“Ma allora, nonno, in un certo senso noi discendiamo da quello zucchero! Infatti, se non ci fosse stato, tu non saresti mai tornato a casa, la mamma non sarebbe mai nata e noi non saremmo qui ad ascoltarti. Accidenti che fortuna, tutto merito dello zucchero!”. Giovanni Brunella, classe 1923, alpino del Battaglione Intra, si commuove sempre quando legge questa osservazione del nipote Tommaso, scritta su un quaderno di scuola. Sa che è vera e nel contempo pensa ai compagni che non sono più tornati. Quando si ascoltano le testimonianze dei reduci, sullo sfondo c’è sempre il “non detto”, esperienze così forti che non si riescono a esternare. Sono ricordate nel silenzio, negli occhi che improvvisamente diventano lucidi, in una espressione particolare del viso. Ma l’esperienza dello zucchero è troppo intensa e vitale per non spiegarla. Racconta di lui preso prigioniero dai tedeschi sulle montagne del Montenegro, il 10 ottobre 1943, giorno della festa della Madonna del Rosario, molto sentita a Bardello. Di lui sul vagone bestiame, in un viaggio lunghissimo per giungere in Germania, dove lo aspettavano turni di lavoro massacranti in una fabbrica di filo spinato, fisico logorato, ridotto a 38 kg. e una nostalgia di casa fortissima. Fu un bombardamento nella notte del 23 marzo 1944 (“La notte era illuminata a giorno dai bangala e le sirene non smettevano di suonare” ricorda) ad aprire un varco nel muro di cinta. “Ci avvicinammo -ha raccontato al nipote- al pensiero di trovare qualcosa da mangiare o da coprirci. Quella volta la fortuna fu dalla nostra parte: le bombe avevano colpito un deposito di zucchero e fu la nostra salvezza. Nei giorni seguenti, dopo averne nascosto il più possibile, ne trovammo dell’altro che si era sciolto con il calore della bomba e, diventato caramellato, si era attaccato al pavimento del deposito. A turno e sempre all’erta andavamo a spaccarlo con un piccone e i piccoli pezzi che riuscivamo a staccare, li nascondevamo nei risvolti dei pantaloni o nelle maniche rivoltate delle nostre giacche da lavoro. Sarebbe servito come scorta di cibo per noi e per i nostro compagni: da allora nella nostra camerata non morì più nessuno”. Sorride quando ricorda, prima della prigionia, il capitano Grasso che un giorno mentre gli alpini salivano in montagna, sapendo che Giovanni amava cantare, lo invitò “Dai, taca la Marietina!” perché il canto dava la cadenza al passo e invogliava i compagni che “tiravano i grigi”, cioé si sentivano stanchi. Quando è tornato dalla guerra, da presidente dei combattenti di Bardello, per anni ha sentito il dovere morale di curare i cippi dei compagni non più tornati. In silenzio, perché così doveva essere. La guerra non lo ha abbruttito. E’ una di quelle persone che non si può non stimare con il loro carico di bellezza interiore fatta di coraggio, lavoro, amore per il suo paese e per la sua famiglia e che nella loro semplicità hanno tanto da imparare. Lo sa il gruppo alpini di Bardello che lo ha appena festeggiato per il suo compleanno. Lui si commuove ancora quando ricorda il giorno della liberazione del suo campo di prigionia, il giorno di Pasqua del 1945. La più bella Pasqua che ricordi. E’ tornato a casa il 26 agosto. Mezzo paese era sul ponte che l’aspettava. Al centro, la mamma. Al solo pensiero Giovanni assume una di quelle espressioni che la penna non può rendere.
Federica Lucchini