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Abituiamo i giovani al sacrificio di Felice Magnani

 2 Novembre 2019 |  Pippo | |

C’è nella parola sacrificio l’impronta del sacro, di qualcosa che va oltre i confini del materialismo quotidiano, qualcosa per cui vale davvero la pena di spendere qualche goccia di sudore in più. E’ in questa filosofia che si inserisce un vecchio sistema educativo di cui i genitori erano i garanti, si sentivano eredi di una tradizione venerata, perché parte integrante di una successioni di affetti ai quali gli esseri umani erano legati da vincoli di sangue. In quasi ogni frase la parola sacrificio entrava come un sigillo, come il garante di una buona riuscita nella vita. Ogni conquista, anche la meno olimpica, doveva avere nella sua sintesi non solo il sacrificio, ma lo spirito di sacrificio, quella dilatazione della natura umana che permette di capire qualcosa di più della materia, qualcosa che induce a entrare in altri tipi di realtà, dove ascoltare diventa fondamentale per capire. Nella società di oggi si tende a ridurre, a restringere, a bruciare, a consumare, si tende insomma a vivere senza dare un senso compiuto alle cose che si fanno, come se ogni cosa o fatto fosse la reazione meccanicistica a un caos nel quale gli esseri umani sono tornati con la certezza di esserne i protagonisti o i supereroi. E del sacrificio? E’ rimasta la voglia di fuggirlo, di evitarlo, di scansarlo, come se fosse il colpevole della nostra infelicità quotidiana. In realtà, per quanto si cerchi di fare di tutto per non metterlo in campo, risuona ancora come un monito attraverso le prediche di chi lo ha provato sul campo. C’è ancora infatti chi crede che il sacrificio sia l’anticamera della conquista. Senza alcun dubbio un fondo di verità c’è, la vita è fatta di sacrifici, lo è anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando facciamo finta di non vedere e di non capire, girando il capo dall’altra parte. Il sacrificio è una componente umana della nostra azione, del nostro essere, ci fa apparire più giusto e meritato il nostro impegno, lo fa sembrare meno pesante e poi c’è quello spirito che lo eleva al di sopra delle angustie e delle angosce. In passato lo si adorava, si ricorreva a lui come per legittimare un’impresa, per sancire un diritto, per determinare un destino, per dare un senso compiuto a un’idea o a un’azione. C’era anche chi ne diventava vittima, chi si doveva sottomettere, subendo le sue richieste. La tendenza attuale è quella di minimizzarlo e in molti casi persino di farlo scomparire dalla scena per evitarne l’insolenza e la intromissione. E’ possibile toglierlo di mezzo? Lo si può fare, ma senza la sua presenza e la sua spinta sociale tutto si consuma nello squallore di una pianificazione senza sussulti, che di solito diventa inesorabilmente l’anticamera della noia e dell’alienazione.

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