– “Il trio “Alboran” fu una magia di incontro, dove la collaborazione ha sempre vinto sulla competizione. Questo è il concetto che ho imparato dalla musica e che vorrei trasferire in ambito sociale: quando si collabora si va molto più lontano di quando si compete. Viviamo in una società dove il modello capitalistico spinge a competere e non a collaborare e i risultati sono sotto gli occhi di tutti”. L’incontro con il compositore-sociologo Paolo Paliaga, insegnante presso la scuola Europea a Varese, può essere paragonato ad una porta che si apre su altre porte, tanto è la ricchezza dei contenuti che emergono dal colloquio. “Se avessi un’altra vita da vivere, lavorerei sul rapporto tra musica e benessere”. E mentre le porte si schiudono, è interessante conoscere il suo percorso all’insegna anche della solidarietà e dell’impegno verso l’ambiente.
Suo padre, l’avvocato Lucio Paliaga, era un profugo istriano. Quanto ha pesato sulla sua formazione il fatto che non avesse radici?
Il problema è come volgere in positivo qualcosa che apparentemente potrebbe essere una ferita. Ho studiato sociologia, tutta la mia carriera è occupata a studiare i temi della comunità. Forse è qualcosa che ha a che fare col fatto che io non senta una forte appartenenza a una terra, ma mi senta come di passaggio. Mia madre era piemontese, mio padre istriano, noi siamo casualmente nati a Varese, quindi mi manca un radicamento forte. Per cui il mio lavoro intellettuale si è inconsapevolmente orientato per anni su questo tema. La mia tesi di dottorato di ricerca era centrata su uno studio sulla comunità dei Valdesi. Chissà, forse perché loro hanno un forte radicamento nella religione e nel territorio delle valli di Pinerolo. In fondo, è vero che si parla di ciò che ci manca e una forte appartenenza io non l’ho avuta. Ma ho provato, partendo per la Francia, andando a vivere in Piemonte, sposando una moglie proveniente dal sud America, a vivere quest’altro aspetto: quello di essere più libero, di muovermi nel mondo senza vincoli, senza appartenenza, per cui io mi sento uno che può parlare liberamente, dire nelle mie lezioni, sul suo blog o nelle collaborazioni con i giornali, quello che vuole, senza vincoli o timori.
Con mio padre, che mi ha trasmesso la passione per la vela, abbiamo fatto una crociera in barca in Istria, che ho scoperto essere una terra bellissima: partendo da Trieste, abbiamo costeggiato tutta la penisola e siamo andati a Orsera a ritrovare la casa lasciata da lui da un giorno all’altro nel dopoguerra, poi abbiamo raggiunto il cimitero. E’ stata una esperienza forte. Anni dopo sono ritornato con la mia famiglia, sempre in barca per navigare in quelle belle acque per visitare quella bella terra.. E’ qualcosa che non si può raccontare: l’animo si intenerisce.
Questo cosmopolitismo ha influenzato la sua musica?
Certamente. Io sono molto affascinato dalla musica zingara, degli tzigani, questo popolo ariano partito esule dall’India, che ha dato origine a musiche di pulsazione, di malinconia. Ascolto anche tanto musica dell’Europa orientale, macedone, jiddish (a Parigi andavo ad ascoltare i “Bratsch”, jiddish francesi, molto affascinanti). Questa musica, credo, ha influito sulla mia composizione, sempre ispirata da una componente melodica. E cerco come jazzista di emancipare la mia musica dalla parte statunitense del jazz come a voler che la parte europea, melodica ed armonica, debba saldarsi con la sue origini africane, più ritmiche. Sono un autodidatta. Ho studiato a casa con il maestro Stella. Poi, verso i 14/15 anni, ho accolto la proposta di amici di formare una jazz band. Non sapevo niente della musica jazz. Poi ho incontrato Franco D’Andrea, Enrico Pieranunzi e Arrigo Cappelletti. Ricordo di avere anche animato una trasmissione di jazz a radio Varese. Nel frattempo approfondivo ed ascoltavo, senza dimenticare gli studi. Dopo l’Università, sono andato a vivere in Francia per un dottorato di ricerca in Sociologia e anche lì il momento musicale era quello che mi permetteva di riuscire a stare sui libri. Cioè suonavo un po’, poi studiavo e questo era il mio equilibrio. A differenza del lavoro intellettuale, nella musica non ho mai effettuato un tipo di percorso accademico. Ho lavorato perché le idee diventassero composizioni studiando l’armonia, consapevole che non si può lavorare d’istinto. Il mio primo disco a Parigi è stato realizzato con un gruppo multietnico, con il quale ho girato la Spagna. Si chiamava “Faena”, dal nome della danza del torero prima di dare l’ultimo affondo. Poi mi sono trasferito in Piemonte nela casa dei miei nonni materni nel Canavese che è stato un luogo magico: sperduta nella campagna, con un’unica stufa a legna, grazie al suo silenzio, ha favorito la realizzazione del primo disco a mio nome “Giro vago” (con il grande Ares Tavolazzi) pubblicato con la Caligola record di Mestre. Ancora adesso, credo sia un buon disco. Poi ho cominciato a fare esperienze diverse: un disco con solo musicisti di Varese perché mi piaceva l’idea di mettere assieme tutta gente locale e nacque “Azul”. Non posso dimenticare l’esperienza con Alberto Borsari, ex-chitarrista che suonava l’armonica dopo un grave incidente che lo obbligò alla carozzella. Con lui realizzai “Meriggi e ombre” dalla lirica di Montale in piano solo ed armonica cromatica.
Ho fatto diverse esperienze emozionanti tra cui su Rai Radio 3 a Roma la trasmissione “invenzione a due voci”. Poi è nato Alboran Trio: una magia di incontro, dove la collaborazione vinceva sulla competizione. Da allora si sono aperte per noi le frontiere dell’Europa e ho viaggiato in numerosi e prestigiosi festival grazie all’indefesso lavoro manageriale di mia moglie Catalina. Il duo con Roberto Plano è praticamente nato sempre da un moto di solidarietà: abbiamo fatto diversi per la “fondazione Giacomo Ascoli” e uno anche per il Cuamm (medici per l’Africa) di Varese.
Lei è molto impegnato in campo ambientalista
Sono il presidente del Comitato Ambiente Verbano che ha come scopo la tutela della salute nell’area attorno a Caravate dove esiste un’impresa che ha forte impatto ambientale e ha cambiato il combustibile da oli e carbone a CDR (combustibile da rifiuti). Trentamila tonnellate: come Comitato vogliamo sapere se questo fatto ha una ricaduta sulla salute dei nostri figli. Nel 2011 è cominciato un percorso lungo, difficoltoso di un gruppo di cittadini che è composto da un oncologo, un docente di diritto ambientale, un insegnante di economia, un ingegnere e adesso da un assessore all’ambiente, oltre che da cittadini volonterosi e generosi. Un gruppo molto pacato, tranquillo, ma determinato a scoprire che le imprese devono fare sì le imprese, ma non ai danni dei cittadini. Abbiamo lavorato per preparare congressi, abbiamo approfondito con convegni con i migliori esperti del settore fino ad arrivare a capire che per tutelare la salute bisogna fare una valutazione di impatto sanitaria. Ci sono voluti cinque anni di lavoro per sensibilizzare le diverse istituzioni. E’ un progetto-pilota di rilievo nazionale. Se ce la facciamo qualsiasi altra realtà italiana può seguire il nostro operato. C’è da lottare insieme, non chiudersi nella nostra monade di interessi singoli perché portiamo a casa una cosa importante per tutta la comunità. Condividere questa dimensione di sensibilità sull’ambiente porta a una qualità di vita migliore.
BOX
In questo momento sto lavorando a due progetti: pubblicare il CD “Inspiration” con Roberto Plano per l’etichetta viennese Col-Legno e sto lavorando alla versione in duo di Alboran con il contrabbassista Dino Contenti. Il duo permette delle libertà incredibili che insieme all’affinità già collaudata può produrre esiti imprevedibili ed entusiasmanti. Sto poi approfondendo i seminari esperienziali sul suono per non musicisti che avevo preparato anni fa.
Federica Lucchini
Video di repertorio
Anno 2007-2008