti e chiacchiericci sull’Arte e sugli Artisti di ieri e di oggi”. Le aveva denominate “Schegge” ed erano giunte al numero 8. Da queste pagine caratterizzate da brevi annotazioni, sapide, curiose e intriganti, emergeva lo stretto rapporto con la Prealpina: non gli sfuggiva un errore ed era pronto ad evidenziarlo con bonomia e all’insegna della solidarietà: “il far bene può essere determinato da una motivo scaramantico: farlo, augurandosi di non riceverne. E’ egoismo? – annotava – Va bene e chi se ne frega? L’importante non è il motivo, ma il risultato”. Il piacere di scrivere era una “fatto innato, già esistente in gioventù, bloccato poi dagli eventi nei decenni dela lavoro e ritornato a galla all’inizio della pensione”, affermava. La frequentazione quotidiana con artisti nel corso della sua vita si è accompagnata alla sua professione di dirigente industriale. Raccontava: “Stavo andando a Molina per salire su un treno per Milano – dove avrei cominciato l’attività di giornalista – quando proprio fuori casa incrociai un’auto che si fermò e dal conducente fui invitato a salire. Era il gran Giovanni Borghi e, ipso facto, mi trovai alla Ignis. Era l’inizio del 1951. Il mio impegno in arte, con scritti e organizzazione di mostre, è soltanto un piccolo atto dovuto, di riconoscenza. All’Arte, ovviamente!”
Federica Lucchini