“Una bambina con la taglia sul capo”. “Ho scelto questo titolo perché i ragazzi delle scuole sanno cosa è una taglia, ma sanno poco di come quotidianamente sono state applicate le leggi razziali. Con la loro emanazione nel 1938 io e mio fratello Alberto non abbiamo potuto frequentare la scuola pubblica”. Stella Bolaffi, di origine torinese, è conosciuta a Varese per aver svolto un’intensa attività in campo psicologico prima presso la Scuola Europea, poi ai Servizi Socio-Assistenziali come consulente e infine come supervisore all’asilo Mariuccia di Porto Valtravaglia. Quando nel salotto della casa racconta l’esperienza di bambina ebrea, vissuta nella clandestinità nelle valli di Lanzo torinese, spesso chiude gli occhi e con voce decisa scandisce le parole: quel trascorso che è “scolpito” in lei, trasmesso alle giovani generazioni, costituisce un insegnamento vivo, palpitante per comprendere quante persone generose abbiano messo a repentaglio la loro vita per salvare gli ebrei durante la persecuzione nazifascista. Ma è soprattutto un percorso nella sua interiorità di “bambina dagli affetti stracciati”, come si definisce, che ha dovuto ricostruirsi dopo un lungo percorso in analisi, fino a diventare lei stessa, laureata in lettere antiche e filosofia, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e della International Psychoanalytical Association.
Non solo lei aveva la taglia sul capo, ma tutta la sua famiglia: il padre Giulio, che continuava nella direzione della ditta filatelica, fondata dal padre Alberto nel 1890. Questi, poiché i suoi provenivano da Gibilterra, sulla carta d’identità risultava suddito inglese di razza ebraica. “C’era l’imbarazzo della scelta per essere arrestati dalla polizia fascista – spiega Stella – Mio padre molto coraggiosamente, invece di scappare in Svizzera, scelse la strada della Resistenza, divenendo capo partigiano in val di Susa. Noi bambini non sapevamo dove fosse sparito e neanche i suoi partigiani erano a conoscenza della nostra esistenza. Incombeva il grave rischio che ci catturassero”. La narrazione di Stella dà la dimensione della paura quando descrive la vita in una villa affittata a Mondrone in val d’Ala di Lanzo, assieme ai nonni paterni e al resto della famiglia nell’autunno del 1943: “Quando arrivavano i rastrellamenti c’era sempre una rete clandestina che avvertiva per telefono. Avevamo uno zainetto pronto; dovevamo farcela a scappare in dieci minuti, prima che la colonna arrivasse. Fuggivamo di corsa in una baita con mio nonno malato di cuore. Una notte nevicava tantissimo ed era mancata la luce. Per fortuna due coraggiosissimi montanari ci hanno messo a disposizione due stanze vuote dove ci hanno nascosto. La polizia era venuta per mettere i sigilli alla nostra villa e deportarci. Avevano i cani lupo. La nostra fortuna è stata la neve copiosa che ha coperto le nostre orme. Quella volta, il rastrellamento si prolungò per ben dieci giorni e come Anna Frank siamo restati nascosti in nove in due camerette. E’ tutto il paese che ci ha difesi e non ha denunciato Gabriella Foà, una maestra semplice, seria, coraggiosa, che ci ha insegnato a leggere e a scrivere e ci ha accompagnati nella nostra crescita, dal momento che nostra mamma era morta. I Giusti delle valli di Lanzo e Susa, che non ci hanno mai denunciati e a cui ho dedicato il mio libro “La balma delle streghe – L’eredità della mia infanzia tra leggi razziali e lotta partigiana” (edizione Giuntina), con la prefazione di Paolo Rumiz, hanno a Ceres dal 1999 una lapide, apposta dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, in riconoscenza del loro silenzio salvifico, per aver rinunciato a riscuotere taglie, anche se ciò gli avrebbe portato i benefici economici di cui abbisognavano”. Stella non dimentica Rita, una coraggiosissima impiegata della ditta Bolaffi che, a rischio della vita, portava a Vonzo, una frazione di Chialamberto, medicinali, alimenti e “le lettere di mio padre – riprende – che misteriosamente arrivavano a un indirizzo clandestino”. Non dimentica l’avvocato Massimo Ottolenghi, “Bubi”, figura illuminata, scomparso in questi giorni, che, grazie ad una rete clandestina da lui costituita, ci aveva fornito documenti falsi. “Per me la guerra ha significato rumore, non solo dei bombardamenti, di fucilazioni, ma di questo mondo persecutorio che mi penetrava. La balma, questa caverna di Vonzo, rispecchiava il mio inconscio e le streghe erano tutte le mie fantasie persecutorie ed una mia persecuzione interiore, dovuta alla sparizione dei miei affetti più cari. Quando tutto è finito e siamo tornati a Torino, sono ricominciati i dolori: ero una vera selvaggia, mai stata seduta in un banco e la prima volta che mi hanno chiamato Bolaffi ho avuto un sussulto. Per più di due anni era stato un cognome annullato. Avevamo passato notti intere a strappare le pagine dei vecchi quaderni, anche le cifre sui fazzoletti per non farlo comparire. Noi ci chiamavamo Ferrari. Avevamo perso la nostra identità”.
Federica Lucchini