Non si sarebbe mai piegato a raccogliere per terra quella sigaretta così desiderata o a prendere le bucce di patate così invitanti per uno stomaco vuoto come il suo e come quello dei suoi compagni. Giulio Vanetti, classe 1919, nativo di Inarzo, prigioniero dal 1943 dei tedeschi nel campo di Katowice, nei pressi dei Auschwitz, sapeva che quei gesti rientravano nel programma di angherie a cui erano sottoposti dai loro aguzzini. Fumavano una boccata e buttavano la sigaretta ai loro piedi. Quando loro si gettavano vogliosamente per prenderla, la spegnevano con lo stivale. E quelle bucce sarebbero finite sporcate irrimediabilmente e, nonostante i crampi della fame, immangiabili. Lui, per orgoglio, non ha dato mai questa soddisfazione ai suoi carcerieri. Sapeva che tanto non avrebbe ottenuto nulla. Ma quel ricordo, come tanti della sua prigionia, terminata nel 1945 con l’arrivo delle truppe russe nel campo, era scolpito nella sua anima. Acquisisce un profondo significato la voce degli alunni della scuola primaria di Cazzago Brabbia e Inarzo, i quali hanno donato alla figlia di Giulio, Silvana, un libro composto con la guida delle insegnanti, dal titolo “Libro della memoria”, centrato sui diritti umani, negati a suo padre. E un biglietto che racchiude tutta la loro freschezza “A Giulio Vanetti, affinché si compia il suo volo nel cielo verso la libertà, diritto inalienabile di tutti gli uomini”. Lui l’aveva persa completamente dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Fino ad allora, era impiegato come aiuto motorista in aeronautica, avendo lavorato alla Siae Marchetti. Dalla Sicilia sugli aerei verso l’Africa, accanto al pilota, in un contesto pericolosissimo. Nessuno voleva salire; invogliati con incentivi, tutti rifiutavano. E allora si era costretti. Ma quello che per lui era stato terribile era vedere dall’alto le luci della contraerea nemica di notte: luci che arrivavano da ogni dove e che corrispondevano ad un nemico che voleva colpirlo. Quando giungeva all’acme di un ricordo così intenso e la sua mente non riusciva a sopportare il dolore, si bloccava e cercava di raccontare gli aspetti positivi della guerra come l’amicizia tra soldati. Così calmava l’angoscia. L’8 settembre l’aveva colto operativo all’aeroporto di Corfù. Ed iniziò subito la prigionia con un viaggio sui carri bestiame in Polonia. Vi trascorse due anni indossando la medesima tunica, estate e inverno, al freddo della Polonia con gli zoccoli ai piedi. Tutti i giorni solo un pezzo di pane e una brodaglia. Niente più, nonostante le tante ore di lavoro in fabbrica. “Parlava pochissimo con noi della sua esperienza bellica -spiega la figlia- ma c’era un altro ricordo che per lui diventava inesprimibile talmente ha provato sulla sua pelle la disumanità: un giorno nello spostare delle lastre pesanti, una gli cadde sulla gamba. Malgrado il dolore, continuò a lavorare, ma intanto l’arto si gonfiava e diventava sempre più nero. I suoi carcerieri pensarono che sarebbe deceduto e lo gettarono in mezzo ai morti. Restò così diversi giorni, impressi nella sua memoria in modo indelebile. Poi quando si resero conto che era vivo, lo costrinsero a tornare a lavorare. Una callosità, rimastagli sull’osso frantumato, gli ricordava quotidianamente quell’esperienza”. Ma nel suo stile, evitava di trasmettere messaggi crudeli e allora tornava a parlare delle donne polacche che rischiavano la vita per portare ai prigionieri quel poco da mangiare che trovavano o dell’arrivo dei russi. Era terrorizzato anche lui, come gli altri prigionieri, della pubblicità negativa che i tedeschi avevano fatto nei loro confronti. Invece si rivelarono umani, condivisero con loro il poco cibo che avevano. Al ritorno in Italia sua fidanzata non lo riconobbe: pesava 38 kg. Ma era vivo!. “Ci sono memorie che possono segnare la nostra vita, ma per quanto dolorose divenire esempi di volontà per la ricerca di gesti nuovi e di pace”, ha spiegato l’insegnante Marzia Giorgetti, durante la consegna del libro alla figlia di Giulio Vanetti.
Federica Lucchini